IL POTERE MARITTIMO
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Il 25 novembre 1994 è scomparso a Trieste uno dei nostri più validi collaboratori, il contrammiraglio (a) Antonio Flamigni, deceduto mentre stava ultimando un saggio - rimasto purtroppo incompiuto - sul potere marittimo di Roma. Lo pubblichiamo ora, quale doveroso atto di omaggio e apprezzamento per una collaborazione iniziata nel dicembre 1970, con un articolo dal titolo "Appunti su "Introduzione alla strategia" del Gen. A. Beaufre".
Nato a Forli il 21 dicembre 1931, entrato all'Accademia di Livorno il 29
ottobre 1951, promosso guardiamarina il 1° luglio 1955, Antonio Flamigni
ha chiuso la sua carriera il 19 febbraio 1991, con la promozione a contrammiraglio.
Il titolo del suo primo articolo sulla Rivista è significativo:
Flamigni può dirsi, infatti, uno dei pochi cultori della strategia
e del potere marittimo; argomenti ai quali ha dedicato i suoi lavori più
apprezzati. Tra di essi, ricordiamo anche la recentissime traduzione (1994)
dell'opera più celebre di A.T. Mahan, The influence of sea power
upon history, preceduta da un pregnante commento.
A chi ha dedicato, come l'ammiraglio Flamigni, la parte migliore della
sua vita alle cose navali, nessun ricordo si attaglia meglio che la pubblicazione
di uno scritto nel quale egli mostra con indubbia efficacia perché
per diventare grande, Roma ha dovuto essere grande prima di tutto sul mare.
Un sincero e commosso grazie all'ammiraglio Flamigni a nome della Direzione
e di tutti gli affezionati Lettori della Rivista Marittima.
Roma, 1° novembre 1995
Nelle mie intenzioni questo lavoro avrebbe dovuto essere molto più completo e dettagliato. Poiché sembra che non abbia il tempo per farlo, ho deciso di pubblicarlo, pur in questa forma ridotta.
Ringrazio la Rivista Marittima per aver accettato la pubblicazione di un lavoro certamente incompleto e me ne scuso con i Lettori.
Trieste, novembre 1994
La storia di Roma antica presenta ancora numerosi problemi che appassionano
gli studiosi. In queste pagine non si pretende certo di risolverli, si
vorrebbe solo effettuare un tentativo di suggerire una diversa interpretazione
di alcuni dati storici al fine di giustificare alcuni avvenimenti che sono
tuttora origine di discussione. Considereremmo assolto il nostro compito
se qualche studioso, più preparato di noi, approfondisse gli argomenti
che abbiamo qui trattato con una preparazione accademica certamente insufficiente.
Il motivo che ci ha indotto a interessarci della Marina di Roma antica
è alquanto banale. Tutti gli studiosi (forse con l’eccezione di
C.G. Starr) concordano nel ritenere che i Romani, almeno fino alla Prima
Guerra Punica, non amassero il mare e vi si tenessero lontani il più
possibile. Tuttavia, un popolo di pastori e agricoltori, così ci
dicono, decide, non si sa perché, di rompere un trattato liberamente
sottoscritto e di dichiarare guerra alla maggior potenza navale dell'epoca.
Questo popolo di "terricoli" avrebbe copiato una nave cartaginese
andata in secca, avrebbe inventato una passerella (Corvo) da aggiungere
alle altre attrezzature marinaresche della nave e avrebbe così vinto
tre grandi battaglie navali contro la flotta più potente del Mediterraneo,
perdendone una soltanto. Questa è un'affermazione che potrà
anche convincere gli storici, ma non un marinaio.
In un noto libro di J.H. Thiel dal titolo "A History of Roman Sea
Power before the Second Punic War" l'Autore afferma: "At
the beginning of the war the Romans were almost completely unfamiliar with
the sea as well as with naval warfare". Tuttavia, pur avendo intitolato
il libro al "Roman Sea-Power" non cita nemmeno una volta
la marina mercantile romana dimostrando così di avere un'idea un
poco confusa sul significato di Sea-Power, traducibile in italiano
in Potere Marittimo.
Il potere marittimo è composto della Marina militare, di quella
mercantile e di tutti quei sostegni logistici, amministrativi e finanziari
che consentono di sostenere e proteggere i traffici marittimi.
Poiché fino a tempi abbastanza recenti la differenza fra Marina
mercantile e Marina militare non era così accentuata come lo è
ora, le capacità marinaresche acquisite dai marinai della mercantile
potevano essere rapidamente sfruttate anche sulle unità militari.
D'altronde, chi non è colpito dal virus del pregiudizio deve ammettere
che l'affermazione che solo nella Prima Guerra Punica i Romani si interessassero
per la prima volta del mare è uno "statement. ... apt to
mislead. If it is taken to mean that in the First Punic War the Romans
undertook naval warfare for the first time on a largo scale, it is within
the truth; if it leads us to believe that the Romans before this date never
possessed a ship and never sought to guard or promote their maritime interests,
we will find evidence to show this view is incorrect". (1)
Starr aggiunge "...in fact Roman trade by sea was far more vital
than il is usually portrayed." (2)
Si può ammettere che i Romani non fossero dei navigatori, intesi
come esploratori. Non ci sono tracce nella tradizione romana di viaggi
come quello del cartaginese Imilcone che esplorò l'Atlantico settentrionale
fra il VI e il V sec., o del periplo dell'altro cartaginese Annone sulla
costa africana atlantica, nè, tanto meno, della circumnavigazione
dell’Africa (Erodoto IV,42) intrapresa da marinai fenici sotto il regno
del Faraone Necao II (609-594 a.C.) (figure in basso), nè del periplo
di Scilace, né del viaggio di Pitea, e così via.
Sappiamo anche che prima della Prima Guerra Punica la consistenza della
Marina da guerra romana era ben poca cosa. Tuttavia, dedurne da questo
che i Romani fossero "al-most completely unfamiliar with the sea"
ha la stessa validità storica che avrebbe la deduzione di uno studioso
del 3994 d.C. che, consultando solo il Jane's Fighting Ships del
1994 (l'Almanacco navale delle Marine militari) concludesse che, vista
la consistenza delle loro Marine da guerra, Norvegesi e Greci fossero,
nel 1994, "almost completely unfamiliar with the sea".
Tutti sanno che le Marine mercantili di questi due Paesi sono fra le più
consistenti al mondo.
Inoltre è da tenere presente che la maggior parte delle notizie
che le fonti ci danno di popoli marinari si riferiscono principalmente
alle attività di navigazione - intesa come esplorazione - e alle
attività militari, cioè alle battaglie navali. I riferimenti
ai commerci sono rari nelle fonti antiche. In ogni caso la convinzione,
che i Romani si tenessero lontani dal mare, ha comportato numerosi problemi
di interpretazione della storia di Roma antica, problemi che, a nostro
avviso, sono inesistenti se si ammette che i Romani non solo trafficavano
per mare già al tempo degli ultimi Re, ma avevano anche ben chiara
l'importanza dei fattori geografici nel commercio marittimo. Le azioni
del Senato prima della Prima Guerra Punica e fino alla guerra Siriaca,
dimostrano una comprensione della situazione geopolitica del Mediterraneo
che ci sembra non sia stata sufficientemente evidenziata.
Siamo confortati in questa nostra opinione da C.T.Smith il quale scrive:
"La geografia dell'espansione di Roma dalle sue umili origini all'Impero
di Augusto ha costituito per molto tempo un argomento peculiare della geografia
storica e politica..Tuttavia il criterio seguito da molti geografi è
stato troppo limitato, essendosi costoro preoccupati di comprendere le
direttrici dell'espansione romana solo alla luce della geografia fisica
dell'Europa. I motivi che indussero Roma ad attuare per tanti anni la sua
politica espansionistica e il fondamento della supremazia militare e navale
da essa raggiunta o sono stati semplicemente presupposti, senza alcun tentativo
di dar loro una spiegazione, oppure sono stati lasciati alla competenza
dello storico." (3)
A nostro avviso il periodo storico da considerare per svolgere il nostro
compito è quello che va dalle origini di Roma alla guerra Siriaca.
I Lettori della Rivista sono già al corrente dell'ottimo lavoro
del comandante Carro (4), lavoro che riteniamo sia un'indispensabile guida
alle nostre osservazioni. Noi ci limiteremo a citare e commentare avvenimenti
e fatti che riterremo utili per lo scopo di questo scritto. Faremo cioè
solo quelle considerazioni che, per la diversa impostazione dei nostri
lavori, il comandante Carro non ha ovviamente potuto fare.
Note:
(1) F.W. Clark, The influence of Sea-Power on the History of the Roman Republic; tesi di laurea PhD, Università di Chicago, 1915
(2) C.G. Starr, The Influence of Sea-Power on Ancient History, Oxford 1989, pag.55
(3) C.T. Smith, Geografia storica d'Europa, Laterza 1974, pag.83
(4) D.Carro, "Classica", supplemento alla Rivista Marittima nov. 1993
Le fonti e i reperti archeologici di cui disponiamo ci forniscono solo
pochi indizi dei traffici marittimi romani dalle origini fino al III sec.
a.C.. I motivi sono abbastanza evidenti. Roma non era certo una potenza
marittima commerciale come Atene o Cartagine; inoltre gran parte delle
nostre conoscenze derivano da ritrovamenti archeologici di manufatti, come
le ceramiche, che hanno resistito al tempo, che si possono datare con relativa
facilità e dei quali, soprattutto, si può risalire alle fonti.
Ma i traffici marittimi interessavano anche altri tipi di prodotti, come
grano, vino, olio, legname e soprattutto metalli (rame, stagno, piombo
ecc.). Ora che l'archeologia subacquea ha fatto passi da gigante, parte
di questo traffico (per esempio quello che implicava l'impiego di anfore)
è ricostruibile. Tuttavia i dati forniti in questo modo sono ancora
molto scarsi. Dovremo, pertanto, appoggiandoci alle fonti più sicure,
arrivare alle nostre conclusioni per via induttiva: "Non crediamo
in verità che sia estranea alla scienza, o al concetto tradizionale
della scienza, la raccolta di tutto ciò che è accertabile
o presumibile sopra un certo settore, nella fattispece piuttosto oscuro,
della storia del passato, con un procedere induttivo e sperimentale tendente
al fine di una ricostruzione sia pure limitata, ma per quanto possibile
obiettiva" (1).
