PRÆCEPTA (dal libro IV del De re militari) [1] |
Sommario: - XXXI: Precetti della guerra navale. |
Anche gli Spartani, gli Ateniesi e gli altri Greci hanno riportato molte cose nei libri ch’essi chiamano Tactica, ma noi dobbiamo investigare la scienza militare
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del popolo romano, il quale da confini angustissimi estese il proprio imperio a quasi tutte le regioni illuminate dal sole, inclusi gli stessi confini del mondo. Tale necessità mi ha spinto, dopo aver sfogliato i testi di parecchi autori, ad esporre fedelmente in questo opuscolo ciò che scrisse Catone il Censore sull’arte militare
[3],
quello che Cornelio Celso
[4]
e Frontino
[5]
riassunsero, quello che Paterno
[6],
diligentissimo difensore del diritto militare, raccolse nei libri, quello ch'è prescritto dalle costituzioni
[7]
di Augusto, di Traiano e di Adriano. Né io mi arrogo alcuna autorità, ma scrivo soltanto con ordine, a mo' di compendio, le varie prescrizioni di costoro. L’arte militare
[8]
… consta di armi e uomini. Queste forze sono suddivise in tre parti: la cavalleria, la fanteria e la flotta
[9].
… Vi sono poi flotte di due generi: uno costituito da navi da guerra marittime
[10],
l'altro di navi fluviali
[11].
… |
Per ordine della tua Maestà, o invitto imperatore [12], avendo portato a termine il trattato relativo alla guerra terrestre, manca ancora, a mio avviso, quella parte che riguarda la guerra navale ["navalis belli"], sulla cui dottrina c’è pochissimo da dire, giacché, essendo da un pezzo pacificato il mare ["pacato mari"], non si tratta che di condurre contro i barbari delle battaglie terrestri ["terrestre certamen"]. [13],
Il popolo romano, per il suo prestigio e per le esigenze della sua grandezza, pur non essendovi costretto da alcun imminente pericolo, in ogni tempo mantenne allestita la flotta ["classem"], onde averla sempre pronta ["praeparatam"] ad ogni necessità. Indubbiamente, nessuno osa sfidare o arrecare danno a quel regno o popolo, che sa essere pronto a combattere e risoluto a resistere ed a vendicarsi.
Pertanto, con le flotte ["cum classibus"] erano stanziate una legione presso Miseno ed una presso Ravenna, sia perché non si allontanassero eccessivamente dalla difesa di Roma, sia perché, all’insorgere di un’esigenza, potessero recarsi con le navi ["navigio"], senza indugio e senza dover aggirare la Penisola, in qualsiasi parte del mondo.
Infatti la flotta Misenense ["Misenatium classis"] aveva nelle sue vicinanze la Gallia, le Spagne, la Mauretania, l'Africa, l'Egitto, la Sardegna e la Sicilia. La flotta Ravennate ["classis Ravennatium"] soleva raggiungere con navigazione diretta ["directa navigatione"] l'Epiro, la Macedonia, la Grecia, la Propontide, il Ponto, l'Oriente, Creta e Cipro. Ciò perché nelle operazioni belliche la celerità giova di solito più del valore.
Il comandante della flotta ["praefectus classis"] Misenense era preposto alle navi da guerra ["liburnis"] che erano di base in Campania, mentre il comandante della flotta Ravennate reggeva quelle che erano nelle acque del mare Ionio [incluso l’Adriatico]
[14],
Alle dipendenze di ciascuno di loro vi erano dieci tribuni ["deni tribuni"] delegati per le singole coorti.
Ogni galea aveva il proprio comandante ["navarchus"], che è all’incirca l’equivalente dell’armatore ["navicularius", per le navi mercantili], il quale, oltre agli altri compiti nautici ["nautarum officiis"], curava l’addestramento quotidiano dei timonieri ["gubernatoribus"], dei rematori ["remigibus"] e dei militi navali ["militibus"].
