CLASSICA(ovvero "Le cose della Flotta")STORIA DELLA MARINA DI ROMA
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Libro I Libro II Libro III Libro IV Libro V Libro VI Libro VII Libro VIII Libro IX Libro X Libro XI Libro XII |
Le origini La guerra Annibalica e Scipione l'Africano Le grandi coalizioni marittime nell'Arcipelago Il consolidamento transmarino e Scipione Emiliano Le guerre Mitridatiche e Lucio Lucullo Pompeo Magno e il dominio del mare Giulio Cesare - Dall'Oceano all'Impero Cesare Ottaviano, Marco Agrippa e la Pax Augusta L'Impero nel primo millennio L'Impero nel secondo millennio Appendici marittime Fasti Navali, glossario e indici |
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La pubblicazione di una "storia della Marina di Roma", materia apparentemente avulsa dalle tematiche d'attualità, rappresenta un evento non particolarmente atteso, né di cui possa comunemente venir avvertita una particolare necessità. Ritengo, quindi, perlomeno doveroso fornire qualche elemento esplicativo sulle ragioni che mi hanno indotto a proporre questo ponderoso argomento all'attenzione dei Lettori della Rivista Marittima. E lo farò riferendomi alle tre domande elementari in cui può essere parzializzato l'insieme delle possibili perplessità suscitate da questa iniziativa.
Perché "Roma"?
Basandosi su di un approccio puramente "notarile", si può
anche considerare che l'Italia tragga le proprie origini da eventi estremamente
recenti, avvenuti in anni che da noi distano non più di mezzo secolo
o poco più di un secolo, a seconda che ci si riferisca al travaglio
da cui scaturirono le nostre attuali istituzioni repubblicane o al processo
di unificazione politica della Penisola. Ma la storia nazionale è
evidentemente più antica; e non di secoli, ma di millenni. Se, infatti,
l'anelito unitario che ardeva durante l'intero periodo risorgimentale era
basato sulla coscienza del comune patrimonio storico, linguistico e culturale,
tale coscienza perdurava da tempi ben più remoti ed era già
stata magistralmente interpretata non solo da Dante e Petrarca, ma anche
da tutta la moltitudine che animò l'era "magica" del Rinascimento
italiano; quest'ultimo, a sua volta, affondava saldamente le proprie radici
nella civiltà di Roma, la cui cognizione era stata in buona parte
custodita (vi furono comunque perdite dolorosissime) attraverso il Medio
Evo.
D'altro canto, è proprio nell'antica Roma che è nata e si
è affermata la concezione unitaria dell'Italia, sempre privilegiata
e prediletta nel più ampio contesto dello sterminato Impero. Fin
dall'epoca delle guerre puniche, tale sentimento era già radicato:
quando Annibale varcò le Alpi, a Roma si inorridiva all'idea ch'egli
potesse scorrazzare a suo piacimento per l'Italia. A partire dal periodo
di Augusto, tutti i maggiori scrittori di Roma hanno parlato dell'Italia
come della patria comune.
Insomma, anche se l'Italia viene ora perfino considerata, da taluni, alla
stregua di una bizzarra invenzione di Mazzini e Cavour, chiunque abbia
avuto il tempo e la pazienza d'indagare a ritroso attraverso i secoli può
constatare ch'essa rimane pur sempre una realtà antica oltre un
paio di millenni, splendida figlia e legittima erede di Roma.
Perché "la Marina" di Roma?
Concentrando l'attenzione sugli aspetti marittimi, l'eredità dell'antica
Roma non è certo di minor rilievo. Innumerevoli generazioni di marinai
provenienti dai porti e dalle coste d'Italia si susseguirono lungo l'intero
arco della storia di Roma, assicurando la continuità dei rifornimenti
navali, esercitando con le unità da guerra il controllo del Mediterraneo
e delle altre acque d'interesse, e spingendo le proprie vele fino ai limiti
del mondo allora conosciuto, e talvolta anche oltre. I loro cantieri misero
a punto le tecniche basilari dell'architettura navale moderna.
Le esperienze marinare e cantieristiche romane furono custodite e messe
a frutto anche dopo le invasioni barbariche che determinarono la caduta
dell'Impero romano d'Occidente: Aquileia, il celeberrimo porto romano del
Mare Adriatico, generò Venezia; dalle marinerie della "Campania
Felix", nacque Amalfi; i due maggiori porti romani del Mar Ligure,
Pisa e Genova, mantennero le proprie tradizioni marinare e seppero valorizzarle
autonomamente non appena ne ebbero la possibilità. Venezia fu quella
che più autorevolmente e più a lungo rappresentò una
continuità ideale con il potere marittimo dei Romani e, a giusto
titolo, si proclamò "figlia primogenita" di Roma; essa
perse la propria autonomia solo all'arrivo dell'onda napoleonica; ma le
sue tradizioni, così come quelle delle altre città marittime
italiane, si tramandarono ancora, confluendo poi nella marineria dell'Italia
unita.
L'emblema araldico della Marina Militare, che campeggia nella bandiera
nazionale navale, contiene in sé la più felice sintesi della
nostre ricche tradizioni marittime, simboleggiate dallo stemma - con le
quattro Repubbliche Marinare - sovrastato dalla "corona navale"
romana. Questa corona, in particolare, ha un significato ben preciso.
"Le corone militari" più note sono: "la
trionfale, l'ossidionale, la civica, la murale, la castrense, la navale"
[Gell.1]; quest'ultima, considerata "la più
alta tra le onorificenze militari" [Sen.2], "ha come segno
distintivo la riproduzione dei rostri delle navi" [Gell.1].
Le corone navali, che "sogliono farsi di oro" [Gell.1],
sono "famose per essere state conferite, fino ad ora, a due personalità
in particolare, Marco Varrone, che ne fu insignito da Pompeo Magno a conclusione
della guerra contro i pirati, e Marco Agrippa, che la ebbe da Cesare Augusto
al termine delle campagne condotte, anche queste contro i pirati, in Sicilia"
[Plin.3]. Ma anche l'Imperatore Claudio, reduce dalla sua campagna in Britannia,
volle beneficiare in qualche modo di quel prestigioso simbolo: "affisse
sul frontone del Palazzo una corona navale", "come insegna del
varcato e quasi domato Oceano" [Svet.].
Perché "una Storia" della Marina di Roma?
Leggendo quanto è stato scritto nel periodo dell'antica Roma, si
rimane stupiti sia dalla naturalezza con cui gli autori dell'epoca parlano
delle questioni marittime, come se si trattasse di argomenti notoriamente
ben conosciuti nella società in cui vivevano, sia dalla capacità
dei Romani di avvalersi dello strumento navale, entro l'intera gamma delle
possibili sue forme d'impiego. Poiché tale gamma è rimasta
concettualmente invariata nei secoli, si potrebbe essere tentati di trarre
"gli ammaestramenti d'ogni specie che son riposti nelle illustri
memorie" [Liv.1].
Ma, anche senza arrivare a tanto, sono convinto che la storia della Marina
di Roma, specie se percepita attraverso le testimonianze pervenuteci dall'antichità,
possa offrire un duplice beneficio: il primo è quello di mostrarci
che questi nostri "padri" Romani, troppo spesso idealizzati fino
a renderceli alieni, sono molto più vicini a noi di quanto comunemente
si pensi; il secondo è quello di fornirci la consapevolezza di non
essere dei "trovatelli" del mare, alla ricerca di adozioni o
di modelli da imitare, ma di avere, anche nel campo navale, progenitori
più che qualificati.
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Nei primi cinque secoli della sua storia, Roma - fondata "sulle
rive di un fiume perenne e costante" [Cic.6], a breve distanza
dal mare - ha progressivamente ampliato le proprie comunicazioni marittime,
utilizzando, in un primo tempo, lo scalo fluviale sul Tevere e, successivamente
(dopo appena un secolo), anche e soprattutto il porto marittimo di Ostia.
Costretti, fin dall'inizio, a guardarsi dai propri vicini sui confini terrestri,
i Romani - pur mantenendo la fierezza delle loro origini agresti e pastorali,
oltre a qualche nostalgia per i miti bucolici dell'età dell'oro
- compresero subito che loro sicurezza dipendeva strettamente dalla possibilità
di navigare; ciò al fine di assicurare l'afflusso dei necessari
rifornimenti e di mantenere il controllo delle coste e delle acque d'interesse.
Il potere marittimo rappresentò quindi, per essi, una necessità,
così come venne indicato, con sicura efficacia, dal celeberrimo
"navigare necesse est" di Pompeo Magno.
Per la sicurezza delle coste (quelle laziali e quelle delle popolazioni
alleate) e della crescente flotta mercantile utilizzata, Roma provvide
ad estendere il proprio controllo marittimo, con le navi da guerra di cui
si era dotata, fino al momento in cui si rese inevitabile il confronto
con la maggiore potenza marittima esistente nel Mediterraneo: Cartagine.
La prima guerra Punica fu, pertanto, l'occasione per uno stupefacente salto
di qualità della Marina di Roma. Nell'arco di soli venti anni, il
dominio del mare fu perseguito dai Romani con straordinaria determinazione,
a prezzo di notevolissime perdite (circa 800 navi da guerra, di cui oltre
600 affondate in occasione di tempeste), e fu conseguito dopo aver inflitto
alla rivale cinque sconfitte navali (contro una sola subita) e la perdita
di circa 530 navi da guerra (oltre 250 affondate; le altre catturate).
Dopo la decisiva battaglia navale delle Egadi (10 marzo 241 a.C.), "essendo
ormai i Romani padroni incontrastati del mare" [Pol.1], i Cartaginesi
si rassegnarono a richiedere la pace al vincitore, Caio Lutazio Catulo.
Dopo il termine della prima guerra Punica - inclusa nella prima parte
di "Classica" - i Romani dimostrarono di aver perfettamente messo
a fuoco i principi basilari della gestione del potere marittimo. Non è
certamente casuale che le riflessioni del Mahan, considerate fra le fonti
più autorevoli della concezione anglosassone del "sea power",
abbiano inizialmente preso a riferimento le operazioni delle forze marittime
di Roma nel corso della seconda guerra Punica. Lo stesso Mahan, essendosi
soffermato ad analizzare accuratamente tale aspetto, comprese bene che
"il predominio romano in mare ebbe un'efficacia risolutiva sul corso
della guerra"; ciò, fermo restando che "il controllo marittimo,
per quanto effettivo, non implica che qualche nave isolata o reparto navale
non possa allontanarsi dal porto, attraversare acque più o meno
frequentate, effettuare incursioni moleste su punti non protetti di una
costa estesa, entrare in porti soggetti a blocco. Al contrario, la storia
ha dimostrato che tali elusioni sono sempre possibili, entro certi limiti,
alla parte più debole, comunque grande sia il divario di potenza
navale." (*)
Tale considerazione, la cui veridicità risulta di tutta evidenza
anche per chi abbia solo qualche minima esperienza di attività operativa
in mare, è stata comunque richiamata per fare in modo che il Lettore,
soffermandovi adesso l'attenzione, possa, fin dal primo capitolo del presente
fascicolo, meglio assaporare questo primo saggio dell'esercizio del potere
marittimo da parte dei Romani, valutando soprattutto la valenza strategica
delle scelte relative alla gestione dello strumento navale.
Le vicende narrate sono quelle comprese fra la vittoria navale delle
Egadi ed il termine della seconda guerra Punica, originariamente denominata
"guerra Annibalica".