Prima di farlo riteniamo però opportuno presentare un quadro, alquanto
sintetico, dei traffici mediterranei dall'età preistorica fino al
V sec. a.C.. Questo ci consentirà di evidenziare determinate condizioni
geopolitiche dell'antichità mediterranea.
"Minosse fu il più antico, di cui ci sia giunta notizia,
che si procurò una flotta e dominò sulla maggior parte del
mare che ora si chiama greco: estese il suo potere sulle isole Cicladi
e ne colonizzò la maggior parte, dopo averne scacciati i Carii e
aver collocato al potere i suoi figli stessi.
Naturalmente non trascurava di togliere dal mare, per quanto possibile,
la pirateria, affinché più sicuri gli giungessero i tributi".(2)
In questo paragrafo Tucidide concentra in poche parole tutti gli elementi
indispensabili al nostro studio e che ritroveremo, seppur ampliati e modificati,
in tutto il nostro racconto.
Per prima cosa notiamo la costruzione di una flotta che, evidentemente,
non doveva essere solo militare dal momento che la distribuzione della
ceramica e degli insediamenti minoici nell'Egeo "...ci mostra tre
itinerari commerciali principali: il primo nella parte orientale dell'Egeo,
attraverso le "colonie" di Carpanto e Rodi verso la costa dell'Asia
minore - attraverso Rodi passava anche la via commerciale verso Cipro e
la Siria -; il secondo nella parte occidentale dell'Egeo, attraverso la
"colonia" a Citera verso Laconia; il terzo infine, nell'Egeo
centrale attraverso gli insediamenti cicladici a Thera, Milo e Ceo verso
l'Argolide, l'Attica e la Tessaglia (v. figura in basso).
Se si osserva la figura in alto si può constatare come la posizione di Creta sia "centrale" nei confronti del mare Egeo, una centralità che consentirà ai Minoici di estendere i loro traffici anche verso l'Egitto (figura in basso).
La geografia ha un'influenza diretta sulla storia e posizione, spazio
(inteso come Raum) e facilità di comunicazioni, sono i fattori fondamentali
in geopolitica.
Le più facili vie di comunicazione, specialmente nei tempi antichi,
erano, e sono tuttora, quelle marittime. La sicurezza di queste vie da
interventi umani, come gli attacchi pirateschi, era indispensabile. La
citazione di Tucidide circa l'azione antipirati di Minosse giustifica l'appellativo
di talassocrazia alla potenza marittima minoica, nonostante il parere
contrario di un'autorità come C.G. Starr (5), perché questa
era la funzione principale del potere navale di una potenza marittima nell'antichità.
Quando fatti sui quali poco conosciamo minarono il potere minoico, era
già pronta un'altra potenza, che con Creta aveva avuto scambi continui
e che si trovava in una posizione sufficientemente "centrale"
da poter occupare le isole dell'Egeo occidentale e, poco alla volta, anche
quelle orientali e Creta stessa. Ceramica micenea è stata trovata
in Sicilia e nelle Eolie, dove esitono importazioni risalenti fino al tardo
minoico (XVI sec. a.C.) (6).
I traffici micenei raggiungono l'Adriatico e il Tirreno alla ricerca di
nuovi metalli. Poiché lo stagno, al contrario del rame, non era
abbondante in Mediterraneo si dovettero aprire rotte atlantiche fino alle
isole Cassitèridi, alla Bretagna e alla Cornovaglia. Parte di questo
traffico, per esempio quello dalla Bretagna e dalla Cornovaglia, avveniva
per via fluviale lungo il Rodano, il che giustificherà la fondazione
della colonia focese di Massilia (Marsiglia) nel 600 a.C.
In effetti l'attività minoica e micenea, che è anteriore
al 1400 a.C. viene sostituita dal 750 al 550 a.C dalle "...più
eccezionali avventure coloniali che la storia abbia mai registrato, il
mondo ellenico si estese dall'Egeo alle sponde più lontane del Mar
Nero, all'Africa settentrionale e all'Egitto, e, a Occidente, fino alla
costa spagnola e alla Francia meridionale" (7).
Sebbene gli insediamenti greci dalla penisola anatolica all'Italia meridionale,
alla Spagna e Francia rimanessero in qualche modo collegati con la città
madre, certamente non ne mantennero una dipendenza diretta. Molti di questi
insediamenti furono causati da un aumento demografico, che tuttavia è
giustificabile proprio col miglioramento del livello di vita dovuto ai
traffici marittimi. Tuttavia i primi insediamenti derivavano da necessità
di carattere commerciale. La colonia calcidiese di Pitecussa (Ischia) precede
quella di Cuma, entrambe, sicuramente fondate per scopi commerciali.
Un altro popolo, stretto fra il mare e i monti del Libano, dalle foreste
di cui ricavava il legname per le costruzioni navali, aveva iniziato, a
partire dall'XI sec. a.C., la più sorprendente avventura marittima
e commerciale dell'antichità.
I Fenici costruirono una flotta commerciale che si impose subito alla conquista
dei mercati mediterranei basandosi sullo scambio e il baratto. Punti d'appoggio
commerciale divennero città importanti, come Tiro, Sidone, Arado.
Colonie furono fondate a Cipro, importante non solo per la sua posizione,
bensì anche per le miniere di rame, e da Cipro i Fenici tentarono
di penetrare verso la penisola greca. Bloccati in questo loro tentativo
dagli stessi greci, si rivolsero verso occidente lungo le coste del Nord
Africa, oltre Capo Bon, verso Gibilterra.
I Fenici furono certamente i maggiori esploratori marittimi dell'antichità
- abbiamo già accennato ad alcune delle loro imprese -, ma mantennero
sempre uno strettissimo segreto sulle rotte e i luoghi che venivano man
mano scoprendo. Strabone (XVII,1,18) afferma chiaramente che "...i
Cartaginesi solevano affondare le navi degli stranieri dirette verso la
Sardegna o le Colonne d'Ercole". È molto probabile che
molte delle leggende sui mostri marini che avrebbero popolato l'Oceano,
siano state diffuse ad arte dai Fenici per dissuadere altri naviganti da
percorrere le loro stesse rotte. Se così fosse il successo di questo
tipo di "disinformazione" sarebbe eccezionale: basti osservare
la tavola, popolata di mostri, dell'Islanda nell'Atlante "Theatrum
Orbis Terrarum" del 1595, per rendersene conto.
Purtroppo con la distruzione di Cartagine andò distrutto anche l'archivio
segreto dell'Ammiragliato punico. Pertanto non sapremo mai esattamente
fin dove si spinsero gli intrepidi marinai fenicio-punici.
Gli insediamenti e gli scali fenici erano quasi sempre localizzati su isolette
prospicienti la terraferma. La scelta dei luoghi dimostra chiaramente che
si tratta di scali commerciali e non di vere e proprie colonie del tipo
greco.
Verso l'814 a.C. i Fenici di Tiro fondarono la città di Cartagine
in una posizione ideale per la "centralità" geografica
e, pertanto, anche commerciale nel Mediterraneo; una posizione che, controllando
il Canale di Sicilia, controllava anche il passaggio dal Mediterraneo occidentale
a quello orientale. Inoltre il sito era caratterizzato da quelle che i
Fenici consideravano indispensabili condizioni geografiche: una insenatura
o una laguna interna per l'ormeggio delle navi, una spiaggia per tirarle
in secco, una collina per la difesa. Queste sono le caratteristiche di
quasi tutte le basi cartaginesi, da Lilibeo a Sulcis, Tharros, Cuccureddus.
Ancor oggi è possibile avere un'idea topografica del sistema portuale
di Cartagine che rappresenta uno degli esempi più meravigliosi di
costruzione portuale artificiale, mercantile e militare, commerciale e
cantieristica. La lunga storia delle navigazioni e dei commerci fenicio-punici
ci porterebbe fuori dal nostro tema. Basterà ricordare come i Cartaginesi
occuparono, in pratica, la Sardegna, si installarono in Spagna (la mitica
Tartessos) e in Sicilia, ove però furono fermati dai Greci, in particolare
dai Siracusani.
Tuttavia, questo tipo di "occupazione" si limitava principalmente,
come già accennato, a punti d'appoggio per i traffici commerciali.
Cartagine non poté o non volle mai crearsi uno "spazio"
territoriale paragonabile a quello che invece Roma concepirà.
Il successo finanziario dei Cartaginesi fu dovuto a contributi fissi da
parte degli alleati, "...tributi imposti a soggetti... dazi sul
traffico delle merci; multe nell'esercizio della giurisdizione"
(8) e allo sfruttamento delle ricche miniere spagnole. "...la ricchezza
di Cartagine può essere valutata, indirettamente, dalle ingenti
spese di guerra contribuite ai nemici: 2000 talenti nel 480 a.C., 300 a
Dionisio (396 a.C.), altrettanto forse ad Agatocle; e poi, ai Romani, 3200
talenti (nel 241 a.C.) in dieci rate, 1200 (nel 238 a.C), 10.000 in 50
rate (nel 201). Ciò oltre alle spese sostenute in proprio per alimentare
cos' lunghe guerre." (9)
Tutto questo dimostra il carattere esclusivamente commerciale, monopolistico
e impositivo che i Punici imposero nelle zone a loro soggette e, per quanto
possibile, a tutti coloro con i quali avevano relazioni di scambio. A noi
sembra che l'importanza di questo tipo di relazioni sia cruciale per comprendere
il crollo finale di Cartagine.
In un recente libro, "Il Tramonto di Cartagine", il Prof.
Moscati ha dimostrato come la più grande potenza marinara del mondo
antico fu "...vinta dall'impatto culturale dell'ellenismo, prima
ancora che da quello militare di Roma.". Il Prof. Moscati considera
un "paradosso" che le forze dissolutrici della cultura punica,
cioè l'ellenismo, siano state propagate proprio da Cartagine stessa.
A noi non sembra un paradosso. Se ne era già accorto Cicerone quando
scrisse (de Rep. II,4): "Le città marittime sono quanto
mai esposte alla corruzione e al peggioramento dei costumi. In esse si
mescolano infatti lingue e usanze d'ogni paese e s'importano, oltre alle
merci, anche nuovi costumi, così che nessuna delle patrie istituzioni
si mantiene inalterata."