Diverse provincie, nelle varie epoche, furono molto potenti per mare; vi furono quindi diversi tipi di navi ["genera navium"]. Sennonché, avendo Augusto combattuto la battaglia navale d'Azio, poiché Antonio venne sconfitto con il concorso determinante dei Liburni [15], con l'esperienza di sì gran battaglia si rese manifesto che le navi liburniche erano migliori di tutte le altre [16],
Avendone dunque ripreso la foggia e il nome, gli imperatori romani costruirono le loro flotte avvalendosi di quel modello. La Liburnia, che fa parte della Dalmazia, è amministrata dalla città di Iadera [odierna Zara], ad imitazione della quale si costruirono le navi da guerra e si chiamarono liburne ["liburnae"].
Se nella costruzione delle case è richiesta la buona qualità della sabbia e delle pietre, tanto più nel costruire le navi ["fabricandis navibus"] deve essere diligentemente ricercato ogni materiale, giacché, qualora difettosa, costituisce un maggior pericolo una nave piuttosto che una casa.
La galea si compone principalmente di legno di cipresso e di pino domestico o selvatico, di larice e di abete, ed è più utile che sia connessa con chiodi di rame anziché di ferro. Sebbene la spesa sembri alquanto più gravosa, tuttavia, tenuto conto della maggior durata, ne risulta invece un guadagno; infatti, con il caldo e l’umidità, i chiodi di ferro vengono presto consumati dalla ruggine; quelli di rame si conservano invece integri anche in mezzo ai flutti.
Occorre principalmente assicurare che gli alberi utilizzati per costruire le navi da guerra siano tagliati dal quindicesimo al ventitreesimo giorno dopo la luna nuova, poiché soltanto il legname tagliato in questi otto giorni si conserva immune al tarlo. Tagliato in altri giorni anche nello stesso anno, corroso internamente dai vermi si converte in polvere, come ci ha insegnato la stessa arte e la pratica quotidiana di tutti gli architetti, e come apprendiamo anche dalla considerazione della religione [17], alla quale piacque celebrare soltanto questi giorni per l'eternità.
Le travi si tagliano utilmente dopo il solstizio di estate, nei mesi di luglio e di agosto, e nell’equinozio di autunno, sino alle calende [cioè il 1°] di gennaio, poiché in questi mesi, asciugatasi l’umidità, il legname è più secco e quindi più resistente.
Occorre inoltre evitare che le travi si seghino subito dopo l’abbattimento dell’albero, e che appena segate non si pongano in opera per la costruzione della nave, giacché il legno degli alberi ancora interi e quello in tavole, per diventare più asciutto, merita una doppia essiccazione. Infatti, le tavole che si commettono verdi, quando abbiano trasudato l'umidità naturale, si contraggono e formano delle fessure più larghe: nulla è più pericoloso ai naviganti ["navigantibus"] che una tavola verde.
Per quanto attiene alle dimensioni, le navi da guerrae più piccole hanno un sol ordine di remi ["remorum singulos ordines"], due ["binos"] quelle un poco più grandi; quelle di dimensioni convenienti possono averne tre o quattro ["ternos vel quaternos"], e in qualche caso anche cinque ["quinos"]. Né ciò sembri qualcosa di straordinario: difatti si narra che alla battaglia navale d'Azio abbiano partecipato vascelli ["navigia"] di gran lunga maggiori, muniti anche di sei o più ordini di remi ["senorum vel ultra ordinum"].
In ogni modo, alle navi da guerra più grandi si associano delle unità sottili da esplorazione ["scaphae exploratoriae"], con dieci remi per lato, che i Britanni chiamano picati [cioè impeciati]. Queste si usano per fare incursioni e talvolta per intercettare delle vettovaglie delle navi nemiche, mentre, esercitando la sorveglianza, si scopre l’avvicinamento o le intenzioni delle stesse navi nemiche.
Tuttavia, affinché la presenza degli esploratori ["exploratoriae naves"] non sia tradita dal loro stesso chiarore, si tingono le vele ed i cavi delle manovre di colore azzurro ["veneto"], che somiglia a quello delle onde marine ["marinis fluctibus"], e vi si spalma anche quella cera che si usa per gli scafi delle navi.
Inoltre, i marinai ["nautae"] ed i militi navali ["milites"] indossano abiti azzurri, per rimanere più facilmente occulti all’osservazione nemica, non solo di notte, ma anche di giorno.