"Non mi sembra estraneo al mio piano iniziale raccomandare ai lettori
di prestare attenzione alla grandiosità della lotta ingaggiata dai
due stati di Roma e Cartagine. Gran meraviglia suscita invero il fatto
che, mentre erano impegnati nella guerra per l'Italia e contemporaneamente
nella lotta non meno difficile per l'Iberia e non potevano prevedere cosa
sarebbe accaduto essendo ancora incerto l'esito dei combattimenti, i due
contendenti non si siano accontentati di queste imprese, ma abbiano iniziato
pure la lotta per il possesso della Sardegna e della Sicilia"
[Pol.1] oltre al confronto indiretto nella guerra Macedonica.
Nell'esporre l'argomento, non si sarebbe potuto trascurare di tratteggiare, anche con l'inserimento di qualche limitato elemento aggiuntivo, la personalità vincente del giovane Publio Cornelio Scipione (che sarà poi ricordato come l'Africano maggiore). Infatti, se le straordinarie qualità di Scipione subito infiammarono d'ammirazione i Romani, se la sua fama si è mantenuta splendente dall'evo antico a quello moderno, se perfino il suo "elmo" ancora permane, nonostante tutto, nell'Inno nazionale d'Italia, va sottolineato ch'egli ottenne i suoi successi grazie ad una lucidissima visione strategica - che tenne in massimo conto i fattori fondamentali del potere marittimo - e ad una rimarchevole capacità di utilizzare tatticamente le forze marittime, sfruttandone le varie potenzialità in ragione delle esigenze prioritarie, senza lasciarsi vincolare dalle consuetudini.
Per coloro che non hanno sufficiente dimestichezza con certa terminologia,
va precisato che per "forze marittime" si intendono quelle che
operano nell'ambiente marittimo (mare e coste). Nel caso dei Romani, esse
includevano, oltre alle forze navali (navi da guerra ed onerarie) ed ai
relativi equipaggi (marinai e rematori: "nautae" e "remigium"),
anche la milizia navale (cioè la fanteria di Marina): questa operava
imbarcata - quale forza combattente in occasione degli arrembaggi - o a
terra per effettuare incursioni, sbarchi anfibi o altre missioni sulla
costa (e talvolta anche nell'entroterra). In latino, i militi navali venivano
indifferentemente chiamati "navales socios" (denominazione
che richiama le origini, quando essi venivano forniti dagli alleati, cioè
dalle altre, più esperte, marinerie della Penisola) o "classicos".
Poiché nelle traduzioni in italiano vi è spesso qualche confusione
fra i militi navali e gli equipaggi, ci si è riferiti, ovunque possibile,
ai termini di volta in volta utilizzati dagli autori latini.
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(*) Tradotto da: Captain A.T. Mahan, The influence of sea power upon history, Sampsonlow, Marston, Saerle & Rivington Ltd, London, 1889.
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Se nella prima guerra Punica (le cui epiche vicende sono state narrate
nella I parte di "Classica") i Romani riuscirono, a coronamento
di un gigantesco ed indomabile impegno sul piano prettamente navale, a
strappare ai Cartaginesi il dominio del mare, fu nella seconda guerra Punica
(o "guerra Annibalica", che è stata oggetto della II parte
di "Classica") che essi ebbero l'occasione di utilizzare il potere
marittimo per contenere, contrastare e finalmente eliminare la tremenda
minaccia recata, per impulso di Annibale, dalla città rivale.
Nel corso di tale conflitto, infatti, la grande strategia marittima di
Roma venne retta dal Senato con perspicacia e lungimiranza, fronteggiando
tutti gli imprevisti - ivi incluse le gravissime situazioni di emergenza
generate dall'incontenibile progressione di Annibale nel teatro terrestre
- con una serie di provvedimenti calibrati con accortezza ed indirizzati
in modo coerente con la trama che veniva tessuta per irretire progressivamente
ed inesorabilmente il nemico: precludendogli l'accesso al mare in Italia
ed il controllo della Sicilia, recidendo le sue linee di comunicazioni
marittime, privandolo del suo serbatoio logistico in Spagna e della possibilità
di ricevere un consistente aiuto da parte della Macedonia, costringendolo
poi a combattere in Africa ed a rassegnarsi infine alle condizioni della
pace ed alla distruzione della sua flotta.
Sarebbe perlomeno singolare supporre che ciò sia stato frutto di
una fortunata casualità anziché, come tutto lascia intendere,
di un'ampia visione strategica e di una sicura maestria nel gestire le
risorse disponibili, avvalendosi soprattutto del potere marittimo per ottenere
un complesso di risultati - grandi e piccoli, prescelti con il consueto
pragmatismo ed opportunamente mirati - tali da concorrere in modo determinante
al conseguimento della vittoria finale.
Con l'avvenuta acquisizione della piena maturità della propria
originale concezione marittima, Roma entrò, in quel periodo, nella
più importante fase della sua storia. I Romani, infatti, costretti
fin dai primi secoli dopo la fondazione dell'Urbe a lottare ed a navigare
per la propria sopravvivenza, erano stati in un primo tempo impegnati a
combattere "intorno alla stessa città con i popoli confinanti"
[Flo.1], riuscendo infine ad affermarsi nel "Lazio che comprende
la foce del Tevere e Roma, capitale del mondo, sita a 16 miglia [~23,7
km] di distanza dal mare" [Plin.1]. "Questa è la
prima età del popolo romano, per così dire la sua infanzia".
Nel successivo periodo, che "si potrebbe definire l'adolescenza"
[Flo.1], i Romani avevano potuto estendere la propria influenza sulle altre
regioni della Penisola e sul Mediterraneo centrale e occidentale.
A quel punto, il popolo romano "realmente cominciò ad essere
robusto": essendosi rese possibili le prime proiezioni oltremare
verso le penisole iberica e balcanica, iniziò la fase della "giovinezza
dell'impero". "Questa fu la terza età del popolo
romano, quella transmarina, nel corso della quale, osando uscire dall'Italia,
esso portò le armi in tutto il mondo" [Flo.1].
Questa età transmarina (*) fu quella in cui Roma, per l'effetto combinato delle sue esigenze di sicurezza sul mare e delle sue notevoli capacità di dominio navale, realizzò la propria progressiva espansione marittima, prima sulle isole più vicine, poi sulle coste dell'Iberia, della Dalmazia e dell'Ellade, passando in seguito in Asia ed in Africa, fino ad acquisire un completo controllo tutto intorno al Mediterraneo. Se, per la propria espansione, Roma avesse contato prioritariamente sulla forza delle proprie legioni e, trovandosi a disagio sul mare - come ama ripetere chi poco conosce della Storia - avesse relegato la flotta ad un ruolo di mero concorso alle operazioni terrestri, essa avrebbe creato, secondo la logica, un impero continentale. Il carattere eminentemente marittimo dell'impero romano, che si sviluppò attraverso il mare fino ad occuparne tutte le rive e che utilizzò il mare stesso quale via di comunicazione e di raccordo (anziché circondarsene, quale limite invalicabile per le conquiste terrestri), ci fornisce l'evidenza della naturale vocazione marittima dei Romani e della non casualità delle scelte transmarine per mezzo delle quali Roma "pacificò tutto il mondo" [Flo.1].
In questa III parte di "Classica", ritroviamo "Annibale
che, vinto in Africa, esule e insofferente della pace, cercava in tutto
il mondo un nemico per il popolo romano" [Flo.1], Alle nuove sfide
lanciate, in successione, dai re Filippo V di Macedonia ed Antioco III
il Grande di Siria, i Romani risposero con spedizioni transmarine in Grecia
ed in Asia, raccogliendo intorno a sé, soprattutto per le operazioni
marittime nell'Egeo (l'Arcipelago per antonomasia), delle ampie
coalizioni che non potrebbero non richiamare alla mente quanto si è
recentemente visto in vari teatri di crisi, ed in particolare nel Golfo
Persico.
"Non vi fu altra guerra più temibile per la sua fama".
"Ne certo vi era nulla che più della Siria fosse fornita abbondantemente
di uomini, ricchezze, armi" [Flo.1]. Inoltre, la "Siria
produce il cedro che si adopera per le triremi." [Teof.].
Nell'ultimo capitolo, l'attenzione viene nuovamente concentrata sul
controllo marittimo intorno alla nostra Penisola e sui confini stessi di
questa Italia di cui i Romani seppero adeguatamente apprezzare l'assoluta
unicità: "in tutto il mondo, per quanto si estende la volta
celeste, la regione fra tutte più bella per quei prodotti che giustamente
occupano il primo posto nella natura è l'Italia, regina e seconda
madre del mondo, per i suoi uomini e le sue donne, i suoi capi e i suoi"
militi, "la superiorità nelle arti, la rinomanza dei suoi
geni, e ancora la sua posizione geografica e la salubrità del suo
clima temperato, il facile accesso offerto a tutti i popoli, le coste ricche
di porti, il soffio benigno dei venti" [Plin.4].
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(*) Accogliendo volentieri in eredità questo aggettivo (in latino: "transmarina" [Flo.2]), mi sembra opportuno che, nell'adottarlo in italiano, gli venga attribuito il più ampio significato derivante dalla sua duplice semantica ("che attraversa il mare" e "che sta al di là del mare"): con un'ottica consapevolmente marittima, dovremo quindi considerare "transmarino" ciò che si svolge in mare e, successivamente, anche nei pressi o all'interno di una costa oltremare.
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L'attenzione di Roma verso le proprie esigenze marittime, manifestatasi fin dalle origini - periodo regio e primissimi anni della repubblica - in chiave commerciale e difensiva, si è progressivamente acuita in termini di controllo delle coste, dei porti e delle acque d'interesse, fino a tramutarsi in un'autentica maestria nell'acquisizione e nella gestione del potere marittimo nel periodo che va dalle prime due guerre Puniche fino al conflitto contro Antioco il Grande, re di Siria. In quella straordinaria fase storica, a cui abbiamo assistito percorrendo le vicende narrate nelle prime tre parti di "Classica", i Romani hanno messo in luce, con netta evidenza, la loro naturale vocazione marittima: nell'arco di circa settanta anni, essi sono passati dalla costruzione della loro prima grande flotta per la conquista della Sicilia, alla proiezione delle loro forze oltremare, verso le coste dell'Illiria, della Spagna, della Grecia, dell'Africa settentrionale e dell'Asia minore. Nel contempo, essi non hanno trascurato di rafforzare il proprio dominio sul Mediterraneo centrale, assicurandosi il possesso delle principali isole che circondano la nostra Penisola, ivi incluse, oltre alle tre isole maggiori, Pantelleria, Malta, Corcira (Corfù) e Cefalonia, nonché varie isole della Dalmazia, fra cui Faro (Lesina) ed Issa (Lissa). Per finire, essi hanno garantito la sicurezza delle coste anche ai confini occidentale ed orientale d'Italia, estirpando la pirateria ligure, a ponente, ed assicurando il controllo delle acque a levante con l'insediamento della colonia marittima di Aquileia e con la pacificazione dell'Istria.
A quel punto, se la situazione dell'Italia, sotto l'ottica marittima,
poteva considerarsi opportunamente sistemata, rimaneva ancora da consolidare
l'egemonia romana sulle altre sponde del Mediterraneo, ove i possedimenti
di Roma ed i trattati di amicizia con le nazioni rivierasche permanevano
alquanto vulnerabili a fronte dei sempre possibili cambi d'umore dei vari
popoli o delle personali ambizioni dei singoli sovrani o governanti. Per
poter adeguatamente fronteggiare i rischi a cui gli interessi romani oltremare
erano inevitabilmente esposti, si rendevano necessarie delle misure connotate
da una forte efficacia dissuasiva, e ciò non poteva prescindere
da un rafforzamento della supremazia marittima, soprattutto ai fini della
sicurezza delle linee di comunicazione e della capacità di proiettare
e sostenere, dal mare, delle forze di rilevante consistenza.