La domanda da porsi è semmai: perché l'impatto culturale
dell'ellenismo, che fece "tramontare" Cartagine, non fece tramontare
Roma? È una domanda alla quale cercheremo di rispondere più
avanti.
Tutto l'argomento, interessantissimo, esula però, almeno in parte,
dall'oggetto del nostro studio. Vi abbiamo voluto accennare molto brevemente,
per mostrare come, con il progresso tecnologico, vi sia stato uno spostamento
dei traffici dal solo Mediterraneo orientale - che continuerà ad
essere tuttavia importante - verso il Mediterraneo centroccidentale.
In conseguenza dello spostamento dei traffici la posizione di "centralità"
che aveva costituito uno dei principali vantaggi dello sviluppo commerciale
marittimo minoico prima, miceneo poi, ateniese ancora successivamente,
sarà assunta da località situate appunto nel Mediterraneo
centrale. Il centro di gravità dei traffici fenici, come abbiamo
visto, passerà da Tiro a Cartagine mentre anche Siracusa, dopo la
vittoria sugli etruschi a Cuma (474 a.C.) e ancor più dopo la sconfitta
della flotta ateniese durante la guerra del Peloponneso (413 a.C.), e Roma
stessa, dimostrano l'importanza di questo "spostamento" dello
spazio politico-economico interessato.
In pratica, nel V sec. a.C. abbiamo nel Mediterraneo centrale, proprio
perché da esso si poteva controllare entrambi i bacini del Mare
interno, tre potenze che si presentano in condizioni da poter prendere
il predominio sull'intera area: Cartagine, Siracusa e Roma.
Gli Etruschi, che secondo Catone, con molta esagerazione, avevano il possesso
di quasi tutta l'Italia, svilupparono una civiltà, proveniente da
quella villanoviana della stessa Etruria, che ebbe un impatto considerevole
in un'ampia area della penisola. Essi tentarono una penetrazione verso
Sud, oltre il Tevere e il Lazio, verso la Campania, dove si stabilirono
a Capua (650 a.C.), venendo in contatto con i nuovi insediamenti greci
con i quali scambiarono proficuamente metalli e manufatti in cambio di
ceramiche.
La fondazione, però, di Massilia mise in crisi l'intero sistema
commerciale. La reazione dei Cartaginesi e degli Etruschi portò
alla battaglia navale di Alalia (535 a.C.) che diede ai Cartaginesi il
controllo della Sardegna e agli Etruschi quello della Corsica.
In seguito a questo successo gli Etruschi cercarono di.consolidare le loro
posizioni in Campania, ma furono sconfitti in una battaglia terrestre dai
cumani nel 524 a.C. e di nuovo, nel 506 a.C. ad Aricia e nel 474 in una
battaglia navale davanti a Cuma, battaglia che stroncò il potere
marittimo etrusco. La loro influenza in Campania e nel Lazio decadde così
molto rapidamente.
Essendo geograficamente ben collocati, gli Etruschi penetrarono anche verso
nord, via Marzabotto e Felsina (500 a.C.), fino a Spina, costruita probabilmente
in funzione anti-Adria, la città greca che darà il nome a
quel mare. Il successo commerciale di Spina deve essere stato notevole
se Dionisio di Alicarnasso poté scrivere che gli abitanti di Spina:
"Ebbero poi buona fortuna, molto più che tutti gli altri
abitanti delle coste ioniche, affermandosi per molto tempo come i più
potenti sul mare e furono in grado di portare al santuario di Delfi decime,
splendide quant'altre mai, ricavate dalle loro attività marinare"
(10).
Per inciso è interessante notare che le più recenti ricerche
archeologiche hanno dimostrato quanto diffuso fosse a Spina il processo
di ellenizzazione. Un possibile indizio di un "tramonto di Spina"
come quello di Cartagine?
Tuttavia il problema principale era che le singole città etrusche
non erano soggette a un'unica autorità, non costituivano un polo
politico ma solo culturale che, per quanto importante, non avrebbe potuto
reggere allo scontro che si sarebbe avuto per il controllo del Mediterraneo.
Pertanto, dal punto di vista geopolitico, le posizioni migliori per iniziare
lo scontro erano certamente quelle di Cartagine e Siracusa. Il tentativo
di quest'ultima, che raggiunse il massimo potere sotto Dionisio I quando
perfino l'Adriatico poté considerarsi un mare siracusano, ebbe una
durata relativamente breve. Siracusa, infatti, risentì dello spirito
individualista delle città greche e non riesci a crearsi quello
spazio, che pur la Sicilia avrebbe potuto fornire, di entità sufficiente
a reggere il confronto con le altre due: Cartagine e Roma.
Dell'importanza dello spazio e dell'unità politica dello stesso
abbiamo il conforto di Strabone (I,69) che scrisse: "...i più
grandi capi sono quelli che possono comandare per terra e per mare radunando
popoli sotto un solo governo e amministrazione politica".
Cartagine e Roma avevano invece la possibilità - la prima principalmente
in Spagna oltre che in Sicilia; la seconda nel centro della penisola italiana
- di ampliare appunto quel dominio territoriale, quello spazio, che solo
può dare sufficiente forza contrattuale e militare al momento del
conflitto.
Cartagine aveva certamente la posizione più favorevole; possedeva
inoltre quel potere marittimo che le consentiva libertà di comunicazione
e di commercio con conseguenti guadagni e ricchezza per lo Stato. Tuttavia,
come abbiamo già accennato, essa mancherà di costruirsi quel
Raum, quello spazio politico, sociale e culturale che le avrebbe consentito
di legare a se popoli non soggetti, ma "soci", come invece farà
Roma.
Un esempio del comportamento di Cartagine nei confronti dei suoi sudditi
può forse chiarire quanto intendiamo dire sulla mancanza della costituzione
di un Raum adeguato. "Sappiamo... quanto fosse fiorente il territorio
di Cartagine e delle altre città puniche, quanto intensamente la
loro agricoltura si applicasse alle forme superiori della produzione, con
quanta gelosia la città dominante sorvegliasse i suoi sudditi vassalli,
alleati, per impedir loro d'introdurre queste forme superiori di coltivazione
e obbligarli ad accontentarsi di produrre grano..." (11). Un comportamento
esattamente opposto a quello che userà Roma con i popoli dei territori
che conquisterà.
Roma vincerà la competizione non solo perché aveva un esercito
di cittadini - e non di mercenari come Cartagine - ma anche, e forse principalmente,
perché gli alleati le rimarranno in gran parte fedeli. Ciò
è dovuto, a nostro parere non solo, come abbiamo detto, al comportamento
dei Romani nei confronti dei popoli sconfitti, ma anche alla potenza culturale
dell'unica, vera invenzione romana: il Diritto. "Si ripensi alla
definizione del diritto foggiata nella Monarchia di Dante: "La reale
e personale proporzione dell'uomo all'uomo che, conservata, conserva la
società umana, distrutta la distrugge" (12). Si sente
perfettamente in questa definizione la natura fondamentale del diritto
come armonia tra i singoli in una collettività superiore e rapporto
di questa collettività superiore con i singoli, qualche cosa che
è insieme rispetto fondamentale e dell'individuo e della Società"
(13)
Il grande contributo di Roma, da ascrivere ai decemviri, fu la laicizzazione
del diritto, la rinuncia al fas in favore del jus. Ed è
questo, a nostro.avviso, che consentì a Roma di assorbire l'impatto
della cultura ellenistica senza "tramontare" come Cartagine.
L'ellenismo a Roma trovò una solidissima base culturale originale
che non poté essere distrutta, ma che partecipò alla costruzione
di una nuova cultura che, con l'Impero, diverrà poi universale.
Tuttavia, l'altro grande fattore che consentì la vittoria finale
di Roma è l'innegabile comprensione che i Romani, e in particolare
il Senato, avevano dell'importanza e delle caratteristiche del potere marittimo.
All'inizio della Prima Guerra Punica Roma impostò subito la costruzione
di una flotta militare quale la città non aveva mai avuto; a Sparta,
durante la Guerra del Peloponneso, occorsero vent'anni per capire che se
voleva sconfiggere Atene avrebbe dovuto farlo in mare.
Note:
(1) M.Pallottino, Origini e storia primitiva di Rorna, Milano 1993, pag.57. 11 settore cui si riferisce l'Autore non è quello da noi trattato, ma il ragionamento non muta.
(2) Tucidide 1,4 (traduzione di L. Annibaletto)
(3) Traffici Micenei nel Mediterraneo, Atti del convegno di Palermo, Taranto 1986, pag.247
(4) idem. pag.250
(5) G.C. Starr, "The Myth of the Minoian Thalassocracy"
in Historia 3 1954/55 pag. 282 e seg.
(6) Heurgon, Il Mediterraneo Occidentale dalla preistoria a Roma antica, Bari 1986, pag.88
(7) C.T. Smith, Geografia Storica d'Europa, Bari 1974, pag.74
(8) E.Ciccotti, Comrnercio e civiltà nel mondo antico, in Biblioteca di Storia Economica diretta da V. Pareto, Milano 1929, pag. 6
(9) E.Ciccotti op.cit.
(10) Dionisio di Alicarnasso, Storia di Roma Arcaica 1,18,4 (traduzione di F. Cantarelli)
(11) M.Rostovzev, Storia Economica e Sociale dell'Impero Romano,
La Nuova Italia,1930, Pag. l l
(12) Monarchia 11 V
(13) L. Valli, "Civiltà mediterranee", in Rivista Marittima, febbraio 1929
Nell'antichità, considerate le difficoltà nelle comunicazione
terrestri dovute alla scarsità di strade, le vie più usate
per i traffici erano certamente quelle fluviali, oltre a quelle marittime.
Esistevano inoltre problemi di difesa che anche i primi insediamenti umani
non potevano ignorare. Per esempio le principali città etrusche,
esclusa Populonia, erano costruite in zone atte alla difesa e lontane dal
mare. I relativi porti erano solo piccoli insediamenti costieri: Gravisca
per Tarquinia, Pyrgi per Cere, Regisvilla per Vulci.