Chiunque trasporti un esercito con le navi ["armatis classibus"] deve saper riconoscere i presagi delle tempeste, poiché le navi da guerra andarono miseramente a fondo più spesso a causa delle burrasche e dei marosi che per la forza dei nemici. In ciò si deve adoperare tutta la perizia della filosofia naturale, poiché dalla conoscenza del cielo si desume la natura dei venti e delle tempeste. E quando il mare infuria, come la cautela protegge i previdenti, così l’incuria distrugge i negligenti.
Pertanto, l’arte della navigazione ["ars navigandi"] deve anzitutto considerare attentamente il numero ed i nomi dei venti. Gli antichi credevano che, conformemente alla posizione dei punti cardinali, vi fossero solo quattro venti principali, spiranti dalle singole parti dei cielo; ma l'esperienza posteriore ne trovò dodici. Di questi, per rimuovere ogni dubbio, forniamo non solo i nomi greci, ma anche quelli latini; così, dopo aver mostrato i venti principali, indicheremo quelli che sono ad essi contigui a destra e a sinistra.
Cominciamo pertanto dal solstizio di primavera, cioè dal punto cardinale Est, dal quale si origina il vento Afeliote, vale a dire il Subsolano; alla sua destra è contiguo al Cecia, o Euroboro [18]; alla sua sinistra l’Euro o Volturno.
Il punto cardinale Sud ha il Noto, cioè l'Austro, alla cui destra vi è il Leuconoto [19], cioè il "bianco Noto"; alla sua sinistra il Libonoto, cioè il Coro [20].
Il punto cardinale Ovest possiede lo Zeffiro, cioè il Subvespertino [21], alla cui destra è contiguo il Lips, ossia l'Africo; a sinistra il Giapice, ossia il Favonio [22].
Al Nord toccò in sorte l'Aparzia o Settentrione, al quale è contiguo a destra il Trascia o Circio [23], a sinistra il Borea o Aquilone.
Questi venti soffiano spesso da soli, qualche volta in coppia, e nelle grandi tempeste anche in tre simultaneamente. Per il loro impeto, i mari, che sono per loro natura tranquilli e quieti, infuriano con onde ribollenti; quando spirano alcuni di essi, a seconda delle stagioni e delle regioni, dalla tempesta ritorna il sereno, e di nuovo questo si tramuta in burrasca.
Con il vento favorevole le navi ["classis"] raggiungono il porto desiderato, con quello contrario sono costrette a fermarsi, o tornare indietro, o affrontare una prova decisiva. Pertanto, difficilmente compie un naufragio chi ha esaminato con diligenza la natura dei venti.
Proseguiamo con la trattazione dei mesi e dei giorni, giacché il vigore e la durezza del mare non tollera tutto l'anno i naviganti ["navigantes"], ma per legge di natura alcuni mesi sono adattissimi alle flotte ["classibus"], altri dubbi, altri intollerabili.
La navigazione si reputa sicura ["secura navigatio creditur"] … dopo che sono sorte le Pleiadi, dal giorno VI prima delle calende di giugno [27 maggio] fino al sorgere di Arturo, cioè fino al giorno XVIII prima delle calende di ottobre [14 settembre], giacché per beneficio dell'estate si mitiga l’asprezza dei venti.
Successivamente, la navigazione è incerta ["incerta navigatio est"], e quindi piuttosto critica, fino al giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre], giacché dopo le idi di settembre [13 settembre] nasce Arturo, stella rabbiosissima; poi, il giorno VIII prima delle calende di ottobre [24 settembre] sopraggiunge il pungente maltempo equinoziale, verso le none di ottobre [7 ottobre] appaiono i Capretti piovosi [24] e il giorno V prima delle idi di tale mese [11 ottobre] appare il Toro.
Dal mese di novembre, poi, il tramonto invernale delle Vergilie [25], le navi ["navigia"] con frequenti tempeste. I mari vengono dunque chiusi alla navigazione dal giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre] fino al giorno VI prima delle idi di marzo [10 marzo]. In effetti, la luce diurna ridotta al minimo, la notte prolungata, la densità delle nubi, l'oscurità dell'aria, la raddoppiata violenza dei venti, delle piogge o delle nevi, respingono non solo le flotte ["classes"] dalle rotte marittime, ma anche i viandanti dai viaggi terrestri.