Tale consolidamento "transmarino" (in mare ed oltremare, secondo
la definizione già data) è appunto l'oggetto della IV parte
di "Classica", che abbraccia poco più dell'arco dell'intera
vita di Scipione Emiliano. A questo fascinoso personaggio, universalmente
celebrato nell'antichità e che tanto peso ha avuto nella storia
di Roma, si è lasciato qualche spazio anche al di là delle
questioni prettamente navali, come già si è fatto per il
primo "Africano".
Per contro, la trattazione di alcune importanti operazioni oltremare (vds.
Cap. XXXVIII e XXXIX) è purtroppo carente di informazioni proprio
sugli aspetti navali; ma, per quanto un po' noiose, quelle parti risultavano
comunque essenziali nel grande quadro del "consolidamento transmarino".
Nella storia di Roma, questo periodo conclude la prima fase transmarina,
quella che precede la lunga serie delle drammatiche contese e guerre civili
che hanno caratterizzato la travagliata costruzione dell'Impero.
Mi rendo certamente conto che queste suddivisioni del continuo temporale
in grandi blocchi di eventi omogenei, oltre ad introdurre una semplificazione,
piuttosto sommaria, nell'indecifrabile complessità dello sviluppo
della storia, parrebbero quasi sottintendere l'esistenza di un preordinato
disegno volto alla dominazione di Roma su tutte le sponde del Mediterraneo.
Sappiamo bene che non è così: gli stessi Romani dell'epoca
degli Scipioni si sarebbero molto stupiti di tale prospettiva.
Tuttavia, non essendo nemmeno pensabile che l'espansione transmarina sia
stata il frutto di una felice sequenza di eventi prodotti dalla casualità,
è evidente che vi era in Roma stessa una speciale attitudine ad
assumere, di volta in volta, le decisioni più appropriate, ad intraprendere
le conseguenti azioni ed a portarle a compimento: quale altra città,
"che disponeva in origine di sole tre migliaia di uomini, nel giro
non compiuto di seicento anni, pervenne con le proprie forze ai confini
del mondo?" [Giul.1].
La familiarità con le questioni marittime doveva, pertanto, essersi
stabilmente radicata in entrambi i soggetti della repubblica: il Senato
ed il popolo di Roma.
Del primo, è ben noto che ne "seppe cogliere il vero aspetto
solo colui che lo definì un consesso di re" [Liv.4]; ma
ai "Padri coscritti" non bastavano la regale maestà e
saggezza, essendo "necessario che il senatore conosca a fondo le
condizioni dello stato, la forza" dello strumento militare ["quid
habeat militum"], "la consistenza dell'erario, quali siano
gli alleati, gli amici, i popoli tributari, le leggi, le condizioni e i
trattati" [Cic.4]; essi "badano particolarmente a intraprendere
guerre giuste, e a non prendere decisioni casuali o precipitose quando
si tratta di tali argomenti" [Diod.2]. Non è, quindi, sorprendente
che, nella gestione delle crisi, il Senato riuscisse a percepire con chiarezza
le linee d'azione più rispondenti alla difesa degli interessi di
Roma e dei suoi alleati oltremare.
Nelle operazioni belliche, "il popolo romano fu spesso sopraffatto
dalla forza e vinto in molti combattimenti, ma in una guerra mai: ecco
tutto" [Lucil.].
Non mancarono certo gli errori, talvolta anche reiterati e con conseguenze
tragiche, ma i Romani raccomandavano perennemente a sé stessi di
attenersi a principi etici ch'essi non disprezzavano come "retorici":
"Amiamo la patria, obbediamo al Senato, aiutiamo gli onesti; non
curiamoci del profitto dell'oggi, diamoci pensiero della gloria di domani;
teniamo per ottimo quel ch'è giusto; speriamo si avveri ciò
che desideriamo, ma adattiamoci a quello che la sorte ci dà; teniamo
presente, infine, che pur negli uomini più forti e più grandi
il corpo è mortale, immortale invece lo spirito, e perenne la gloria"
[Cic.15].
E, quando le cose si mettevano male, non ammettevano mai che un insuccesso
potesse risultare definitivo ed irreversibile, ma si impegnavano con maggior
lena, ricercando con acume e pragmatismo ogni altra residua possibilità:
"La vita umana è così, come quando tu giochi ai dadi:
se quel colpo, di cui ci sarebbe stato bisogno, non viene, bisogna correggere
coll'abilità quello che il caso ha fatto venire" [Teren.].
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Roma inizia ad affacciarsi direttamente sul mare (fondazione di Ostia)
nella prima metà del II secolo della sua esistenza. I commerci navali,
avviati fin da quel secolo, si sviluppano in modo significativo nel III
e IV secolo (trattati navali con Cartagine e Taranto), con la protezione
di qualche nave da guerra. Ma è nel V secolo che Roma inizia a pensare
in termini di potere marittimo, costituendo la sua prima Marina da guerra
(cattura della flotta anziate ed istituzione dei Duumviri navali), fino
a sfidare la maggiore potenza navale del Mediterraneo e ad ottenere su
di essa la prima vittoria navale (Caio Duilio a Milazzo). Viene poi il
VI secolo in cui, oltre alla sua perentoria affermazione sul mare (vittoria
navale delle Egadi, con cui Lutazio Catulo pone fine alla I guerra Punica
e alla supremazia marittima di Cartagine), Roma supera una ininterrotta
serie di guerre, che, pur se originate da ragioni eminentemente difensive,
la portano, col determinante concorso delle sue forze marittime, ad allargare
progressivamente la propria area d'influenza oltremare, fino ad interessare
pressoché tutti i litorali bagnati dal Mediterraneo.
"Nell'anno 600 dalla fondazione di Roma inizia il VII secolo"
[Cal.P.] della fascinosa storia dell'Urbe: esso è contraddistinto,
nei primi decenni, dalla adamantina ed esemplare fermezza che accompagna
la conclusione delle tre maggiori guerre condotte oltremare e che è
evidentemente finalizzata al consolidamento transmarino (oggetto
del libro IV di "Classica"): la III ed ultima guerra Punica,
conclusa nel 608 U.c. (*) (146 a.C.) con la distruzione di Cartagine, la
guerra Achea, conclusa in quello stesso anno con la distruzione di Corinto,
e la guerra Numantina, conclusa nel 621 U.c. (133 a.C.) con la distruzione
di Numanzia.
Le affermazioni riportate nelle molteplici imprese oltremare portarono
nell'Urbe delle smisurate ricchezze e dischiusero ai Romani delle sempre
più ampie possibilità di sviluppo del commercio marittimo
e degli affari. L'attivismo degli imprenditori romani, il moltiplicarsi
delle occasioni di lucro e l'intrigante contagio del lusso comportarono
una rapida trasformazione della società, ormai nettamente allontanatasi
dagli austeri costumi dei padri: "quanto semplice era la mensa
dei nostri Camilli!"; "furono questi gli uomini che con
il carattere e la tempra dell'antico valore imposero Roma come capitale
al Mondo" [Graz.].
Un'ulteriore turbativa sarebbe derivata - secondo la tesi di Scipione Nasica
(Cap. XXXV) - dalla rimozione della minaccia punica. "Perocché,
prima della distruzione di Cartagine, popolo e senato Romano, pacifici
e moderati, governavano fra loro lo stato, né v'era fra cittadini
gara di gloria o di dominio: il timor dei nemici il buon governo della
città serbava. Ma come dagli animi quella paura disparve, naturalmente
quei vizi che son compagni della prosperità, dissolutezza e superbia,
ecco comparvero. Così quei riposi ch'essi nei travagli avean bramati,
una volta conseguiti, più duri ed acerbi divennero. Giacché
nobili e popolo cominciarono a mutare in licenza, quelli lor dignità,
questo sua libertà, e ognuno per sé a vantaggiarsi, a profittare,
a rubare. Così il tutto fu in due parti strappato: la repubblica,
ch'era nel mezzo, ne fu lacerata" [Sall.2].
Queste lotte, peraltro, non possono essere sbrigativamente catalogate come
semplice contrapposizione fra i "partiti" aristocratico
e popolare: "in verità pochi cittadini autorevoli,
a cui tutti gli altri s'erano accodati per averne protezione, ambivano
un dominio personale sotto la speciosa etichetta di patrizi e plebei"
[Sall.1]. Ed ecco, dopo la fratricida guerra Sociale (tentativo di alcune
regioni d'Italia di reagire con la secessione ad un contenzioso
con Roma), gli orrori di quelle Civili.
Ma occorre osservare quelle vicende con un maggior distacco. In quel
periodo storico, Roma venne investita da una "crisi istituzionale"
la cui origine non va ricercata, come inevitabilmente fecero i contemporanei,
nell'affievolimento dei tradizionali valori morali, nel dilagare della
corruzione e nel prevalere degli interessi di fazione su quelli dello Stato;
presso qualsiasi società, questi aspetti sono presenti - in maggiore
o minore misura - in tutte le epoche, e si riflettono nelle tristezze della
cronaca quotidiana. Quella crisi non fu altro che una inevitabile febbre
della crescenza, poiché i Romani erano passati dal controllo
problematico di solo una parte della Penisola italiana alle proiezioni
oltremare in Spagna, in Africa, nella penisola balcanica, sulle coste asiatiche
dell'Egeo e su tutte le principali isole bagnate dai mari che circondano
l'Italia. Inoltre, "grazie alla loro eccezionale clemenza, re,
città, interi popoli passavano sotto la protezione dei Romani"
[Diod.2]. L'ammirevole struttura organizzativa della Repubblica non era
stata concepita per gestire gli interessi di un Impero in via di costituzione
ed in continua espansione, né poteva più tutelarli in modo
adeguato.
Sul piano politico, le lotte senza esclusione di colpi fra Mario e Silla,
Pompeo e Cesare, Antonio e Ottaviano, ancorché alimentate da motivate
ambizioni dei contendenti, non furono altro che gli effetti perversi della
necessaria ricerca di un più rispondente assetto istituzionale,
ricerca che giunse a compimento con la costruzione del nuovo ordinamento
del principato augusteo.
Sotto il profilo militare, quelle lotte determinarono non pochi scompensi,
aggravati dalla natura non permanente che ebbero le forze armate
(ivi incluse, beninteso, quelle marittime) per tutto il periodo della Repubblica:
le flotte, come le legioni, venivano allestite ogni volta che se ne verificava
l'esigenza; al termine di quell'esigenza gli equipaggi venivano congedati;
e per ricostituirli occorreva ricominciare tutto daccapo. Questo spiega
che, se le contese politiche interne non consentivano di finanziare e di
far approvare in tempo utile la costituzione di una flotta, si rischiava
di doverne fare a meno.
Questo libro V di "Classica" include il primo atto
della travagliata costruzione dell'Impero - atto dominato dalle grandi
figure, nel bene e nel male, del rude Mario e dell'aristocratico Silla
- ed abbraccia l'intero arco della vita di Lucio Licinio Lucullo, un personaggio
raffinato e piacevole, dotato di brillanti capacità operative, anche
nel campo navale e marittimo. Si tratta di un periodo la cui copertura
storiografica antica è particolarmente carente: la ricostruzione
storica dell'attività delle flotte di Roma ha pertanto dovuto avvalersi
di ogni possibile frammento disponibile, anche se utile solo come "indizio"
navale.
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(*) U.c.: "Urbis conditae" (dalla fondazione dell'Urbe).