Questa scelta topografica per gli insediamenti etruschi è da tenere
presente anche per quanto riguarda Roma e Ostia, che ne riproducono la
prassi.
Anche se l'idrografia dell'antico Lazio era quasi certamente diversa da
quella attuale è indubbio che il fiume più importante della
costa tirrenica dell'Italia centrale era, ed è, il Tevere. A circa
venti chilometri dalla foce di allora (l'attuale linea di costa è
avanzata verso il mare per riporti alluvionali) il Tevere scorre in una
valle che presenta caratteristiche particolari. Le caratteristiche topografiche
di questo tratto tiberino sono essenziali per comprendere la storia sia
dell'insediamento primitivo sia dello sviluppo successivo (vds. Figura
in basso).
Sul lato destro del fiume abbiamo la presenza di quattro colli che si
succedono quasi parallelamente al fiume stesso: Monte Mario, Vaticano,
Gianicolo, Monte Verde. Il lato sinistro è invece molto più
frastagliato con una successione di colli più ravvicinata di quelli
della riva destra, particolare importante per la possibilità di
inserimento di più di un colle in quella che sarà la cinta
fortificata della città. In effetti si possono considerare due distinte
formazioni collinari: i contrafforti del Pincio, Quirinale, Viminale, Cispio,
Oppio e Celio. Più vicini al fiume i colli del Campidoglio, Palatino
(con la propaggine del Germinale) e, separato dalla valle Murcia, l'Aventino.
Il fiume, proprio in corrispondenza del Campidoglio, fa una stretta ansa
e al centro dell'alveo si presenta l'isola Tiberina. Ciò significa
che la corrente sul ramo di destra del fiume risulta piuttosto forte, mentre
era più debole nel ramo sinistro. Poco a valle dell'isola Tiberina
fu costruito fin da tempi remoti, un ponte - il ponte Sublicius
- che così collegava la riva laziale del fiume con quella etrusca.
In altre parole oltre al collegamento Sud Ovest-Nord Est, consentito dal
fiume, esisteva, in questo punto, anche un collegamento Sud Est-Nord Ovest.
Recenti ricerche nella "... "Area sacra di Sant'Omobono"
contenente il duplice Tempio della Muter Matuta e della Fortuna. ... hanno
mostrato che le sue adiacenze erano frequentate sin dalla media età
del bronzo (XVI sec. a.C.)" (1). L'area di Sant'Omobono è
subito alle spalle di quello che era il porto fluviale del foro Boario
e si deve notare che le due divinità italiche - Mater Matuta e Fortuna
- erano probabilmente protettrici dei naviganti. Nel Foro Boario si praticava
anche il culto di Ercole, il dio greco dei commerci, culto che risulta
uno dei più antichi.
In altre parole gli insediamenti sui colli di Roma, specialmente sul Palatino
- pur nella insufficienza di fonti sicure - dovevano aver avuto almeno
anche una funzione di carattere commerciale. È vero che la tradizione
delle origini di Roma parla quasi esclusivamente di una civiltà
di pastori, ma esistono innumerevoli reperti archeologici che ci dimostrano
l'intensità, fin d'allora, dei traffici greci e fenici nell'area
a cavallo della zona tiberina che include i colli di Roma. Inoltre abbiamo
riferimenti archeologici che ci confermano lo sfruttamento del legname
dei boschi che coprivano le alture e anche le zone pianeggianti. Legname
che in gran parte doveva essere esportato per le costruzioni navali. È
vero che tutto ciò non significa che il commercio marittimo fosse
in mano agli abitanti dei colli, anzi quasi certamente all'epoca non lo
era.
Tuttavia riteniamo che queste attività siano state, almeno in parte,
alla base della formazione di una struttura urbana ormai concordemente
collocata nel VII sec. Alla metà di quel secolo erano certamente
abitati Palatino, Esquilino, Quirinale e forse anche Aventino e Celio.
L'attività economica doveva essere quasi esclusivamente la pastorizia
e pochissimi dovevano essere i contatti con l'esterno. "Roma non
aveva unità topografica: a causa delle depressioni e delle paludi,
che li separavano i differenti gruppi di capanne dovevano avere tra loro
comunicazioni difficili e precarie: non era quindi possibile un'unità
urbana. Di questo gruppo di abitazioni gli Etruschi fecero una città,
nel doppio senso materiale e morale: ma ciò tuttavia non avvenne
di colpo, né in un sol giorno" (2), ci vollero infatti
circa 150 anni. Quasi certamente l'inizio di questo processo avvenne con
la scelta dell'area del Foro come centro commerciale per lo scambio dei
prodotti locali con quelli importati per via di mare da mercanti fenici
o greci. "Il Foro cominciò ad essere occupato da capanne
nel VII secolo. Poco dopo il 600 a.C. avviene una profonda trasformazione
urbanistica. Il Foro si libera di tombe e capanne e diventa una piazza
di mercato" (3). Quindi, nel VI secolo, assistiamo a tutta una
serie di riforme, quelle dei re d'origine etrusca, che dimostrano un diretto
collegamento con il mondo greco: La tradizione attribuisce a Servio Tullio,
fra l'altro, innovazioni politico-sociali molto simili a quelle che, proprio
all'inizio del VI secolo, Solone introduceva ad Atene. Questo fatto ci
sembra particolarmente significativo perché è difficile pensare
che i mutamenti politico-sociali ateniesi arrivassero a Roma così
rapidamente per interposta persona: i commercianti greci dell'Italia meridionale.
A noi sembra più probabile che cittadini romani apprendessero direttamente,
in loco, le novità legislative di Solone e ne riferissero di prima
mano nella Roma serviana.
E comunque in questi anni che si riscontra un'attività edilizia
notevole come "... il rifacimento dell'edificio della Regia (la
cosiddetta "terza" Regia) e degli impianti del Comizio ... In
pari tempo vediamo moltiplicarsi e arricchirsi straordinariamente i depositi
danari votivi delle aree sacre: in particolare il Foro sotto il Lapis Niger
e a S. Omobono" (4). "La suggestione più diretta
si manifesta nelle importazioni che in larghissima misura caratterizzano
la parte più scelta e preziosa delle offerte alle divinità..."
(5). Donde provenivano i fondi necessari per tutte queste innovazioni,
costruzioni e donazioni?
Che non venissero solo da bottini di guerra è dimostrato da Livio
(I,55) quando afferma che "...il ricavo del bottino di Pomezia
che era stato destinato al compimento di tutta l'opera [il tempio di
Giovel, bastò appena per le fondamenta.". Inoltre (Livio
I,56) "Così intento a edificare il tempio con lavoratori
fatti venire da tutta l'Etruria, [ il re] non solo usò per
questo danaro pubblico ma operai anche della plebe."
L'elencazione degli edifici che furono costruiti in questo periodo
è impressionante. Dopo averli enumerati la Tamborini scrive: "Questa
lunga elencazione di edifici dell'epoca regia in Roma ha un suo particolare
significato. Se sono infatti così numerose anche le costruzioni
di cui noi, dopo ventisei secoli, possiamo ritrovare qualche sparso membro
nel terreno e postulare l'esistenza, non è difficile immaginarsi
quale febbrile attività edilizia dovette manifestarsi in Roma all'epoca
dei Tarquini, tanto più se si considera che oltre al lavoro di costruzione
delle mura, che data la grandezza della città, era di somma importanza,
si dovettero rinnovare in gran parte certamente anche le case private."
(6)
Solo il commercio, a qualsiasi genere di prodotto si dedicasse, lana, legname
[Teofrasto (Hist. Plant.,V,8,3) afferma che le foreste attorno a Roma producevano
un albero detto oxìe (faggio), usato per le carene delle
navi etrusche. Il legname era quindi certamente merce d'esportazione],
molto meno probabili i prodotti agricoli, e vedremo perché, poteva
fornire quel danaro pubblico (col quale occorreva anche pagare gli operai
della plebe) per la costruzione delle opere pubbliche e, soprattutto, del
muro.
Momigliano riconosce che il rapido moltiplicarsi della costruzione dei
templi nei primi anni del V secolo (cioè subito dopo la fondazione
della Repubblica) costituisce una "difficoltà di interpretazione"
perché "... questi templi rappresentano ovviamente anche
un movimento di capitale e di lavoro eccezionale... ne consegue... o l'emigrazione
a Roma di maestranze dell'Etruria e della Magna Grecia o la formazione
di maestranze locali. In entrambi i casi, che non si escludono a vicenda,
penetrò in Roma un fermento nuovo politico ed economico. Ma se ci
è ignota l'origine delle maestranze, ancor più oscura è
l'origine dei capitali ingenti che occorsero per portare a termine quei
templi" (7).
Starr è molto più esplicito: "...there is adeguate
evidence that Roman potters, smiths and other craftsmen made products that
could be sold abroad".(8)
A noi sembra, pertanto, che solo il commercio potesse fornire guadagni
così rapidi e consistenti per le casse dello Stato. E perché
fossero rapidi e consistenti occorreva che, almeno in parte, questo commercio
cominciasse ad essere nelle mani di cittadini romani. D'altronde "Nei
suoi antichissimi primordi Roma era stata certamente una città marinara.
. . " (9)
Anche gli antichi si resero conto dell'importanza commerciale della posizione
nella quale era stata costruita la città; Livio (V,54) fa dire a
Camillo: "Non certo a caso gli Dei e gli uomini prescelsero questi
luoghi per fondarvi una città: colline saluberrimi, un fiume opportunissimo
per convogliarvi i prodotti delle regioni interne e per riceverne le importazioni
marittime, in località vicino al mare quanto basta per le nostre
necessità, ma non tanto da esporci al pericolo di incursioni di
navi straniere, nel cuore dell'Italia, favorevole quant' altre mai allo
sviluppo di una città".
Un altro esempio può essere ricavato dal racconto che Dionisio di
Alicarnasso fa del caso di Demarato (10). Mercante corinzio egli si trasferisce
in Etruria al tempo della tirannide di Cispelo a Corinto, ma suo figlio
Lucumone sceglierà, dopo la morte del padre, di trasferirsi a Roma.
Lucumone diverrà, almeno secondo Dionisio, Tarquinio Prisco.
Questo è un chiaro esempio di una famiglia di mercanti che sceglie
il luogo di residenza con evidente interesse finanziario e commerciale.