In realtà, dopo la ripresa della navigazione ["natalem navigationis"], che viene celebrata con solenni giochi e pubblici spettacoli presso molte popolazioni, permane pericoloso cimentarsi in mare fino alle idi maggio [15 maggio], a causa di molteplici costellazioni e della stessa stagione; non lo dico perché cessi il traffico mercantile ["negotiatorum"], ma perché occorre adoperare una maggior cautela quando l'esercito naviga con le navi da guerra, che quando l'audacia accelera i profitti dei commerci privati.
Inoltre, il sorgere ed il tramontare di molte altre stelle suscitano violentissime tempeste ["tempestates"], di cui sono stati indicati i precisi giorni, per attestazione di molti autori. Tuttavia, poiché tali giorni vengono alquanto cambiati da svariate cause, e poiché, bisogna confessarlo, alla natura umana non è consentito conoscere compiutamente i fenomeni celesti, lo studio delle osservazioni nautiche ["nauticae observationis"] è stato diviso in tre parti. Si è infatti scoperto che le tempeste avvengono o nel giorno stabilito, o prima, o dopo. Quindi, quelle che nascono nel giorno stabilito si chiamano con parola greca cheimaton, quelle che precedono procheimaton, le susseguenti metacheimaton. Comunque, elencare per nome ogni cosa apparirebbe lungo o inopportuno, dato che molti autori hanno descritto non solo la natura dei mesi, ma anche dei giorni.
Anche i transiti degli astri che chiamano pianeti, quando lungo il loro percorso prestabilito per volere divino entrano ed escono da un segno zodiacale, usano spesso turbare il sereno. Per contro, i giorni di interlunio sono valutati, non solo dalla scienza, ma anche dall’esperienza popolare, pieni di tempeste e da temersi al massimo grado da parte dei naviganti ["navigantibus"].
Da molti altri segni si preannuncia l’arrivo delle burrasche dalla calma, e della bonaccia dalle tempeste; tali eventi sono mostrati sul disco della Luna come in uno specchio. Il colore rubicondo annunzia i venti; il ceruleo, le piogge; un colore intermedio, nuvoloni e furenti burrasche. Il disco giocondo e lucente promette alle navi ["navigiis"] la serenità ch’esso reca nel suo stesso aspetto, soprattutto se al primo quarto e non sia né rosseggiante con i corni smussati, né offuscato dall’umidità.
Anche del Sole che sorge o che tramonta, è interessante osservare se splende con raggi uniformi o diversificati da una nube interposta, se è fulgido del consueto splendore o ardente per i venti incalzanti, se è pallido o macchiato per la pioggia imminente.
Indubbiamente anche l'aria e lo stesso mare, così come la grandezza e la qualità delle nuvole, forniscono istruzioni ai marinai ["nautas"] preoccupati.
Alcuni segni vengono indicati dagli uccelli, altri dai pesci: Virgilio, con ingegno quasi divino, li incluse nelle Georgiche [26] e Varrone li perfezionò diligentemente nei sui libri navali ["libris navalibus"] [27].
I timonieri ["gubernatores"] dichiarano di sapere queste cose, ma le conoscono così come le appresero dall’esperienza pratica, e non rafforzate da una più elevata dottrina.
L’elemento marino costituisce la terza parte del mondo, e si anima, oltre che per il soffio dei venti, anche per un suo proprio respiro e movimento. Infatti, a certe ore, di giorno come di notte, un certo moto del mare, che chiamano marea, scorre in un senso e nell'altro e, come un torrente o un fiume, ora inonda le terre, ora rifluisce in alto mare. Questa ambiguità del moto alterno, se favorevole, giova alla rotta delle navi ["cursum navium"], se contrario, la ritarda.
Ciò deve essere evitato con grande cautela da chi sta per combattere. Infatti non si vince con l’ausilio dei remi l'impeto della marea, cui talvolta cedono anche i venti. E poiché nelle varie regioni, nei diversi stati della luna crescente o calante, a certe ore questi fenomeni variano, quindi chi sta per sostenere un combattimento navale ["proelium navale"] deve, prima dell’ingaggio, conoscere la natura del mare e del luogo.
La perizia dei marinai ["nauticorum"] e dei timonieri ["gubernatorum"] consiste nel prendere conoscenza delle acque nelle quali si naviga e dei porti, onde evitare i luoghi pericolosi per gli scogli affioranti o sommersi, i bassi fondi e le secche; infatti, si avrà tanta maggior sicurezza quanto il mare sarà più profondo.