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Agli inizi del primo secolo a.C., cioè a metà del VII
secolo della sua storia, Roma aveva già sventato anche l'ultima
angosciosa invasione barbarica della Penisola - quella dei Cimbri e dei
Teutoni - ed aveva ormai raggiunto un livello di potenza tale da poter
scongiurare qualsiasi ulteriore minaccia diretta alla sicurezza dell'Urbe
e dell'intera Italia. Essa aveva d'altra parte ben consolidato il suo dominio
sulle province d'oltremare, che erano state precedentemente acquisite -
nei tre continenti bagnati dal Mediterraneo - grazie alla capacità
delle sue flotte e dei suoi eserciti, a scelte strategiche ampiamente basate
sul potere marittimo, ed alla costanza della "Fortuna" dei Romani:
quel "grande demone di Roma, inviando un vento favorevole, non
per un sol giorno, né, in pieno, per breve tempo, come il demone
dei Macedoni, né soltanto sulla terra, come il demone degli Spartani,
né solamente sul mare, come il demone degli Ateniesi",
"bensì fin dalle prime origini esso crebbe, si potenziò
e partecipò alle vicende politiche insieme con la Città e
rimase costante per terra e per mare, in guerra e in pace" [Plut.3].
"La disciplina militare, rigidamente conservata, assicurò
a Roma il primato in Italia, le donò il governo di molte città,
di potenti regni, di fortissimi popoli, le schiuse gli stretti del Ponto",
"e fece di ciò che era nato all'ombra della casupola di
Romolo il sostegno del mondo intero" [V.Mas.2]. Per tutti quei
secoli, inoltre, tutte le grandi scelte strategiche erano scaturite dalle
valutazioni sapienti, coerenti e lungimiranti del Senato: quell'alto consesso
la cui sede (l'austera e maestosa Curia, tuttora esistente) venne da Cicerone
definita come il "tempio sacro alla nobiltà, alla grandezza,
alla saggezza, al supremo consiglio della Repubblica; il cervello di Roma,
l'ara degli alleati, il porto di tutte le genti" [Cic.16].
In tale situazione, mentre Roma pareva nelle condizioni ideali per godere dei benefici attesi dal suo dominio transmarino, intervennero tre nuovi fattori di crisi: due gravissimi all'esterno, ed uno ancor più grave all'interno. All'esterno, mentre sui mari iniziava a diffondersi la piaga della pirateria originata dalla Cilicia - pregiudicando sempre più la sicurezza della navigazione nel Mediterraneo -, dal remoto e plumbeo mar Nero, un re barbarico - Mitridate VI Eupatore, re del Ponto - ingaggiò una guerra "a tutto campo" contro Roma. "Allestì una flotta splendidissima ["classem speciosissima"], reclutò un esercito bellissimo e fortissimo" [Aq.R.], si alleò con i pirati e con ogni possibile altro nemico di Roma. Affrontato prima da Silla e poi da Lucullo, egli non si lasciò abbattere dai rovesci subiti e continuò a ricercare con ostinazione la possibilità di una clamorosa rivincita. Sul piano interno, Roma stava in quel periodo soffrendo di una seria "crisi istituzionale", espressa da conflitti intestini dalle molteplici sfaccettature ed accompagnata dalle tipiche disfunzioni che si verificano nei periodi di smarrimento dei valori tradizionali e della certezza del diritto: dal verificarsi delle prime crepe nella disciplina militare, al diffondersi della cupidigia (con i connessi fenomeni di corruzione e concussione) ed alla crescente attrattiva delle più estreme scelte egoistiche, quali la ribellione e la secessione. Mentre Silla combatteva contro Mitridate, la sedizione aveva preso il sopravvento a Roma, con "Mario e Cinna; e con l'eccidio dei più illustri Romani le glorie che splendevano sul paese furono tutte spente. Silla vendicò in seguito gli orrori di questa vittoria, ma a prezzo - non mi occorre certo di richiamarvelo - di quali ecatombe di cittadini e di quali sventure per la Repubblica". "Tuttavia queste lotte avevano lo stesso carattere: miravano, non a distruggere, ma a trasformare la Repubblica; non si voleva annientarla, ma esserne i capi; non bruciare Roma, ma in questa Roma avere una parte importante" [Cic.13]. E ciò rispondeva comunque all'esigenza di pervenire ad un ordinamento istituzionale più rispondente, tenuto conto della crescente complessità della gestione della cosa pubblica, con il moltiplicarsi degli impegni per la difesa e l'amministrazione del nascente Impero.
Questo è il quadro generale di situazione al termine del libro V di "Classica" (dedicato a Lucio Lucullo); ed ancora lo stesso quadro ritroveremo all'inizio del libro VII (dedicato a Giulio Cesare). In effetti, sotto il profilo della sequenza cronologica, i due predetti libri si trovano ad essere pressoché contigui, mentre il presente libro VI viene a collocarsi concettualmente e storicamente fra quei due, ancorché con ampie sovrapposizioni temporali con entrambi. Esso abbraccia un complesso di eventi omogenei occorsi nelle ultime tre decadi del VII secolo di Roma, in corrispondenza della straordinaria ascesa militare e politica di Gneo Pompeo Magno, fino al culmine del suo potere nel governo di Roma. I collegamenti con gli eventi narrati nelle altre parti di "Classica" sono stati indicati con frequenti rinvii ai pertinenti capitoli, al fine di agevolare l'eventuale ricerca dei fatti pregressi; tutti gli aspetti essenziali sono comunque stati riepilogati, in modo da salvaguardare l'autonomia di questo libro, che può quindi essere anche letto da solo, prescindendo dai precedenti.
Nella trattazione di questo trentennio, denso di avvenimenti di elevato
interesse navale, sono stati inclusi, com'è consuetudine nella redazione
di "Classica", anche svariati particolari che, pur non essendo
direttamente attinenti alla storia marittima, sono necessari alla comprensione
degli sviluppi storici più significativi. In tale contesto, giganteggia
ovviamente la figura del Magno, con tutta la sua celebrata grandezza e
con quel dominio del mare per il quale egli stesso amò essere
considerato "figlio di Nettuno". Qualche spazio supplementare
è stato anche lasciato ad alcune altre figure di spicco, quale il
ribelle Sertorio, il "decadente" Verre ed il romanissimo oratore-filosofo
Cicerone, che influenzò in modo certamente non marginale gli eventi
della sua epoca e si coinvolse anche personalmente in un'attività
prettamente marittima come la cura dei rifornimenti alimentari di Roma
(l'annona). Un'attenzione particolare è stata infine riservata
ad un altro gigante della romanità: quel Marco Terenzio Varrone,
che viene per lo più ricordato nella storia della letteratura come
scrittore di gran pregio e straordinariamente prolifico, ma che occupa
anche un posto eminente nella storia navale, per aver esercitato con pieno
successo le funzioni di ammiraglio di Pompeo ed aver pertanto conseguito
l'ambita e rara onorificenza della "corona navale".
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Nei primi sette secoli della sua storia, Roma, strettamente collegata al mare da un breve tratto del Tevere, incrementò progressivamente i propri commerci marittimi, che costituivano sia una esigenza vitale per i rifornimenti dell'Urbe, sia una fonte di reddito di primaria importanza per la propria economia e per quella delle altre città marittime d'Italia. Di pari passo, i Romani provvidero a sviluppare armonicamente il proprio potere marittimo, utilizzando flotte da guerra per la protezione delle linee di comunicazione mercantili, per l'espansione del controllo di Roma nelle altre acque e sulle altre rive del Mediterraneo, per il sostegno navale necessario alle nazioni rivierasche alleate e per la difesa di ogni altro proprio interesse oltremare. In un Mediterraneo seriamente insidiato, negli ultimi decenni del secolo, dai pirati della Cilicia e dalle mire aggressive di Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, Pompeo Magno riuscì, mediante il sapiente impiego di flotte di spiccate dimensioni, a rimuovere ogni minaccia alla sicurezza della navigazione, estendere l'autorità di Roma sulle rive orientali e, soprattutto, assicurare ai Romani l'incontrastato dominio del mare. In quel travagliato periodo iniziava a mettersi in luce il giovane Giulio Cesare, le cui vicende navali più salienti, collocate nel ventennio a cavallo dell'inizio del secolo VIII di Roma (corrispondenti grosso modo al Pontificato massimo di Cesare, dal 53 al 44 a.C.), sono narrate nel presente libro VII di Classica: questo include una parziale sovrapposizione temporale il libro VI e qualche occasionale punto di contato con quelli precedenti. Il Lettore troverà pertanto svariati rinvii ai pertinenti capitoli, per l'eventuale ricerca dei fatti pregressi; tutti gli aspetti essenziali sono comunque stati qui riepilogati, in modo da rendere la predetta consultazione del tutto facoltativa. La prorompente ascesa di Giulio Cesare si svolse mentre giganteggiava a Roma la prestigiosa figura del grande Pompeo, carico di gloria e di onori, ed investito di poteri sempre crescenti. "Di eccezionale integrità, straordinariamente virtuoso", "desiderosissimo di potere - purché gli venisse conferito per onore e non dovesse ottenerlo con la forza -, abilissimo comandante in guerra, moderato cittadino in pace, ma non quando temeva di aver qualcuno alla pari"; "giammai, se non raramente, fece uso del suo potere sino ad abusarne; insomma, quasi del tutto privo di difetti, se non si considera difetto fra i più gravi il non poter sopportare di vedere qualcuno alla pari in autorità, in una città libera e dominatrice di popoli, dove ogni cittadino è uguale per diritto" [V.Pat.1]. "D'altra parte, quando si è posseduti dal desiderio di sovrastare a tutti, è ben difficile serbar l'equità, che è il principale attributo della giustizia" [Cic.2]. Peraltro, da molti decenni ormai, l'assetto istituzionale di Roma denunziava chiari sintomi di inadeguatezza. La mirabile combinazione costituita dal Senato e dal popolo di Roma aveva egregiamente funzionato in tutti i primi secoli della Repubblica, quando l'alternanza annuale dei consoli era uno dei punti di forza dei Romani: i Macedoni, ad esempio, avevano "come garanzia il solo Alessandro, soggetto a molti imprevisti, che quasi andava cercando; molti, invece, tra i Romani si ebbero duci che erano all'altezza sua per gloria di imprese compiute; e ciascuno di essi poteva vivere o morire, se tale era il suo destino, senza che il bene pubblico ne scapitasse" [Liv.4]. Tutto questo continuò ad andare bene fino a quando, con il procedere della espansione transmarina di Roma, le responsabilità assunte oltremare e l'estensione delle nuove province ivi costituite resero necessaria la concomitante proliferazione delle magistrature straordinarie (quasi sempre pluriennali) in aggiunta a quelle ordinarie annuali (consoli e pretori): i proconsoli ed i propretori, investiti dell'imperium, poterono esercitare con una pressoché totale autonomia il governo delle province ed il comando degli eserciti e delle flotte, gestendo in prima persona le enormi risorse derivanti dai ricavati della loro azione di comando (bottini di guerra, ecc.), ed acquisendo in definitiva un potere che risultava maggiore di quello dei consoli e che difficilmente avrebbe potuto essere controllato - con appropriato rigore - dalle altre magistrature a livello centrale (quali i censori e i tribuni della plebe) elette dal Senato e dal popolo di Roma. Tale situazione, già di per sé insostenibile per lungo tempo, era ulteriormente aggravata dalla complessa ramificazione della struttura amministrativa dello Stato, dai conflitti d'interesse che accompagnavano l'afflusso di risorse dalle province, da fenomeni di corruzione a cui concorrevano (perfino nell'Urbe) anche i sovrani delle nazioni alleate, e da un'infinità di altri fattori, fra i quali, non ultimo, lo stesso sistema democratico, avvilito dalle spudorate lusinghe demagogiche che, provenienti da ogni parte, circuivano il popolo. Se ciò non inficiava realmente la libertà di voto, perlomeno frastornava l'elettore, come venne descritto da Cicerone con una suggestiva similitudine marittima: "quale mai stretto o canale di mare potete immaginare sconvolto da tanto agitarsi e da tanto e così vario ribollire e mescolarsi di onde, quant'è il disordine e il fluttuare degli animi nei comizi?" [Cic.15]. "Ma uno Stato così grande, padrone della parte più ampia e più bella del mondo conosciuto, contenente in sé molte e differenti razze di uomini e molte e grandi ricchezze, impegnato in imprese e vicende di ogni sorta, sia collettivamente che individualmente, non può assolutamente mantenersi saggio in democrazia, e non essendo saggio non può vivere in concordia" [D.Cas.4]. Anche la moltiplicazione dell'autorità sovrana - attribuita a consoli, proconsoli e propretori - andava corretta, essendo essa in contrasto, non solo con un principio della moderna scienza dell'organizzazione, ma anche con l'antica massima: "Non è bene che vi siano molti re: uno solo deve essere re" [Prisc.3]. Di questo erano convinti sia Pompeo che Cesare: il primo sperimentò due soluzioni transitorie, quella da proconsole sovrastante ogni altro magistrato (per la guerra piratica) e quella da console unico (senza collega), mirando - dice Cicerone - ad una dittatura di tipo sillano; il secondo ... era Cesare.