Se Lucumone abbandona l'Etruria, che era ancora un'area commerciale importante,
per Roma, deve aver avuto buoni motivi di carattere prima di tutto pecuniario.
Ovvero: Roma deve essere sembrata a Lucumone una città dalle prospettive
commerciali migliori di quelle etrusche. E, come abbiamo visto, è
proprio con i re etruschi, che l'economia romana ricevette nuovi, importanti
impulsi. Non per nulla la tradizione attribuisce ad Anco Marzio la fondazione
di Ostia (Livio I, 23).
Ormai si concorda sulla storicità delle mura serviane che includevano
già sia il Quirinale sia il Campidoglio e, secondo il Beloch (11),1'area
della città arrivava a 285 ettari mentre prima dell'arrivo dei re
etruschi sarebbe stata di 156 ettari. La popolazione, al tempo degli ultimi
re, viene calcolata in circa 30.000 anime. Il che significa che "già
nel VI secolo [Roma] eguagliava le grandi città manifatturiere
di Corinto e di Atene".(12)
Una popolazione di queste dimensioni non poteva certamente vivere di pastorizia
e nonostante il probabile incremento della produzione agricola conseguente
agli insegnamenti etruschi, è difficile pensare che la zona attorno
a Roma, che allora era ampiamente coperta da boschi, potesse fornire sufficienti
prodotti per non solo sostenere la popolazione, bensì anche per
l'esportazione. D'altro canto le colture dei colli potevano essere principalmente
solo viti e olivi. Ora, "...secondo il Billiard la viticoltura
non ebbe vera importanza nel Lazio che verso la metà del IV secolo.
La cultura dell'olivo è posteriore a quella della vite..."
(13).
L'opera della Tamborini dimostra, ci sembra senza ombra di dubbio, che
la Roma del VI secolo non potesse non essere un centro mercantile; e manifatturiero.
E, sebbene non molto propenso a dare a Roma la patente di centro manifatturiero
(...we bave some difficulty in ascertaining, what these [products for
bartering] could bave been.) (14), anche T. Frank è costretto
a riconoscere che "Rome had grown so populous that sea-farers must
have resorted to her market-place whenever possible..." e ad aggiungere
che "At any rate Latium must have exported copper since the Latin
word nummus came to be current in Sicily for money" (15). Si può
solo aggiungere: "Che in Roma abbiano lavorato bronzisti o calderai
è dimostrato dal fatto che dai sepolcreti dell'Esquilino proviene
una serie abbastanza ricca di tripodi che hanno caratteristiche loro proprie"
(16).
Vedremo, nel prossimo capitolo, da una serie di considerazioni, ciò
che possiamo supporre sui traffici mercantili prettamente romani.
Note:
(1) "The Seaborne Commerce of Ancient Rome: Studies in Archaeology and History", American Academy in Rome, 1980 pag.44
(2) F. Tamborini, "La vita economica nella Roma degli ultimi Re", in Athenaeum ottobre 1930, pag302
(3) A. Momigliano, "La questione delle origini di Roma" in Cultura e Scuola 211162, ora anche in Roma Arcaica, Firenze 1989, pag.68
(4) M. Pallottino op.cit pag.233
(5) idem
(6) F. Tamborini op.cit pagg.456/57
(7) A. Momigliano, Roma Arcaica, pag.235
(8) C.G. Starr, The influence etc., pag.55
(9) T. Mommsen VII,15
(10) Dionisio di Alicarnasso, Storia di Roma Arcaica III,46/47 traduzione di F.Cantarelli.
(11) Beloch, Rrjmische Geschichte pag.209, citato da Tamborini op.cit.
(12) Tamborini op. cit. pag.317
(13) idem pag.319
(14) T. Frank, An Economic History of Rome, N.Y. 1920, pag.32
(15) idem pag.33
(16) Tamborini, op.cit. pag.459
Sappiamo benissimo che non si può scrivere la storia partendo
da un presupposto preconcetto per cercare di dimostrarne la giustezza.
Tuttavia è anche vero il contrario: quando si assume come dato di
fatto una verità, che è tale solo perché non è
mai stata contestata, si rischia di interpretare certi avvenimenti storici
da un punto di vista che può essere errato.
Quanto cerchiamo di dimostrare è proprio che se si assume come dato
di fatto, come fa la stragrande maggioranza degli storici, che i Romani
si tenessero lontani dal mare - almeno fino alla Prima Guerra Punica -,
allora si finisce con l'interpretare in senso pregiudiziale alcune notizie
storicamente provate. Una di queste è il primo trattato romano-cartaginese.
Del trattato abbiamo conoscenza piuttosto precisa da Polibio il quale fornisce
la data esatta senza alcuna ombra di dubbio. Tuttavia, fino a non molto
tempo fa, gli storici, a cominciare dal Mommsen, non accettavano la data
del 509 a.C. sembrando a loro impossibile che in una data così remota
Roma potesse avere interessi commerciali tali da richiedere trattati addirittura
con una delle maggiori potenze commerciali del Mediterraneo.
L'esempio più eclatante è quello di Alfoldi (1) che "...in
base alla mancanza di un porto e di strumenti marittimi dei Romani... difende
la discussa cronologia liviana..." (2).
Ora comunque, a parte casi estremi come quello su riportato, la maggioranza
degli studiosi riconosce l'esattezza della datazione polibiana.
La domanda da porsi è: come mai la Repubblica, appena nata, ritenne
necessario stipulare, forse come primo suo atto "internazionale",
un tale trattato? L'unica spiegazione che possiamo dare è che o
esisteva già un trattato simile al tempo degli ultimi re, come alcuni
autori sostengono, oppure prima della Repubblica gli accordi erano impliciti
dato che sappiamo della stretta alleanza fra Cartaginesi ed Etruschi. Aristotele
ci menziona, senza datarlo, un trattato fra Cartaginesi ed Etruschi...
"per le importazioni, pel rispetto reciproco, per l'alleanza in
caso di guerra" (3). È probabile che il trattato si riferisca
all'epoca della battaglia di Alalia.
In ogni caso è chiaro, da un lato, che la Repubblica aveva interesse
a mantenere almeno le stesse condizioni che Roma deve aver avuto durante
gli ultimi re e, dall'altro, che se Cartagine ritenne necessario stipulare
quel trattato con Roma, vuoi dire che quest'ultima aveva già un
certo peso nei traffici mercantili marittimi, tanto più se si accetta
l'interpretazione di alcuni (4) che fu Cartagine a imporre il trattato.
Certo, il commercio romano non poteva avere la stessa consistenza di quello
dei Greci o dei Cartaginesi, ma comunque esisteva e occorreva tenerne conto.
Polibio scrive di aver trascritto i trattati "...dopo averli tradotti
il più precisamente possibile... [4] Gli accordi sono più
o meno questi:... [5] I Romani e i loro alleati non navighino [con navi
lunghe/ al di là del Promontorio Bello, a meno che non vi siano
costretti da una tempesta o da nemici. [6] Se qualcuno vi fosse portato
per forza maggiore, non gli sia consentito nè vendere, nè
acquistare alcunché, ad eccezione di ciò che gli è
indispensabile per riparare la nave o per compiere un sacrificio, [7] (ed
entro cinque giorni riparta). [8] Per coloro che vengono per commercio,
nessun contratto abbia valore se non in presenza di un banditore o di un
segretario, [9] e il prezzo di tutto ciò che venga venduto alla
presenza di questi, sia assicurato al venditore da pubblica garanzia, se
la vendita avviene in Libia o in Sardegna.. [10] Se un Romano arriva nella
parte della Sicilia che si trova sotto dominio cartaginese, egli goda in
tutto i diritti uguali ai Cartaginesi.[11] I Cartaginesi non rechino alcun
torto alle popolazioni di Ardea, Anzio, Laurento, Circei, Terracina, ne
alcun altro popolo latino soggetto (ai Romani). [12] Quanto a quelli non
soggetti (ai Romani), (i Cartaginesi) si tengano lontani dalle loro città..
Nel caso che ne prendano qualcuna, la consegnino intatta ai Romani. [13]
Non costruiscano (i Cartaginesi) fortificazioni nel Lazio. Qualora entrino
nel territorio come nemici, non vi trascorrano la notte".{4}
Polibio non si ferma qui, egli aggiunge di suo un commento che riportiamo
nella parte che interessa, escludendo solo le frasi che ricopiano integralmente
il trattato già citato. "[1] il Capo Bello è quello
che si trova proprio innanzi a Cartagine rivolto verso settentrione. [2]
al di là del quale i Cartaginesi vietano nel modo più assoluto
che i Romani navighino con navi lunghe verso mezzogiorno, perché
non vogliono che i Romani conoscano, come mi sembra, né i territori
attorno alla Bissatide, ne quelli attorno alla piccola Sirte che chiamano
Empori, per via della fertilità del suolo... [4] A Cartagine e in
tutto il territorio libico al di qua del Capo Bello e in Sardegna e nella
parte della Sicilia soggetta ai Cartaginesi, ai Romani è lecito
recarsi con le loro navi per commercio, e i Cartaginesi si impegnano ad
assicurare sotto garanzia pubblica, il loro diritto. [5] Da questo trattato
risulta manifestamente che i Cartaginesi parlano della Sardegna e dell'Africa
come loro possesso. Quanto alla Sicilia, invece, fanno esplicitamente delle
distinzioni, concludendo il trattato solo per le parti che erano sotto
il loro dominio. [6] Nella stessa maniera i Romani stipulano il trattato
soltanto per il territorio del Lazio, senza menzionare il resto dell'Italia,
perché non era sotto il loro dominio." (5)
Questo trattato crea un certo numero di problemi, per esempio: chi erano
i soggetti e i non soggetti, chi gli alleati? Fra gli alleati di Roma è
da includere Massilia? Il Promontorio Bello si identifica con Capo Bon
o con Capo Farina?
Non tratteremo di questi pur interessanti interrogativi. Ciò che
a noi interessa è principalmente, se non esclusivamente, la parte
commerciale del trattato.