Nei comandanti navali ["navarchis"] si predilige la diligenza, nei timonieri ["gubernatoris"] l’esperienza, nei rematori ["remigibus"] la valentia. Infatti, la battaglia navale ["navalis pugna"] si combatte in mare tranquillo; e la mole delle navi da guerra, non per il soffio dei venti, ma per impulso di remi percuote con il rostro gli avversari e schiva invece il loro impeto. In tali circostanze, i muscoli dei rematori ["remigum"] e l'arte del pilota che regge il timone ["clavum regentis magistri"] sono i principali artefici della vittoria.
La battaglia terrestre richiede indubbiamente molti generi di armi, ma la lotta navale ["navale certamen"], non solo esige un maggior numero di armi, ma anche macchine d’assalto ["machinas"] e macchine da lancio ["tormenta"], come se si dovesse combattere sulle mura e sulle torri. Che cosa vi è di più crudele, infatti, di un attacco navale ["congressione navali"] in cui gli uomini sono uccisi dalle acque e dalle fiamme?
Pertanto, la principale cura deve essere posta per le armature, di modo che i militi siano protetti da corazze metalliche o di cuoio, ed anche da elmi e schinieri [28]. Nessuno può dolersi del peso delle armi, poiché combatte a bordo delle navi ["in navibus"] mantenendosi sul posto. Si impiegano anche gli scudi più ampi e più resistenti ai colpi delle pietre, oltre che alle falci ["falces"], ai ramponi ["harpagones"] ed agli altri tipi di armi da getto navali ["navalia genera telorum"].
Da parte nostra, si schierano frecce, armi da getto, fionde, mazzafromboli, palle di piombo, onagri, balestre, scorpioni [29], con proiettili e sassi; e, cosa più importante, coloro che sono resi temerari dal proprio coraggio, accostate le navi da guerra e gettate le passerelle, passano sulle navi avversarie ed ivi, come suol dirsi, ai ferri corti, combattono corpo a corpo con le spade.
Inoltre, nelle navi da guerra più grandi si stabiliscono ripari e torri, per poter più agevolmente ferire o uccidere i nemici dai tavolati più alti, come da un muro. Con le balestre si infiggono nelle carene delle navi nemiche delle frecce avvolte con stoppa – imbevuta di olio incendiario, zolfo e bitume – ed infiammate; e le tavole spalmate di cera, pece e resina, con tanto alimento d'incendio repentinamente prendono fuoco. Alcuni sono uccisi dalla spada e dalle pietre, altri sono costretti ad ardere tra le onde; tuttavia, fra tanti generi di morte, il caso più crudele è quello dei corpi che rimangano insepolti, in pasto ai pesci.
A somiglianza dei combattimenti terrestri, si conducono degli assalti improvvisi contro gli equipaggi ["nauticis"] che non se l’aspettano, o si tendono degli agguati negli opportuni passaggi ristretti fra le isole.
E per annientare più facilmente coloro che vengono presi alla sprovvista, si procede come segue: se i marinai nemici ["hostium nautae"] sono affaticati dal lungo vogare, se vengono travagliati dal vento contrario, se la corrente di marea è a favore dei nostri rostri, se i nemici dormono senza alcun sospetto, se l’ancoraggio che occupano non ha vie d’uscita, se si verifica l’auspicata occasione di combattere, allora con il favore della sorte si deve andare all’ingaggio e attaccare battaglia come opportuno.
E a questo proposito, se la cautela dei nemici, evitate le insidie, opponga un combattimento ordinato, allora si deve disporre la formazione delle navi da guerra non in linea retta come sul terreno, ma incurvata a mezza luna, in modo che la forza navale, con i due corni in avanti, sia incavata in centro; così, se i nemici tentassero di sfondare, circondati dalla stessa formazione saranno affondati. D’altra parte, nei corni si pone il nerbo insigne delle navi da guerra e dei militi.
Inoltre, è utile che la tua flotta ["classis"] si mantenga sempre al largo ["alto et libero mari"] e spinga verso costa quella nemica, poiché quelli che sono ricacciati a terra perdono l'ardore di combattere. È stato accertato che in tali combattimenti giovarono moltissimo alla vittoria tre generi di armi: le stanghe, le falci e le bipenni.