Scartabellando un antico testo, nella perenne ricerca di qualche interessante
frammento fino allora trascurato, mi sono imbattuto nei severi ammonimenti
di Luciano sul modo di scrivere la Storia. Lo storico, "specialmente
e innanzi tutto, sia d'animo libero, non tema nessuno, non speri niente:
se no, sarà simile ai giudici malvagi"; "egli non
è inventore ma indicatore dei fatti. Onde in una battaglia se si
sono perdute navi, non l'ha affondate egli": il suo compito è
quindi solo "uno, dire i fatti come sono avvenuti" [Lucia.2].
Fin qui tutto bene, mi sentirei di dire, poiché è questo
lo spirito che mi anima, anche se ho talvolta la netta sensazione di aver
attivamente concorso ad affondarle, quelle navi; così come ho molto
esitato prima di passare il Rubicone, e sono stato preso da una mortale
angoscia prima di avviarmi verso la Curia Pompeia, il giorno delle idi
di marzo. Ma non basta. Luciano si sofferma anche sulla tecnica della ricostruzione
storica. "Lo storico non deve essere come il retore, ma ciò
che deve dire egli l'ha, perché già è fatto; egli
deve ordinarlo ed esporlo: onde non gli bisogna cercare ciò che
deve dire, ma come deve dirlo. Insomma lo storico è come Fidia o
Prassitele, o Alcamene, o altro scultore, i quali non fecero essi l'oro,
l'argento, l'avorio, o altra materia": "essi solamente
le diedero forma"; "e questa era l'arte loro, convenevolmente
disporre la materia. Tale adunque è anche l'arte dello storico,
disporre bellamente i fatti, e narrarli lucidissimamente" [Lucia.2].
Trasferendo questa similitudine all'atipica metodologia adottata per la
redazione di Classica ("collage" di citazioni di autori antichi),
posso dire che, di solito, devo comporre la mia scultura utilizzando materiali
estremamente eterogenei, per qualità, forma e dimensioni: dai grandi
massi di granito a spezzoni di marmetti, dai ciottoli levigati a schegge
di terracotta ed altri frammenti infimi. Laddove i pezzi non sono combacianti
e non possono essere adattati con un cauto uso del cemento, rimangono delle
parti indefinite, come ho spesso avuto occasione di lamentare nei libri
precedenti. Ma con Cesare, di cui tutti hanno scritto, ho potuto soprattutto
beneficiare, come Michelangelo, di uno splendido e purissimo blocco di
marmo di Carrara: i Commentari scritti dallo stesso Cesare, i cui stralci
più significativi costituiscono l'ossatura portante di questo libro.
Poiché vi si parla anche della guerra civile, il riferimento primario
a Cesare non costituisce certo una garanzia di equidistanza fra le parti
in conflitto, anche se le descrizioni delle vicende navali, di grande interesse,
dovrebbero essere esenti da eccessive parzialità. Mi rendo conto,
peraltro, che tutti conoscono Cesare ed ognuno ha le proprie idee ben consolidate
su di lui. Pertanto, anche se gli Annali Massimi me ne distoglierebbero
- con l'ammonizione: "Un cattivo consiglio è pessimo per
il consigliere" [Gell.1] - vorrei comunque invitare i Lettori
a prendere questa storia marittima di Giulio Cesare come il racconto d'un
cesariano alla ricerca dell'obiettività storica, ed attento soprattutto
ai fatti concreti e storicamente coerenti. Non è un gran ché,
per chi è ossessionato dalla "dietrologia", né
per chi vorrebbe interpretare l'opposizione a Cesare sotto l'ottica deformante
delle ideologie. Questi aspetti sono comunque estranei alle finalità
di Classica, che è focalizzata su quelli navali. Ho quindi cercato
di contenere entro il minimo indispensabile l'illustrazione delle situazioni
storiche in cui si svolgono gli eventi di interesse marittimo, lasciando
qualche spazio supplementare, come nei precedenti libri, alla completezza
del tratteggio biografico del personaggio centrale, in omaggio alla sua
grandezza storica, alla sua genialità strategica, alla sua stoffa
di impavido marinaio ed alle sue straordinarie imprese navali.
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"Giaceva ancora dove era caduto il cadavere indegnamente insanguinato dell'uomo che ad Occidente si era spinto fino alla Britannia e all'Oceano e ad Oriente aveva progettato di spingersi fino ai regni dei Parti e degli Indi per riunire, una volta assoggettati anche quelli, tutta la terra e il mare sotto un'unica autorità" [Nic.]. Con le Idi di Marzo, che troncarono la vita terrena di Giulio Cesare (i Romani gli attribuirono poi quella apoteosi con cui si conclude il libro VII di Classica), venne quindi spezzato il disegno di consolidare l'impero romano ad Oriente, con una campagna che sembrava alla portata del genio militare del condottiero. Nel contempo, venne parimenti infranto il tentativo cesariano di conferire all'impero anche una stabilità interna, mediante sistematici ed incondizionati provvedimenti di clemenza - intesi a ristabilire la concordia civile - e l'avvio di svariate riforme istituzionali, volte a rafforzare la struttura organizzativa dello Stato.
A tale situazione Roma era giunta dopo circa sette secoli dalla sua
fondazione, in seguito ad un complesso di vicende i cui aspetti navali
e marittimi sono stati illustrati nei primi sette libri di Classica.
A grandi linee, a parte il primo secolo in cui la città dovette
badare soprattutto a sé stessa, vi furono tre secoli di espansione
dell'egemonia romana nel Lazio, ed altri tre per estendere tale egemonia
su tutta la Penisola (V secolo) e per l'espansione della propria potenza
sul mare ed oltremare (VI e VII secolo).
Nel primo di questi due grandi periodi storici, Roma poté beneficiare
della propria peculiare collocazione geografica. "Non a caso certo
gli dèi e gli uomini prescelsero questi luoghi per fondarvi una
città: colline saluberrime, un fiume opportunissimo per convogliarvi
i prodotti delle regioni interne e per riceverne le importazioni marittime,
in località vicino al mare quanto basta per le nostre necessità,
ma non tanto da esporci al pericolo di incursioni di navi straniere"
[Liv.2]. Ciò consentì ai Romani di sviluppare progressivamente
i propri traffici marittimi, proteggendoli con qualche nave da guerra.
Nel secondo periodo di tre secoli venne concentrato tutto lo sforzo navale
che consentì ai Romani di avvalersi del potere marittimo per la
propria sicurezza e per la tutela dei propri interessi e di quelli delle
popolazioni alleate: dalla costituzione della loro prima piccola marina
da guerra affidata ai duumviri navali, alla costruzione delle poderose
flotte con le quali essi rimossero, sul mare, le minacce recate dalle maggiori
potenze navali dell'epoca (da Cartagine ai regni di Macedonia, di Siria
e del Ponto, ai pirati di Cilicia, di Creta e delle Baleari, ecc.). Questi
impegni bellici non scaturirono da un piano preordinato, né vennero
affrontati con uno strumento militare preesistente: si trattò invece
di una sequenza di emergenze che il Senato seppe fronteggiare con determinazione,
costituendo di volta in volta le forze necessarie ed assegnandone la condotta
alle esistenti magistrature dello Stato (consoli e pretori, o dittatori
in determinate situazioni critiche). Tale soluzione, mantenuta per la fase
iniziale del periodo dell'espansione transmarina di Roma, diede dei risultati
lusinghieri, pur non essendo certamente ottimale. "Puoi scorrere
pagine e pagine di annalisti ed i fasti dei magistrati senza incontrare
il nome di un console o di un dittatore del cui valore e della cui buona
fortuna il popolo romano ebbe a pentirsi una sola volta. E, cosa che li
rende anche più degni di ammirazione che non Alessandro e qualsiasi
altro re, alcuni tennero la dittatura solo per dieci o venti giorni, nessuno
più di un anno il consolato; ostacolati dai tribuni della plebe
nel far le leve; partiti per la guerra dopo il tempo propizio; richiamati
anzi tempo per la convocazione dei comizi; talvolta messi in imbarazzo
dalla leggerezza o dalla gelosia del collega, tal'altra chiamati a riparare
le malefatte altrui: ebbero eserciti di reclute o indisciplinati. Ma, per
Bacco, i re" "non sono impacciati da tanti ostacoli"
[Liv.4].
La progressiva estensione degli impegni oltremare e l'acquisizione di nuove
province resero necessaria l'istituzione di nuove magistrature (soprattutto
il proconsolato e la propretura), che, per la maggior durata, per gli ampi
poteri associati e per la possibilità di conseguirvi lauti guadagni,
ponevano coloro che ne erano investiti in una situazione di tale potenza
ed autonomia da risultare incontrollabili da parte del Senato o comunque
da suscitare sospetti, timori o gelosie presso i membri dell'ordine senatorio.
D'altra parte era evidente che la crescente complessità del nascente
impero non poteva più essere gestita dalle antiche e pur ammirevoli
istituzioni di cui la città di Roma si era dotata dopo la cacciata
dei re (a metà del suo III secolo di storia): "era difficile
amministrare altrimenti un così grande dominio se non affidandolo
a un solo uomo, come a un padre" [Stra.2].
La ricerca di un più rispondente assetto istituzionale aveva provocato
aspre contese civili, nel corso delle quali lo stesso Senato, cedendo di
volta in volta alla volontà della personalità dominante,
aveva legittimato dei poteri decisamente anomali, come i sette consolati
di Mario, la dittatura per la riorganizzazione dello Stato di Silla,
il proconsolato sull'intero Mediterraneo ed il consolato senza collega
di Pompeo Magno, ed infine il titolo di imperatore e la carica di
dittatore perpetuo per Giulio Cesare. Questi due ultimi personaggi,
peraltro, si erano particolarmente illustrati anche per le loro imprese
navali: il primo per aver liberato il mare dai pirati, il secondo per aver
sconfitto nell'Oceano la grande coalizione di popolazioni marittime dell'Armorica
(coste nord-occidentali della Gallia), per i due sbarchi navali in Britannia,
per aver battuto anche sul mare due altre celebri popolazioni marittime
come i Marsigliesi e gli Alessandrini, nonché per svariate altre
felici azioni navali condotte sia nel Mediterraneo che nell'Oceano.