Prima di iniziare la discussione crediamo interessante riferire il commento
di T. Frank (6), commento che rappresenta un esempio, non unico, di quella
presunzione di cui abbiamo parlato all'inizio: "...Indeed it is
difficult to see how any state (allude ovviamente a Roma) that had
the least interest in commerce and the power to protect it would
acquiesce in such terms". E ancora "... These prohibitions
... were probably inserted in view of a possible future development
of Roman trade, or in memory of what Etruscan Rome had done before the
revolution. The treaty does not prove anything for the trade of Rome
after the expulsion of the Kings, an event that must bave involved
a marked emigration of the commercial and industrial classes."
(il grassetto è nostro).
Discuteremo in seguito delle capacità di difesa del traffico; per
ora vorremmo notare l'affermazione, non sostenuta da alcuna prova, della
partenza da Roma, alla caduta del regno, della classe commerciale e industriale.
Se, come afferma Momigliano "L'eliminazione dei re era insieme
causa ed effetto del sorgere del patriziato" (7), poiché
è ancora da dimostrare che a quell'epoca il patriziato fosse composto
solo da proprietari agrari - il successivo (219-218 a.C.) plebiscitum
Claudium (Livio XXI,63, 3-4) di cui parleremo starebbe a dimostrare
il contrario - ci sembra almeno azzardata l'affermazione che l.'avvento
della Repubblica deve aver provocato l'emigrazione delle classi commerciale
e industriale.
Inoltre, la politica estera e commerciale punica deve essere stata o molto
caritatevole (stipulare trattati in memoria del passato!) o estremamente
lungimirante (i possibili futuri sviluppi del commercio romano) specialmente
tenendo conto che, se le classi commerciali e industriali avevano abbandonato
la città, i possibili futuri sviluppi sarebbero apparsi almeno problematici.
Infine è evidente che il trattato non ci dice molto dei traffici
mercantili romani, ma ci dice che esistevano. Il che è quanto ci
occorre sapere.
Ma vediamo di considerare per ora solamente il trattato tenendo presente
che Polibio ci informa di averlo tradotto egli stesso. Il fatto che menzioni
la "... differenza ...tra la lingua di ora e quella arcaica..."
nella quale era scritto il trattato, dimostra non solo l'antichità
del trattato stesso, ma anche che Polibio ha avuto modo di vederlo direttamente
(probabilmente perché era stato inciso su tavole di rame o bronzo).
Egli tuttavia specifica che "gli accordi sono più o meno
questi..." Il che vuoi dire che ha tralasciato qualcosa. Per esempio
il riferimento a navi lunghe nell'originale del testo polibiano
sarebbe solo nel commento e sarebbe stato aggiunto nel testo del trattato
da editori successivi (8). Tuttavia, il fatto che Polibio specifichi nel
suo commento, ma non nel contesto della sua personale opinione ("come
mi sembra"), che si trattava di navi lunghe, ci sembra
giustifichi l'aggiunta degli editori.
Occorre quindi distinguere ciò che Polibio dà per certo -
il trattato stesso e l'accenno alle navi lunghe - e ciò che
l' Autore esprime come opinione propria ("come mi sembra").
Il trattato consente, senza ombra di dubbio, il commercio romano - anche
se in alcune zone a certe condizioni - in Libia, Sardegna e nella parte
della Sicilia sotto controllo cartaginese. Alcuni autori sostengono che,
in effetti, erano i socii navales, cioè gli alleati, che
fornivamo le navi a Roma. Il trattato, tuttavia, è assolutamente
chiaro perché quando afferma "i Romani e i loro alleati"
implica l'esistenza di navi romane. Pertanto, per quanto piccola fosse
questa flotta mercantile doveva comunque esistere se viene implicitamente
riconosciuta nel trattato.
L'altro punto interessante è quello delle navi lunghe. Il
trattato non impedisce esplicitamente ai romani di commerciare al di là
del Promontorio Bello, bensì di navigare in quelle acque con navi
lunghe. Ora tutti sanno che le navi lunghe erano navi da guerra.
La Scardigli riporta la proposta di Ameling (9) che il divieto di accesso
fosse impedito solo alle navi da guerra, ma la scarta in base al commento
polibiano che dice di ritenere ("come mi sembra") che
i Cartaginesi non volessero che i Romani conoscessero quelle zone.
Qui abbiamo, da un lato un dato credo incontestabile - le navi lunghe
- e dall'altro un'opinione espressa da uno storico che non solo scriveva
più di trecento anni dopo gli avvenimenti, avendo a disposizione
quasi certamente solo il testo del trattato, ma che conosceva anche il
secondo trattato, di cui parleremo, che è molto più restrittivo
del primo. L'opinione di Polibio, e non sarebbe la prima volta per l'Autore,
può essere stata influenzata dalla conoscenza di fatti successivi,
che nulla hanno a che vedere con questo trattato.
Fra l'altro, come ricorda la Scandigli, "... non risulta che i
Cartaginesi proibissero l'approccio agli Empori a nazioni cui questa rotta
era familiare..." (l0). Perchè allora avrebbero dovuto
proibirla ai Romani?
Ci sembra più valida, semmai, I'osservazione che solo nel 311 a.C.
fu costituita la flotta romana con duoviri navales. Pertanto, nel
509 a.C., non essendoci ancora una flotta militare, le navi lunghe
romane avrebbero dovuto o non esistere o essere in numero talmente ridotto
da non richiedere una speciale menzione in un trattato di questa importanza.
Una possibile soluzione però ci è data dall'osservazione
di S.L.Humphreys il quale afferma che "...le "roundships",
...non erano usate in Grecia prima del 550 e che il commercio a lunga distanza
nel periodo arcaico si serviva di "longships" come misura di
sicurezza contro i pirati" (11). Humphreys scrive questo nel contesto
del traffico del grano, un prodotto piuttosto voluminoso. Se le navi lunghe
venivano impiegate dai Greci, fino al 550, per trasportare questo genere
di mercanzia, sembra logico immaginare che fossero usate anche in anni
successivi per commerciare prodotti più preziosi e meno voluminosi.
Se così fosse si spiegherebbe benissimo il divieto imposto da Cartagine;
infatti se le navi lunghe venivano impiegate come navi commerciali
per sicurezza contro i pirati, potevano, a loro volta, essere usate per
azioni piratesche.
Ora a noi sembra che alla base di tutto il trattato ci siano due aspetti
importantissimi che non ci risulta siano stati evidenziati: primo, a Cartagine
interessa limitare, se non eliminare, non tanto la concorrenza commerciale
quanto piuttosto la pirateria, I'unico pericolo umano che i commerci dovevano
affrontare in tempo di pace e, secondo, che Roma non era ancora in grado
di dotarsi di una Marina militare. Pertanto, Roma delega la difesa del
proprio traffico mercantile alla potenza marittima più forte dell'epoca
e si impegna a non commettere atti di pirateria evitando perfino di inviare
navi lunghe in certe zone. Questo, per inciso, risponderebbe alla
osservazione di Frank che abbiamo citato e lasciato in sospeso. Certo,
Roma non aveva "...the power to protect it..." e quindi
doveva accettare le clausole del trattato.
Questa è una situazione che si ripeterà nei secoli fino ai
giorni nostri, basti pensare alla Royal Navy dal 1815 al 1914 e
attualmente alla U.S. Navy. Paesi militarmente più deboli,
ma dotati di una consistente Marina mercantile hanno delegato la protezione
delle loro navi, anche se ora solo in tempo di guerra per la mancanza della
pirateria, alla Marina più forte.
La nostra interpretazione giustificherebbe anche altri atteggiamenti di
Roma che vengono sempre intesi come incomprensione dell'importanza del
potere marittimo e della repulsione dei romani ad affrontare il mare. Ci
riferiamo, per esempio, al commento di F.E. Adcock sull'occupazione romana
di Anzio. Dopo aver affermato che quando la breve linea di costa romana
fu saccheggiata dalle navi di Anzio il rimedio "...was noi to create
a superior fleet, bui to force Antium to surrender its ships..."
(12) e, come dice J.H. Thiel, "...Antium itself was transformed
into a colonia marittima civium Romanorum... but...the Antiates...were
forbidden the sea..." (l3). E poiché Livio (VIII,14) ci
informa che almeno alcune navi anziati furono prese dai Romani, Thiel si
premura di farci sapere che furono impiegate molto raramente, sottintendendo
quello che dirà di poi: "...land-loving Romans...".
Dimentica però di dire che nello stesso passo Livio afferma che
una parte delle navi degli Anziati "fu condotta nei cantieri di
Roma". Clark fa giustamente notare che "The reference
is to the old docks situated, in all probability, near the Porta Trigemina...
Possessing navalia of their own, the Romans probably also built
ships of their own".(14)
Ora, è noto che gli Anziati si dedicavano alla pirateria (Strabone
V 232) e non si vede perché i Romani avrebbero dovuto costruirsi
una "superior fleet" per combattere la pirateria anziate,
come suggerisce Adcock, quando potevano più semplicemente occuparne
il porto. Anzi, su questo punto riteniamo che i Romani conoscessero le
caratteristiche del potere marittimo molto di più di Adcock. Infatti,
parte integrante del potere marittimo, e di quello navale in particolare,
sono non solo le flotte, ma anche le basi. Senza basi non esiste potere
marittimo.
Strabone riporta le lamentele che Demetrius Poliocertes fece a Roma sulla
pirateria degli Anziati, tuttavia nulla vieta di pensare che anche altri,
per esempio i Cartaginesi, se ne siano lamentati e i Romani abbiano provveduto
secondo gli accordi. Ciò giustificherebbe anche lo scarso uso da
parte romana delle navi catturate (che dovevano di necessità essere
navi lunghe) e la proibizione agli Anziati di prendere il mare.
In definitiva, quindi, ci sembra di poter affermare senza ombra di dubbio
che il primo trattato romano-cartaginese: è del 509 a.C., riconosce
a Roma possibilità di commercio marittimo almeno in alcune zone
nelle quali era preminente la supremazia commerciale cartaginese; probabilmente
non impedisce il commercio romano negli Emporii, ma solo l'uso di navi
lunghe per lo stesso; riconosce alleati e soggetti di Roma nel Lazio
e forse anche oltre (Marsiglia). In altre parole Roma, dopo il regno dei
Tarquini e all'inizio della Repubblica, aveva un commercio marittimo non
insignificante. Se all'inizio del V sec., in seguito a carestia, Roma si
rivolse a Cuma e Siracusa per importare grano, si deve presumere che il
grano avrebbe dovuto raggiungere Roma almeno in parte su navi romane visto
che Livio (II,34) afferma: "Si era dunque comprato grano a Cuma,
ma le navi furono trattenute dal tiranno Aristodemo, erede dei Tarquini,
per rivalsa dei beni di costoro...".
Note:
(1) Alfoldi, Early Rome and Latium, Ann Arbor 1965.
(2) B. Scardigli, I trattati Romano-Cartaginesi, Pisa 1991. pag.31
Livio(VII,27) cita per la prima volta un trattato fra Roma e Cartagine datandolo al 348 a.C.. Come vedremo si tratta, quasi certamente, di quello che per Polibio è il secondo trattato.
(3) Aristotele, Politica, III,9,1280 a/b traduzione di Costanzi.
(4) Frank op.cit. pag. 35,36
(5) Traduzione di B.Scardigli, op.cit. pag.54
(6) Frank op.cit. pag.36
(7) Momigliano op.cit. pag.l51
(8) Scardigli op.cit. pag.63
(9) Ameling, Studien zur Militär, Staat und Gesellschaft in Kartago (in corso di stampa nel 1991 quando è stato citato dalla Scardigli)
(10) idem
(11) S.L. Humphreys "Il commercio in quanto motivo della colonizzazione greca dell'Italia e della Sicilia", in Rivista Storica Italiana 1965, N.2, nota di pag.428
(12) F.E. Adcock, The Roman Art of War under the Republic, Harward Univ. Press 1940, pag.32
(13) J.H. Thiel, A History of Roman Sea-Power before the Second Punic War, Amsterdam 1954, pag.8
(14) F.W. Clark, op.cit. nota 19 di pag.5
La storia romana del V sec. a.C. non presenta avvenimenti degni di nota
per il nostro argomento.
Solo alla fine del secolo, inizio del IV, abbiamo la guerra contro Veio
(406-395 a.C.) che ci fornisce lo spunto per alcune considerazioni.
Livio (IV,34) riporta che "...in alcuni annali si parla anche di
un combattimento navale che avrebbe avuto luogo, presso Fidene, con i Veienti...",
ma ritiene che la notizia non sia corretta per la ristrettezza del fiume
in quella zona. Poiché questa è l'unica informazione in nostro
possesso possiamo solo osservare che l'opinione di Livio si riferisce a
fattori geografici, non all'impossibilità per i Romani di avere
i mezzi per un combattimento navale, per quanto limitato potesse essere.
Il secondo evento è di maggior interesse.
Dopo la vittoria su Veio, il Senato romano inviò, su una nave da
guerra, un'ambascieria con doni per il Santuario di Delfi. La nave fu catturata
dai pirati di Lipari. Secondo Plutarco (Camillo,8), i pirati giustificarono
la cattura affermando di aver ritenuto che la nave fosse etrusca. Se l'affermazione
di Plutarco è esatta - e noi sappiamo che i Lipariani erano grandi
nemici dei pirati etruschi - possiamo dedurne un paio di considerazioni.
Primo: a quest'epoca, evidentemente, le navi romane seguivano il tipo di
costruzione navale etrusca. Sull'argomento ritorneremo nella seconda parte
quando si parlerà della famosa quinquireme cartaginese andata in
secca e copiata dai Romani.
Secondo: se questa fu la giustificazione, non fu per motivi di carattere
religioso che i pirati non solo restituirono il maltolto, ma addirittura
scortarono la nave romana fino a Delfi e ritorno.
È evidente, nel tipo di scuse addotte per l'inopportuna cattura
e nel desiderio di ripagare il torto, che i Lipariani temevano qualcosa
di diverso dalle ire degli dei; temevano un qualche tipo di rappresaglia.
Ora, solo un pregiudizio inimmaginabile può indurre qualcuno (HoMmann),
pur di non ammettere la possibilità dell'esistenza di una nave militare
romana a quest'epoca, a suggerire che la nave fosse massiliota al servizio
di Roma.
Thiel non concorda "Why banish this poor authentic Roman ship from
history?" (notare il poor!). Non approva anche perché
non potrebbe altrimenti dimostrare altrettanto pregiudizio quando scrive:
"...nothing suits better my purpose of illustrating Roman helplessness
at sea than the fact that a Roman warship was first captured by men-of-war
from the little island of Lipara and then, when it dawned upon the Liparieans
that the Romans were no pirates, she was safely escorted by them to Delphi
and safely home again ... like a little girl by a constable!"
(1)
Per prima cosa non dovrebbe meravigliare alcuno che una nave da guerra
possa essere stata catturata da men-of-war (grazie a Dio lo stesso Thiel
ha messo il plurale!), cioè da più di una nave pirata.
In secondo luogo i Lipariani erano noti come pirati, non come stinchi di
santi. Combattevano la pirateria etrusca perché faceva loro concorrenza,
non per altro. Per quale motivo avrebbero dovuto rinunciare alla cattura
di una nave che aveva a bordo un piccolo tesoro?
Livio (V,23) riporta l'episodio e dice che il magistrato supremo liparino
era Timasiteo, il quale: " ...Romanis vir similior quam suis...".
Carlo Vitali (2) traduce quel vir con "sentimenti": "più
informato ai sentimenti romani che non a quelli dei suoi". A noi
sembra che sarebbe più corretto tradurlo con "carattere",
"virtù" (letteralmente: uomo di carattere, uomo socialmente
virtuoso. Il vir romanus era la quintessenza delle virtù
e della morale che si richiedeva al vero cittadino di Roma).
Pertanto l'intero passo a nostro avviso risulterebbe: "...dalle
virtù più simili a quelle romane che a quelle dei suoi...
pieno di rispetto per il titolo di ambasciatori, per la divinità
cui si portava quel dono e per la motivazione di esso, trasfuse anche nella
massa del popolo... un giusto timore reverenziale...".
Le osservazioni che ci permettiamo di fare sono: primo, che i Lipariani,
evidentemente, non avevano il carattere, le virtù romane - o non
sapevano quanto forti esse fossero -; secondo, che il timore reverenziale
fu "trasfuso" per rispetto sia agli ambasciatori, che alla divinità.
Non vorremmo peccare anche noi di pregiudizio, ci sembra però, dal
contesto del periodo (prima viene il vir romano, poi il rispetto
per gli ambasciatori indi, per ultimo, il rispetto per la divinità,
che sembra il tocco finale per convincere gli scettici), che il timore
reverenziale sia più per le possibili reazioni che per motivi religiosi.
Pertanto propenderemmo a ritenere che le azioni successive dei Lipariani
- restituzione e scorta della nave - siano state dettate più dal
timore di rappresaglia che altro. E a questo proposito due sole possono
essere state le possibilità: i Romani erano in grado di condurla
con i loro mezzi, oppure potevano avvalersi del trattato con Cartagine
perché la stessa intervenisse con la sua flotta. Vedremo più
avanti che Cartagine era disposta ad aiutare Roma con la flotta quando
ritenne che Roma ne avesse bisogno.
In un caso o nell'altro ci sembra più corretto trarre, da questo
incidente, la conclusione che o Roma era in grado di punire direttamente
i Lipariani, oppure che la Repubblica aveva compreso così bene l'importanza
della protezione del traffico marittimo romano da provvedere a fornirsi
di un alleato che potesse sopperire alle deficenze della preparazione navale
romana, come abbiamo cercato di dimostrare nel capitolo precedente.
Se proprio non si volesse accettare questa interpretazione si dovrebbe
almeno riconoscere che già a quell'epoca il vir romano era
riconosciuto e rispettato. Altro che "poor authentic roman ship"!
L'invasione gallica e la sconfitta all'Allia (circa 387 a.C.), frenarono
certamente l'espansione romana, ma non la bloccarono (cittadinanza romana
a Tuscolo nel 380 circa).
Per quanto ci concerne abbiamo, per questo periodo, una notizia, non datata,
di Teofrasto (Hist.Plant. V,8,3) che riferisce di un tentativo romano di
una spedizione di 25 navi per stabilire una colonia in Corsica. La maggioranza
degli studiosi, per varie ragioni, ma che riguardano quasi tutte le presunte
incapacità marittime romane, considera che la notizia non sia vera.
Il Thiel giudica che se fosse vera la spedizione avrebbe potuto avvenire
solo dopo il 311, cioè dopo 1'istituzione dei duoviri navales
ma non spiega perché. Supponiamo ritenga che una tale spedizione
non avrebbe potuto aver luogo senza un adeguato appoggio di navi militari.
Noi sappiamo però che i Romani possedevano navi lunghe ben
prima dell'istituzione dei duumviri. Comunque, visto che dopo il 311 non
avrebbe potuto essere compiuta, anch'egli considera falsa la notizia.
Questo ci sembra un altro caso di interpretazione pregiudiziale delle fonti
storiche e, per dimostrarlo, riporteremo integralmente un lungo passo di
Momigliano che mostra non solo come si devono interpretare le fonti, ma
anche che i Romani potevano permettersi spedizioni marittime di questo
genere, in un periodo in cui subivano l'invasione gallica.
"Noi non conosciamo la storia esatta dei rapporti fra Cartaginesi
ed Etruschi in Corsica. Ma per tutta la prima metà del IV sec. e
anche dopo la Corsica continuò a essere etrusca. Il secondo trattato
fra Roma e Cartagine che noi consideriamo del 348 a.C. non conosce dominio
cartaginese in Corsica. Certo dunque che il tentativo romano in Corsica
va considerato una continuazione della lotta anti-etrusca. La stessa frase
di Teofrasto che parla di ciò [in un tempo passato] lo pone non
posteriore alla metà del IV secolo; mentre per il V secolo osterebbe
oltre alla situazione generale di Roma, la conoscenza che di cose romane
si poteva avere in Grecia.