Nel primo decennio del VIII secolo della sua storia, Roma sembrava potersi
avviare, con Giulio Cesare, verso una durevole stabilità interna
e verso un rafforzamento di quell'impero che i Romani avevano creato con
il concorso determinante delle loro flotte e che si basava su due loro
qualità proprie: "valore in guerra e in pace saggezza"
[Sul.]. Ma dopo pochissimi mesi di dittatura perpetua, lo stesso
Cesare venne assassinato dalla nota congiura delle Idi di Marzo: "tutto
il corpo dell'impero tremò profondamente per il mutamento nel dominio
di Roma, cioè nel genere umano, e fu scosso da ogni tipo di pericoli,
da guerre civili, esterne, servili, terrestri e navali" [Flo.1].
Questo è il complesso scenario d'inizio del presente libro VIII
di Classica, incentrato sulla vita di due straordinari personaggi:
"Cesare [Ottaviano] Augusto, primo di tutti gli imperatori
(sebbene vi sia stato anche il padre suo adottivo Cesare, che fu piuttosto
iniziatore dell'impero romano che non imperatore)" [Oros.], e
Marco Agrippa. Sul primo, i contemporanei dissero "che la sorte
non gli ha negato nulla di quello che è stato elargito già
ad altri e gli ha procurato ciò che finora nessun cittadino romano
è stato in grado di conseguire" [C.Nep.1]. Sul secondo
- "Marco Agrippa, che" ebbe in Ottaviano "il più
grande degli amici" [V.Mas.2] - avrebbero potuto dire esattamente
lo stesso; ma preferisco evitare ulteriori anticipazioni per non attenuare
il gusto della "scoperta" dei suoi meriti.
Il Lettore non me ne voglia per il lunghissimo, interminabile, primo capitolo,
che è il solo ad essere pressoché totalmente privo di argomenti
di interesse navale. Pur trovandolo anch'io di una lunghezza esasperante,
mi è sembrato comunque essenziale per inquadrare storicamente i
due personaggi, per illustrare la precoce ascesa politica di Ottaviano
e soprattutto per far comprendere come fece un ragazzo di venti anni ad
imporsi in un ambiente totalmente ostile ed a raggiungere così giovane
quel potere supremo che riuscì poi a conservare per tutta la vita.
Chi volesse saltare a piè pari l'intero capitolo dovrebbe accontentarsi
della seguente breve considerazione. "Platone, interrogato a quali
condizioni lo Stato potesse divenire felice si dice che abbia risposto:
"Se quelli che sono saggi imparassero a comandare ["imperare"]
e quelli che comandano imparassero ad essere saggi" [Rut.]. Parrebbe
una utopica banalità; tuttavia Ottaviano ebbe fin da ragazzo entrambe
le capacità.
La terminologia adottata dalle fonti antiche per i nomi di persona e per
alcuni nomi geografici presenta non poche difformità (soprattutto
fra autori latini ed autori greci): ho per lo più cercato di chiarire
tali differenze con l'inserimento di molteplici aggiunte in parentesi quadre.
Solo nel caso dei testi di Appiano, ho regolarmente trascritto il nome
Menodoro modificandolo in Mena, poiché questa è
la denominazione utilizzata da tutti gli altri storici (latini e greci).
Sempre sotto l'aspetto redazionale, ho inserito nel testo vari rinvii ad
alcuni capitoli dei libri precedenti, in modo da semplificare l'eventuale
ricerca di alcuni eventi pregressi: tale consultazione risulta comunque
assolutamente superflua ai fini della comprensione di quanto narrato nel
presente libro, che può pertanto essere letto anche da solo, prescindendo
da tutti gli altri.
Per coloro che possiedono l'intera serie di Classica, questo libro
VIII rappresenta l'atto finale della parte più significativa della
storia navale e marittima di Roma, che si conclude con l'instaurazione
della pace augustea, basata sul pieno dominio dell'intero Mediterraneo
e di tutte le sue sponde. Ed essa si conclude anche con la creazione delle
prime flotte permanenti di Roma, tanto che la storia di quella che possiamo
considerare la vera e propria Marina militare romana inizia, paradossalmente
(ma non troppo), quando sono cessate tutte le guerre sul mare.
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I primi decenni del secolo VIII della storia di Roma erano stati contrassegnati dall'irreversibile crisi istituzionale della repubblica - i cui ordinamenti erano divenuti ampiamente insufficienti a fronte delle accresciute dimensioni e complessità dell'impero - e dall'accanita lotta condotta dai paladini del Senato per difendere le prerogative ed i privilegi dell'ordine senatorio, senza esclusione di colpi, prima contro Giulio Cesare e poi contro coloro che ne avevano raccolto l'eredità. Fra questi ultimi, aveva finito per imporsi il giovanissimo Cesare Ottaviano, dopo aver superato innumerevoli difficoltà e due durissime guerre navali, la Sicula e l'Aziaca, entrambe vinte grazie alla straordinaria perizia organizzativa, strategica e tattica del suo grande ammiraglio Marco Agrippa. Nel contempo, Roma, avendo acquisito anche la sovranità sull'Egitto, aveva ormai esteso il proprio controllo su tutte le sponde del Mediterraneo, completando, in tale bacino, quel processo di espansione transmarina che si era sviluppato nell'arco di due secoli, attraverso il confronto in mare con tutte le altre potenze navali del mondo classico.
Cesare Ottaviano, divenuto Augusto, si era quindi insediato al vertice dello Stato insieme al suo amico Marco Agrippa, ed aveva con lui messo a punto con somma accortezza quel nuovo assetto istituzionale - il principato (poi chiamato più comunemente l'impero) - che gli consentì di sedare le discordie interne, restituire decoro, prestigio e maestà all'immagine di Roma, ed assicurare all'Urbe stessa, all'Italia ed alle province una benefica situazione di pace e di stabilità: furono "chiuse le porte di Giano bifronte; estirpate, non represse le radici delle guerre; e quel primo e grandissimo censimento, in cui ogni singolo componente delle nazioni del mondo giurò su questo unico nome di Cesare e insieme, per la comunità del censo, divenne parte di un'unica società" [Oros.]. Per celebrare questo straordinario risultato, che era frutto - val la pena sottolinearlo ancora una volta - delle vittorie navali di Marco Agrippa, "venne dedicata l'Ara Pacis Augustae nel Campo Marzio sotto il consolato di [Nerone Claudio] Druso [Germanico] e [Tito Quinzio] Crispino [9 a.C.]" [Ver.F.]. La giovane età alla quale Ottaviano Augusto aveva vinto ad Azio gli permise di consolidare sensibilmente l'istituto del principato, permanendo alla guida dello Stato per altri 44 anni, cioè fino alla fine naturale dei suoi giorni, e lasciando poi il potere ereditario al figliastro Tiberio.
Questo è lo scenario al termine del libro VIII di Classica; ed in questo stesso scenario inizia, ovviamente, il presente libro IX. Ma questa ineccepibile continuità temporale nasconde tuttavia una sensibilissima frattura, per le radicali mutazioni verificatesi contestualmente alla transizione istituzionale, rendendo la storia dell'Impero piuttosto disomogenea rispetto alla precedente storia di Roma. Fra i molteplici aspetti di tale cambiamento, è opportuno soffermare l'attenzione sull'avvenuta svolta politico-militare e sulle differenze intervenute anche nella storiografia.
La svolta politica deriva innanzi tutto da una diversa concezione dello Stato. Nell'ultimo periodo della repubblica, Roma permaneva ancora, a tutti gli effetti, una città-stato che, strettamente consociata all'intera Italia, esercitava il suo dominio sul mare e su tutte le proprie province d'oltremare e d'oltralpe; essa regolava le proprie relazioni esterne con trattati di alleanza o, in caso di rottura degli accordi, con interventi militari che tendevano ad espandere l'area controllata dai Romani e richiedevano la costruzione di flotte ad hoc ed il reclutamento dei relativi equipaggi e di tutte le truppe necessarie. Con l'innovazione introdotta da Augusto, il principe divenne, di fatto, il sovrano unico delle terre e dei mari romani, cioè dell'intero impero considerato come un corpo unico costituito dall'insieme delle varie province e dei regni tributari. In tale situazione, l'Urbe vide il suo ruolo mutare da quello di città dominante a quello di capitale dell'impero, che essa doveva governare "con le proprie leggi" [Man.]. In politica estera, diveniva generalmente opportuno, salvo che in pochi casi particolari, evitare ulteriori acquisizioni territoriali. "È pericoloso un impero troppo vasto: infatti è difficile mantenere ciò che non si può contenere" [C.Rufo]. Ma vi era anche una motivazione geografica e climatica. "Cinque zone il mondo fasciano" [Virg.3]: "due sono sempre desolate dal freddo e dal gelo", mentre "quella ch'è nel mezzo è sempre soggetta al calore di Febo"; "fra questa e le due fredde, è sita la nostra zona e l'altra opposta" [Ovid.10]. I Romani, quindi, "ignorate intenzionalmente le parti giudicate infruttuose a causa del freddo eccessivo e della sterilità del suolo, occupano quelle che val la pena di possedere" [Paus.1]: qui "col ferro si solca il suolo e il mare col bronzo ["pontus confinditur aere"]" [Ovid.10] dei rostri delle navi da guerra.
Per la sicurezza dei mari e per la difesa dei confini dell'Impero, Augusto aveva istituito delle forze armate permanenti, la cui componente navale e marittima beneficiava della splendida impostazione ricevuta da Marco Agrippa, il prestigioso padre della Marina imperiale romana. Nei confronti delle popolazioni confinanti, la pace venne comunque affidata ad un complesso sistema di relazioni bilaterali, sostenute dal credito del principe e dalla dissuasione. Ciò non poteva ovviamente scongiurare l'esigenza delle operazioni belliche, che vennero infatti saltuariamente condotte sia nell'ultimo periodo del principato di Augusto che sotto i suoi successori. "Anche se, dunque, sul finire dell'età di Cesare" Augusto, il tempio di "Giano fu aperto, tuttavia da allora per lunghi periodi non risuonò alcuna guerra, pur restando l'esercito [e le flotte] sempre in armi" [Oros.].
Rimane infine da considerare il delicato aspetto della attendibilità della storiografia antica. Occorre premettere che anche nel periodo precedente si era lamenta l'insufficienza di certe fonti storiografiche. Nel II secolo a.C., ad esempio, lo storico Sempronio Asellione criticava con le seguenti parole le scarne opere "annalistiche": "scrivere sotto quale console sia stata intrapresa una guerra e sotto quale sia stata conclusa e chi abbia fatto l'ingresso [nell'Urbe] in trionfo, e riferire in quel libro che cosa si è fatto nel corso della guerra e, d'altro canto, non rendere noto che cosa abbia decretato il Senato durante quel tempo o quale legge o proposta di legge sia stata presentata al popolo e non riferire con quali propositi quelle cose siano state fatte: questo è narrare le favole ai bambini, non scrivere la storia" [Gell.1]. Tutto ciò è vero, ma la storiografia del periodo della repubblica ha perlomeno potuto fruire dei dati degli annali, arricchiti da autori del calibro di Tito Livio e del "divo Giulio [Cesare], il più autorevole fra gli storici" [Tac.6].
"Dopo la battaglia [navale] risolutiva di Azio, e da quando per l'esigenza di pace convenne riunire tutto il potere in mano d'uno solo" [Tac.4], la situazione cambia: "gli avvenimenti accaduti dopo questo periodo non possono essere riportati allo stesso modo di quelli dei tempi precedenti. Prima, infatti, tutte le questioni venivano presentate davanti al Senato e al popolo, anche se avvenivano a distanza: in questo modo molti ne vennero a conoscenza e molti ne tramandarono la memoria per iscritto e, conseguentemente, anche la verità dei fatti, sebbene alcuni scrittori abbiano riportato alcune notizie per lo più condizionati dalla paura, dalla riconoscenza, dall'amicizia e dall'ostilità, era comunque ricostruibile in qualche modo sulla base di altri scrittori che narrarono gli stessi avvenimenti e sulla base degli atti pubblici. Ma, dopo quel periodo, la maggior parte degli avvenimenti cominciarono a essere tenuti segreti e riservati, e se anche una parte delle notizie sono rese pubbliche, esse non vengono però ritenute autentiche a causa dell'impossibilità di verificarle". "Di conseguenza molti avvenimenti che non sono mai accaduti vengono pubblicamente divulgati come autentici, mentre molti altri che sono sicuramente capitati restano sconosciuti, e tutti gli eventi praticamente vengono riportati in maniera diversa da come sono realmente avvenuti" [D.Cas.6].
Come se non bastasse, "la verità risultò alterata in più modi, prima per il disinteresse della vita pubblica, divenuta come estranea, poi per l'eccesso d'adulazione o pur anche per antipatia verso i reggitori" [Tac.4]. Vi furono quindi degli storici "che, per ardente odio verso i tiranni, o per bassa adulazione verso un principe, una città, un privato cittadino, tramandarono i fatti più insignificanti dando loro a forza di parole, un rilievo sproporzionato alla verità" [Erod.]. "Sennonché la parzialità [adulatoria] dello storico genera facilmente disgusto, la denigrazione e l'astiosità trovano orecchie compiacenti, per portare l'adulazione impresso un vergognoso marchio servile, allo stesso modo che la maldicenza s'ammanta d'una falsa aria d'indipendenza" [Tac.4].
Si può quindi ben comprendere quale abbondanza di pettegolezzi, illazioni e fandonie sia stata irresponsabilmente profusa nelle varie narrazioni storiche e nelle biografie imperiali, concentrando morbosamente l'attenzione sui vizi privati, veri o presunti, degli imperatori, e deformando caricaturalmente il pensiero e gli intendimenti di questi ultimi, anziché fornirci una pacata illustrazione degli aspetti storicamente significativi della loro azione.
Nella ricostruzione storica, pertanto, ho accuratamente setacciato le fonti disponibili, evitando di tener conto delle manifeste alterazioni della verità, dei fatti clamorosamente impossibili o fortemente sospetti (per la presenza di incoerenze, anacronismi, o altri aspetti scarsamente credibili), nonché delle opinioni preconcette e delle interpretazioni faziose.
Il Lettore verrà così privato di qualche storiella colorita o piccante, ma potrà forse meglio percepire lo straordinario sforzo compiuto da Romani nel settore navale e marittimo per la sicurezza e il benessere dell'Impero e per la diffusione della civiltà. E la memoria di quei principi che operarono in tal senso ne risulterà più degnamente onorata.
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"Il popolo romano, dalla nascita fino alla fine della sua fanciullezza, per un periodo di circa trecento anni sostenne guerre intorno alle sue mura. Poi, nel fiore dell'adolescenza, dopo difficili e frequenti guerre, oltrepassò le Alpi e il mare. Nella giovinezza e nell'età matura, riportò allori e trionfi da tutte le terre che il mondo abbraccia nella sua vastità e, giunto ormai alle soglie della vecchiaia e talvolta vittorioso per il solo prestigio del suo nome, si volse a vita più tranquilla e quieta. Così questa veneranda città [di Roma], dopo avere fiaccato l'orgoglio di tanti popoli bellicosi e avere dato al mondo con le sue leggi i fondamenti eterni della libertà, come una buona madre, ricca e saggia, affidò ai Cesari, come a propri figli, il diritto di amministrare la sua eredità" [Amm.1].
Il principato - l'innovazione istituzionale che aveva dato inizio al periodo dell'Impero - era stato concepito e posto in atto dal giovanissimo Ottaviano Augusto dopo aver acquisito il dominio assoluto dell'intero Mediterraneo grazie alle vittorie navali riportate da Marco Agrippa fra il 36 ed il 31 a.C., cioè nelle prime decadi del VIII secolo di Roma.
Ne seguì un lunghissimo periodo di pace, appena movimentato da qualche occasionale operazione militare nelle aree di confine e da saltuarie lotte fra pretendenti all'impero allorquando si palesava qualche carenza di potere da colmare. Ma si trattò per lo più di eventi che ebbero una limitatissima incidenza sulla vita delle popolazioni dell'Impero, che beneficiavano invece di una situazione perdurante stabilità e di crescente benessere: "che c'è che non ti piaccia oggi? Non ferocia di capi, non furia insana di guerra: tutti godiamo sicuri pace e tranquilla letizia" [Marz.].
In tale contesto, un apporto fondamentale continuò ad essere fornito dal potere marittimo: da un lato, le navi da guerra, inquadrate in flotte permanenti, svolgevano un'ampia gamma di compiti navali per le esigenze militari e le altre necessità dello Stato, nonché per la sicurezza della navigazione marittima e la tutela della legalità in mare, oltre al controllo dei confini sui grandi fiumi; dall'altro, le navi mercantili assicuravano il collegamento navale fra tutte le sponde dell'Impero, attivando altresì degli scambi commerciali con le coste viciniore ed anche con alcune regioni remote, concorrendo in tal modo ad instaurare delle relazioni di mutua conoscenza con popolazioni esterne all'Impero. "Vedi come i porti e come il mare pullulino di grandi navi ["magnis trabibus"] ! La gente quasi tutta ormai vive sui flutti ["in pelago"]. Ovunque una speranza di guadagno l'inviti, ivi una flotta ["classis"] accorrerà" [Gioven.].
Entrambe le componenti navali, sia la militare che la mercantile, poterono beneficiare della perfezione tecnica raggiunta dall'ingegneria navale romana, delle enormi capacità conferite alla cantieristica navale, e del razionale potenziamento di tutte le infrastrutture marittime, con la realizzazione di opere grandiose e pienamente rispondenti, nell'ambito della costruzione o dell'ampliamento dei porti e delle basi navali.
Con tale eccezionale impegno dei Romani nel campo navale e marittimo, il loro sterminato impero, disteso lungo tutte le sponde di questo nostro "mare immenso ["mare immensum"]" [Cic.18], poté beneficiare, come si è già detto, di una situazione di pace che favorì la diffusione della civiltà e del benessere. E questa situazione, del tutto nuova nel mondo antico, parve talmente sorprendente ed innaturale da venir addirittura considerata noiosa ed ingloriosa da qualche storico dell'epoca, come si vede nel seguente passo di Tacito. "Non ignoro che gran parte degli avvenimenti che ho narrato e che narrerò in seguito potranno forse apparire poco importanti e non degni di ricordo. Ma nessuno vorrà confrontare i miei Annali con gli scritti di coloro che esposero le antiche gesta del popolo romano. Essi narravano grandi guerre, espugnazioni di città, re sconfitti e fatti prigionieri o, se talvolta si volgevano agli avvenimenti interni, spaziavano liberamente nel racconto di discordie tra consoli e tribuni, di leggi agrarie e frumentarie, e di lotte tra plebe e patrizi. La nostra fatica è invece costretta in un campo meno vasto e senza gloria: una pace stabile o poco turbata, vicende tristi all'interno e un principe noncurante di estendere i confini dell'Impero" [Tac.2].
D'altra parte questi confini inglobavano già tutte le parti fertili e temperate del mondo antico. "Considera tutte le genti che segnano il limite della pace romana ["romana pax"]: dico i Germani e tutte quelle genti vagabonde che s'incontrano intorno all'Istro [Danubio]. Esse sono gravate da un perpetuo inverno, da un clima triste, e sostentate assai malamente da un suolo sterile" [Sen.3]. E, proprio per tale motivo, tutte queste popolazioni premevano per entrare nel territorio dell'Impero, attirate dalle sue ricchezze.
Questa era, a grandi linee la situazione del mondo romano al termine del libro IX di Classica, cioè al compimento del primo millennio di Roma. Ed allo stesso punto inizia la narrazione del presente libro X, che tratta di un periodo estremamente confuso e travagliato: gli ultimi secoli in cui la storia di Roma venne ancora influenzata da quell'Impero che Roma stessa aveva creato e reso potente, ma che, poco dopo l'inizio del secondo millennio, iniziò a trascurare sempre più la Città eterna, fino a voltarle le spalle.
Per quanto sorprendente, infatti, ciò che si verificò fu proprio questo, contestualmente ad un progressivo imbarbarimento generale. Ma come si giunse a tanto? Quali furono, in definitiva, le cause del declino che portò alla cosiddetta "caduta" dell'Impero romano? Sono state formulate infinite ipotesi, considerando il problema sotto ogni possibile sfaccettatura, dagli aspetti istituzionali a quelli strategici, da quelli ambientali a quelli sociologici e sanitari, attraverso l'analisi dei fattori politici, economici, militari, culturali, filosofici, religiosi, e così via. Non mi pare quindi il caso di imbarcarsi in questa discussione che, qualora fosse condotta in modo passabilmente esauriente, finirebbe col sottrarre uno spazio eccessivo alla trattazione degli argomenti più pertinenti con il tema specifico di questo libro. Ciò nonostante, permane comunque necessario, come nei precedenti libri di Classica, inquadrare la nostra tematica navale nel contesto storico in cui si svolsero gli eventi. Per tale motivo, ci si soffermerà, di tanto in tanto, ad esaminare anche alcuni fra i più visibili fattori dell'indebolimento dei Romani sotto il profilo politico-militare, con una particolare attenzione per il potere marittimo. E ciò verrà fatto, come di consueto, basandosi sulle testimonianze disponibili nelle fonti antiche, senza la benché minima pretesa, ovviamente, né di fornire una panoramica di tutti i pareri che vennero espressi all'epoca, né, tanto meno, di individuare l'origine delle mutazioni che determinarono la transizione del nostro mondo dall'evo antico al medioevo.
Appare intanto opportuno ricordare alcune peculiarità dello scenario iniziale di riferimento. Questo Impero romano, di cui si sono già tratteggiate la genesi ed il carattere marittimo, era costituito da due grandi aree, grosso modo separate dal meridiano che attraversa il canale d'Otranto e la Grande Sirte: da questa parte l'Occidente, che si riconosceva nella propria latinità; dall'altra l'Oriente, che era rimasto ancorato alla cultura ellenistica. Gli stessi Romani erano normalmente bilingui, ma avevano affidato alla lingua latina la versione ufficiale delle leggi e di ogni atto pubblico in tutto l'Impero.
Occorre comunque guardarsi dal raffrontare quella situazione con qualsiasi altra realtà politica posteriore a Roma antica. Anche se si è sempre utilizzata l'espressione il popolo romano, la romanità non è mai stata una questione etnica. Fin dall'inizio della loro storia, infatti, i Romani hanno assimilato in sé tutti i popoli che si sono venuti a trovare sotto le leggi di Roma: ad iniziare dai Sabini, poco dopo la fondazione dell'Urbe, continuando poi con le genti del Lazio e dell'intera Italia, per poi assorbire tutte le altre popolazioni dell'Impero. Così, "il popolo romano, con la sua enorme e variopinta moltitudine, in cui sono confluiti uomini di ogni origine" [Erod.], era naturalmente incline all'apertura verso l'esterno ed alla tolleranza. "Roma non respinge mai nessuno": "essa accoglie le genti venute da tutto il mondo, come il mare riceve i fiumi" [Aris.]. La romanità, quindi, era essenzialmente una questione culturale: la consapevolezza di far parte di una comunità regolata dalle leggi e dai valori che dall'Urbe si erano irradiati in tutto il mondo conosciuto, mentre la stessa Roma aveva nel contempo beneficiato dell'apporto di tutte le culture che si erano integrate nella civiltà romana. Su questa consapevolezza si basava anche la voglia di contribuire attivamente al benessere di questa comunità, nonché la volontà di difenderla contro ogni aggressione che potesse comprometterne la sicurezza.