Ma non soltanto i Romani nella prima metà del IV sec. fecero una
spedizione contro la Corsica: fu più fortunato di loro Dionisio
di Siracusa, che nella celebre spedizione del 384 contro l'Etruria, oltre
a mettere a scacco il santuario ai "Pyrgoi" di Cere, arrivò
in Corsica e vi impiantò una stazione siracusana... Ora che sappiamo
delle buone relazioni tra Dionisio e i Romani, ci sembrerà ancora
più verosimile quell'idea, che i Romani abbiano tentato di imitare
Dionisio, che, anche senza specifiche relazioni tra lui e i Romani, ci
si presenterebbe ovvia: essendo naturale che i Romani tentassero di approfittare
colpo inflitto dai Siracusani agli Etruschi. Vorremmo dunque datare notizia
di Teofasto poco dopo il 384. L'impresa andò a male: ciò
in fondo conferma che i Romani dovevano essere stati battuti da poco all'Allia
e quindi non avevano potuto impegnarci energia e le forze necessarie. "
(3)
Momigliano cita il secondo trattato romano-cartaginese che tratteremo immediatamente.
Durante l'invasione gallica Roma concluse un trattato con Cere ed uno con
Marsiglia. Quest'ultima, fra l'altro, fornì a Roma contributi per
il pagamento del riscatto imposto dai Galli. Ma nel 349 quando Roma era
di nuovo minacciata dai Galli, i Latini si rifiutarono di fornirle le previste
truppe ausiliarie. Nel 349 Roma quindi, non controllava più, praticamente,
la Lega latina.
Le discussioni sulla data del secondo trattato sono ormai concluse e praticamente
tutti concordano sul 348 a.C., cioè a dire un anno dopo che Roma
aveva perso il controllo della Lega.
Riportiamo il testo del trattato secondo Polibio:
"[l] Successivamente a questo fu stipulato un altro trattato in
cui i Cartaginesi inclusero anche i Tirii e gli abitanti di Utica. [2]
In esso fu aggiunto al promontorio Bello anche Mastia e/di Tarseum, al
di là delle quali località i Cartaginesi stabilirono che
i Romani non pirateggiassero, ne fondassero città. Il testo era
più o meno il seguente: [3] "A tali condizioni sia amicizia
fra Romani e i loro alleati, e il popolo di Cartagine, di Tiro e Utica
e i loro alleati: [4] I Romani non facciano pirateria, ne commercio, né
fondino città al di là del Promontorio Bello, di Mastia e
di Tarseum. [5] Se i Cartaginesi prendono nel Lazio una città non
soggetta ai Romani, si tengano beni e gli uomini, ma consegnino la città
(ai Romani). [6] Se qualche Cartaginese cattura degli uomini di una popolazione
con la quale i Romani hanno stipulato una pace scritta, ma che non è
soggetta ad essi, non li sbarchino in un porto dei Romani. Ma se dovesse
esservi sbarcato, egli sia libero, nel caso che un Romano lo tocchi. [7]
Anche i Romani osservino le stesse norme. [8] Se un Romano prende acqua
o vettovaglie in un territorio sottomesso al dominio cartaginese, con queste
provviste non rechi danno ad alcuno di quelli con i quali i Cartaginesi
sono in pace o amicizia. [9] Alla stessa maniera non rechi danno il Cartaginese
(al Romano). [10] Ma se ciò avvenisse, non vi sia una punizione
privatamente. Se qualcuno si vendica invece privatamente, l'offesa sia
considerata pubblica. [11] In Sardegna e in Libia nessun Romano si dedichi
al commercio o fondi una città... o vi si trattenga più del
tempo necessario, per fornirsi di viveri o riparare la nave. Se vi sarà
trasportato da una tempesta, entro cinque giorni riparta. [12] Nelle parti
della Sicilia di dominio cartaginese e a Cartagine (il Romano) faccia e
venda tutto ciò che è lecito fare e vendere a un Cartaginese.
[13] Lo stesso può fare un Cartaginese a Roma".
[14] Anche in questo trattato i Cartaginesi persistono nel dichiarare di
loro proprietà la Libia e la Sardegna e nel precludere tutti gli
accessi ai Romani. [15] Della Sicilia invece parlano sempre soltanto della
parte a loro assoggettata. [16] In modo simile i Romani circa il Lazio
vietano che i Cartaginesi commettano ingiustizie nei confronti di Ardea,
Anzio, Circeo e Terracina. Queste sono le città sulla costa del
Lazio che il trattato riguarda." (4)
Anche per questo trattato, che per gli studiosi presenta alcuni problemi,
noi ci limiteremo alle considerazioni che riguardano il nostro argomento.
Osserviamo subito che, al contrario del primo, qui si parla chiaramente
della possibilità che i Romani pirateggiassero. Non vorremmo sembrare
presuntuosi, ma ci pare una conferma della nostra interpretazione del problema
delle navi lunghe che abbiamo affrontato per il primo trattato.
Come abbiamo già detto, in quegli anni l'influenza e il potere di
Roma sulla Lega latina si erano praticamente annullati; tutti coloro che
erano legati a Roma da accordi separati l'abbandonarono un anno prima del
nuovo trattato con Cartagine.
È evidente che, in queste condizioni, Cartagine ne approfittò
immediatamente per stipulare un trattato molto più restrittivo del
primo. Roma fu costretta ad accettare perché la sua situazione non
era delle migliori. Le fonti riferiscono, fra l'altro, dell'arrivo sulle
coste laziali di una flotta siracusana a sostegno dei Latini.
In ogni caso possiamo notare che se i Cartaginesi imposero restrizioni
al commercio romano vuoi dire che questo commercio marittimo esisteva ed
era, se non enorme, almeno tanto importante da richiedere, dal punto di
vista cartaginese, una qualche forma di contenimento.
La Scardigli fa giustamente notare che, nonostante queste imposizioni "...si
può constatare anche un certo rispetto di Cartagine per questa
[Roma]... Mentre il primo trattato è dunque ancora improntato
all'eredità etrusca, il secondo trattato è rivolto, in un
certo senso, verso il futuro, verso il dominio sulla penisola da parte
di Roma". (5)
Un ulteriore trattato, che per Livio sarebbe il terzo, fu stipulato nel
306, anche se Polibio ne nega l'esistenza. Il motivo per cui Polibio non
ammette il trattato, che è passato sotto il nome di Trattato
di Filino perchè riportato da quello storico, è che,
se fosse stato stipulato, Roma sarebbe stata colpevole della sua violazione
al momento in cui appoggiò i Mamertini a Messina. Poiché
gli storici romani hanno sempre cercato di dimostrare che Roma non ha mai
rotto i patti e che sono sempre stati gli avversari a costringerla alle
guerre, Polibio non poteva che negarne l'esistenza.
Tuttavia vedremo che proprio la rottura, da parte di Roma, di questo trattato
dimostra quanto il Senato comprendesse appieno il valore del potere marittimo.
Per ora limitiamoci a notare che gli avvenimenti degli anni fra il 348
e il 306 avevano dimostrato la continua ascesa del potere di Roma. Il trattato
di Filino pone condizioni alla pirateria e ai traffici romani, ma "There
are evidences here of the growing power of Rome, and the Carthaginian dread
of the same" (6). "Naturalmente nel 306", scrive
la Scardigli, "non si poteva temere un attacco contro la Sicilia
da parte della giovane flotta romana; tuttavia questa flotta ormai esisteva,
incominciava ad operare... e la sua entità era destinata ad aumentare
in caso di necessità, grazie al crescente numero di alleati navali"
(7).
La flotta Militare romana fu istituita nel 311 a.C., quando furono nominati
i Duoviri navales classis, ciascuno al comando di dieci navi, ed
è sintomatico che ciò avvenga un anno dopo la costruzione
della via Appia. D'altro canto, durante le guerre sannitiche, un accordo
con Napoli aveva lasciato alla città la sua autonomia a condizione
che, se richiestole, mettesse a disposizione di Roma la proprie navi da
guerra. Un chiaro indice del sempre maggior interesse romano per l'aspetto
militare del problema marittimo.
Un breve commento merita l'incidente del 282 nel Golfo di Taranto.
Non è noto in che data, forse il 302-303, sia stato stipulato un
accordo fra Roma e Taranto per il quale le navi lunghe romane non
avrebbero dovuto superare Capo Lacinio. Per inciso questa è un'ulteriore
conferma del fatto che i Romani si dedicavano alla pirateria, altrimenti
non ci sarebbe stata questa imposizione tarantina.
Nel 282, dieci navi romane, probabilmente impegnate in soccorso a Turi,
superarono il capo; furono attaccate dai tarantini che ne affondarono quattro
e catturarono una quinta.
Questa prima azione della flotta romana non fu certo brillante, ma dedurne
subito, come fanno la maggioranza degli storici, I'assoluta incapacità
marinaresca dei Romani è perlomeno azzardato. Infatti noi sappiamo
il risultato dello scontro, ma non sappiamo nell'altro. Non sappiamo se
le navi romane si attendessero o meno l'attacco e, soprattutto, non sappiamo
quante erano le navi tarantine. Se le dieci navi romane furono sorprese
da, supponiamo, trenta navi tarantine, bisognerebbe riconoscere ai Romani
notevoli capacità per essere riusciti a salvarne cinque. In altre
parole, per esprimere giudizi come quello di Adcock ("...the Tarentines
made a short work of half the Roman ships".) (8) occorre prima
conoscere bene i fatti.
Abbiamo l'illusione di aver cercato di dimostrare, in questa prima parte,
che Roma aveva un'attivittà marittima che le fonti disponibili non
ci consentono di quantificare, ma che certamente non era trascurabile.
Un'attività che iniziò, per quanto abbiamo potuto determinare,
fin dal tempo degli ultimi Re. Essa ebbe ovviamente, periodi più
o meno intensi, ma non fu mai abbandonata.
Nella parte seconda cercheremo di dimostrare che le azioni di Roma, almeno
dalla Prima Guerra Punica a quella Siriaca, dimostrano chiaramente la comprensione
dell'importanza del potere marittimo e la persecuzione di un ben preciso
indirizzo per ottenerlo in modo assoluto su tutto il Mediterraneo.
Note:
(1) Thiel, op.cit, pag.7
(2) Livio, Storia di Roma IV-VI, Oscar Mondadori
(3) A. Momigliano, Roma Arcaica, Sansoni 19X9, pag.204-205
(4) Traduzione di B. Scardigli op.cit., pag.94-95
(5) B. Scardigli, op.cit., pag.98
(6) F.W. Clark, op.cit., pag.3
(7) B. Scardigli, op. cit., pag.144
(8) F.E. Adcock , The Roman Art of War under the Repuhlic, Cambridge 1960, pag.33
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