Quando questa volontà iniziò ad attenuarsi, lo strumento militare e quello navale iniziarono di pari passo a perdere la propria efficacia, aprendo varchi sempre più ampi all'afflusso di popolazioni barbare. Questi nuovi arrivati, accolti troppo precipitosamente anche nelle forze armate, senza dar loro il tempo sufficiente per sentirsi cittadini romani, mantennero in sé i propri egoismi nazionali, che finirono per aver buon gioco sulla mentalità universalista che era stata assunta dal mondo romano. Vedremo, in particolare, di quali enormi vantaggi poterono beneficiare i barbari quando si allentò il controllo navale romano sui mari, e come essi dimostrarono invece tutta la loro vulnerabilità quando i Romani ridiedero vigore al proprio potere marittimo.
Con tali vicende si conclude questa prima ricostruzione organica della storia navale e marittima di Roma antica, redatta sulla base delle testimonianze che ci sono pervenute dall'antichità, ed interpretata alla luce delle conoscenze professionali d'un marinaio.
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Il poeta Ennio, citato da Cicerone, scrisse la seguente riflessione, che non pochi filosofi, preti o moralisti vorrebbero aver scritto essi stessi con altrettanta eleganza ed efficacia: "l'uomo che mostra cortesemente la via a un viandante smarrito, fa come se dal suo lume accendesse un altro lume. La sua fiaccola non gli risplende di meno, dopo che ha acceso quella dell'altro" [Cic.2]. Vi è qui una piccola prova della grandezza di Quinto Ennio, con una evidenza che ci colpisce e ci convince molto più dei più dotti commenti che potremmo trovare nei moderni trattati di letteratura latina. La lettura diretta delle fonti antiche ci consente, in effetti, di avere la più immediata percezione del pensiero dei nostri lontani progenitori e di meglio apprezzarne il valore.
"Sebbene, però non si usi attribuir agli eccellenti ingegni ed agli scrittori quegli onori che essi meriterebbero per la loro opera, le menti stesse di costoro, elevandosi alle più alte sfere del sapere, salgono al cielo e acquistano la immortalità, mantenendo viva tra i posteri non solo la loro sapienza, ma anche la loro immagine. Coloro che sanno apprezzare i piaceri dello studio letterario non possono, infatti, non ritenere impressa nel loro animo la figura del poeta Ennio come quella di un dio; quelli che leggono con gioia i versi di Accio vedono concreta davanti a sé non solo la bellezza della sua arte, ma addirittura la sua immagine. E parimenti a coloro che nasceranno dopo di noi sembrerà veramente di discutere faccia a faccia con Lucrezio della natura del mondo o con Varrone della lingua latina, come i molti studiosi cui sembra proprio di tenere un'intima conversazione con i filosofi greci, disputando con loro su vari problemi. Insomma il pensiero degli antichi scrittori, scomparsi fisicamente ma perennemente vivi attraverso i loro insegnamenti e le loro conquiste scientifiche, ha sempre maggior autorità in ogni campo rispetto a quella dei contemporanei" [Vitr.]. Si tratta di un convincimento espresso nel luminoso secolo di Augusto, ove esso era ampiamente condiviso, come accadde in tutte le altre epoche fiorenti e ricche di straordinari talenti. Nello stesso spirito, rifuggendo dalla miopia degli ignari che derivano tutte le loro certezze dalle idee recenti e dalle ansie odierne, risulta naturale riconoscere nello splendore dei classici le più solide fondamenta delle nostre conoscenze sulle origini della nostra civiltà.
Sono queste le considerazioni che hanno ispirato la redazione di Classica, che, nei suoi primi dieci libri, ha presentato una ricostruzione organica dell'intera storia navale e marittima dell'antica Roma, utilizzando pressoché esclusivamente gli scritti che ci sono pervenuti dai Romani e dalle altre genti del loro impero. In seguito alla ricerca condotta a tale scopo in tutte le antiche fonti reperibili, mentre la maggior parte del materiale acquisito ha trovato la sua logica collocazione nella predetta ricostruzione storiografica, una piccola parte è stata riservata alle appendici incluse nel presente libro XI. Ciò al fine di raggruppare in tale ambito degli elementi omogenei che non risultassero necessariamente legati alla successione cronologica degli eventi storici, ma che apparissero comunque utili a meglio comprendere le relazioni degli antichi Romani con il mare, con le navi e con la navigazione. Queste Appendici marittime costituiscono pertanto, in un certo senso, una raccolta ordinata degli "avanzi" rimasti al termine della redazione dei primi dieci libri di storia. Non si tratta quindi di una vera e propria trattazione monografica, con l'esaustiva illustrazione di tutto quanto si conosce sui Romani nell'ambito di ciascuno degli argomenti presentati. Si tratta piuttosto di informazioni aggiuntive, intese ad integrare quelle già desumibili dalla precedente narrazione storiografica. Di conseguenza, il Lettore che volesse conoscere tutto quello che ci è pervenuto dalle fonti antiche su di uno specifico argomento, dovrebbe ricercare tali elementi sia nelle pertinenti appendici, sia in tutti i libri precedenti, con l'ausilio dei molteplici rinvii inclusi nel presente libro e con l'eventuale ulteriore ausilio degli indici analitici di prevista pubblicazione nel prossimo libro XII.
Tomo IFasti Navali,
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Passeggiando fra i marmorei edifici del Foro Romano, ai piedi del Palatino e del Campidoglio, il cittadino dell'antica Roma si trovava letteralmente circondato dalle più auguste memorie navali della storia patria. Ponendosi al centro della piazza e guardando in direzione del Tempio della Concordia, addossato al colle capitolino, egli poteva vedere innanzi a sé l'imponente tribuna dei Rostri, il cui esteso basamento era frontalmente ornato da una serie di prominenti speroni di bronzo, che erano stati smontati dalle navi da guerra nemiche catturate ad Anzio nel IV sec. a.C.; quei temibili trofei navali simboleggiavano la contestuale nascita della prima - sia pur piccola - flotta da guerra dei Romani. Sulla destra, più o meno a metà strada fra la stessa tribuna e la Curia del Senato, si ergeva la candida colonna rostrata di Caio Duilio, ornata con i rostri delle numerose navi puniche catturate in occasione della prima grande vittoria navale romana sui Cartaginesi, nel III sec. a.C.. Alle spalle del nostro osservatore, un'altra serie di poderosi rostri di bronzo era fissata sul basamento del Tempio del Divo Giulio Cesare, in memoria della vittoria navale di Azio (I sec. a.C.) che aveva consentito l'instaurazione della pace augustea sulla terra e sul mare, assicurando durevoli condizioni di stabilità e benessere a tutto l'Impero. Infine, sulla destra del predetto tempio, l'arco di trionfo di Augusto recava incisi sulle sue pareti i Fasti della Repubblica, che includevano i numerosi trionfi navali celebrati a Roma per le vittorie che avevano consentito la progressiva estensione dell'Impero su tutte le coste del grande mare interno che collegava i tre continenti del mondo antico.
Tutto ciò era perennemente sotto gli occhi di ogni abitante dell'Urbe che si recasse al Foro, il centro pulsante della vita della città e del suo Impero. E lo stesso spettacolo si offriva agli occhi ammirati degli innumerevoli visitatori che affluivano nella Città Eterna provenendo da tutte le sponde dell'Impero o da regioni ancor più remote, esterne al dominio di Roma. La consapevolezza dell'importanza attribuita dai Romani alle proprie attività navali veniva rafforzata da infinite ulteriori testimonianze distribuite in tutta la città: dalle varie altre colonne rostrate erette sul Campidoglio ed altrove, a monumenti rostrati di genere diverso (quali la casa rostrata di Pompeo Magno e le are rostrate); dai luoghi di culto dedicati a divinità che, per quanto si sapeva, avevano favorito delle grandi vittorie navali romane (vedasi il Tempio dei Lari Permarini nel Campo Marzio ed il Tempio di Apollo Navale sul Palatino), ad altri edifici costruiti dai trionfatori navali con i proventi del bottino (come il Tempio di Giano ed il cosiddetto Portico corinzio); dalla nave monumentale in travertino rappresentata sull'intera isola Tiberina, all'efficiente ed attivissimo porto fluviale di Roma, che si estendeva dall'antico Portus Tiberinus, antistante al Tempio di Portuno, alle banchine più a valle, nell'area dell'Emporio, e si manteneva strettamente connesso al porto marittimo; dalla continuativa presenza a Roma di navi e marinai delle due flotte pretorie, alle ricorrenti celebrazioni di spettacoli di naumachie, che attiravano immancabilmente delle incontenibili folle di spettatori.
È con questo quadro dell'antica Roma dinanzi agli occhi, che mi accingo a concludere Classica: un quadro permeato non solo della serietà, della determinazione e dell'indubbio acume con cui i Romani hanno affrontato e portato a termine ogni loro impresa navale e marittima, ma anche della manifesta fierezza degli stessi Romani per le loro gesta navali. Per tale motivo, mi è sembrato giusto arricchire questo libro XII con alcuni ulteriori piccoli echi di quella giustificata fierezza. Infatti, questo ultimo libro - con il glossario, il sommario, gli indici analitici e le bibliografie - è essenzialmente inteso a fungere da guida alla consultazione di tutti i precedenti. Ogni ricerca su Classica di specifici argomenti relativi alla storia navale e marittima dell'antica Roma dovrebbe poter essere condotta utilizzando i predetti strumenti. Ma tutte queste lunghe elencazioni, inevitabilmente aride, avevano bisogno di esser introdotte da un sintetico riepilogo dei fatti e dei dati più salienti della vera e propria storia "classica", cioè di quanto ebbe diretta attinenza con le flotte di Roma. Questa è la finalità dei miei "Fasti Navali", così denominati poiché includono le parti d'interesse navale degli antichi Fasti Trionfali, e si ispirano, in un certo senso, anche agli antichi Fasti Consolari nel fornire l'elencazione cronologica dei comandanti noti delle Flotte romane. Fra gli altri fatti memorabili inclusi in questa sintesi, vi sono eventi di vario genere che vennero onorati dai Romani con specifici riconoscimenti o che vennero comunque ricordati con particolare favore. Per contro, coerentemente con le consuetudini romane, non compaiono in questi Fasti Navali due categorie di eventi: né i pochi infortuni subiti dalle flotte romane (episodi chiaramente nefasti, e pertanto esclusi per definizione), né i successi conseguiti nel corso di combattimenti prettamente fratricidi, per i quali non era lecito gioire pubblicamente.
Questo riepilogo vuole in tal modo rappresentare l'ultimo omaggio di Classica agli oltre otto secoli di storia della Marina di Roma antica ed alla maestria dei nostri padri romani, che seppero utilizzare le proprie flotte e la loro grande strategia marittima per assumere e mantenere l'assoluto dominio del mare, a livelli che nessun altro popolo poté mai più raggiungere, e per garantire a tutti la perennne fruibilità del mare, quale ricchezza comune, elemento di collegamento, fattore di benessere e veicolo di diffusione della civiltà.