Si chiama stanga ["asser"] quella trave sottile e lunga, che è appesa all'albero ["malo"] come un pennone ["antemnae"] ed ha entrambe le estremità ferrate. Le navi nemiche, accostandosi da destra o anche da sinistra, sono da essa colpite con forza, come da un ariete; ed essa senza dubbio abbatte ed uccide i combattenti ["bellatores"] o i marinai ["nautas"] nemici, e più spesso sfonda la stessa nave.
La falce ["falx"] è un ferro affilatissimo e curvo come una falce agricola, il quale, fissato su pertiche delle più lunghe, recide d'un tratto le drizze ["chalatorios"] – sono le manovre ["funes"] che tengono sospeso il pennone ["antemna"] – e, avendo fatto cadere le vele della galea avversaria, la rende più indolente ed inutile.
La bipenne ["bipennis"] è una scure che ha una lama larghissima ed affilatissima da entrambe le parti. Con queste armi, nel pieno fervore del combattimento, i marinai ["nautae"] o i militi ["milites"] più esperti, imbarcatisi sulle più piccole imbarcazioni ["scafulis"], tagliano di nascosto i cavi ["funes"] con i quali sono tenuti i timoni ["gubernacula"] delle navi nemiche. Fatto ciò, queste vengono immediatamente catturate, come se fossero navi inermi ed impotenti; ed, infatti, quale mezzo di salvezza rimane a chi ha perduto il timone ["clavum"]?
Delle navi fluviali ["lusoriis"] [30], che tutelano posti di confine con la vigilanza quotidiana sul Danubio, stimo preferibile tacere, poiché dal loro più frequente uso recente, l'arte nautica ha scoperto più di quanto l'antica dottrina avesse insegnato.
[1]
Si tratta della seconda parte del libro IV del testo di Vegezio, dal paragrafo 31 alla fine. Questo testo è preceduto da altri due brevi brani, rispettivamente tratti dai libri I e II della stessa opera, poiché essi appaiono utili ad introdurre l’argomento.
Fonti di riferimento:
- Flavio Renato Vegezio, Dell'Arte Militare (De re militari), traduzione di Temistocle Mariotti, Edizioni Roma, Roma, Anno XV (1937)
- Antonio Angelini, L'Arte Militare di Flavio Renato Vegezio, traduzione e commento, Stato Maggiore dell'Esercito - Ufficio Storico, Roma, 1984
- Vegezio, L'arte della guerra, a cura di Luca Canali e Maria Pellegrini, Oscar Mondadori, Milano, 2001
[2] In latino: "disciplinam militarem".
[3] In latino: "de disciplina militari". Marco Porcio Catone, il Censore (fu console nel 195, censore nel 184 a.C.), aveva scritto raccolta di precetti, ora perduta, che era dedicata al figlio omonimo ed includeva anche un trattato di arte militare.
[4] Aurelio Cornelio Celso (studioso vissuto fra l’ultima decade del I sec. a.C. e la metà del I sec. d.C.) aveva scritto l’opera enciclopedica Artes, che includeva un ampio trattato sull’arte militare, oltre a numerosissimi altri libri, di cui si sono salvati solo quelli sulla medicina.
[5] Sesto Giulio Frontino (console nel 74, 98 e 100 d.C.) aveva scritto un trattato De re militari, perduto, oltre a vari altri scritti, fra i quali si sono conservati un’opera sugli acquedotti ed una raccolta di Stratagemmi, tratti dalla storia greca e romana.
[6] Tarrutenio Paterno (prefetto del pretorio di Commodo fino al 183, quando venne accusato di congiura), aveva scritto un’opera sul diritto militare, ora perduta.
[7] Le Costituzioni di cui parla Vegezio erano delle raccolte di decreti imperiali contenenti norme e disposizioni relative alle forze armate.
[8] In latino: "res militaris". Si tratta della stessa espressione usata nel titolo dell’opera De re militari, che viene variamente tradotta in italiano come Arte militare o Arte della guerra.
[9] In latino: "classem". La flotta veniva infatti inquadrata nell’ambito delle forze armate come un’arma a sé stante, allo stesso livello della fanteria e della cavalleria.
[10] In latino: "liburnarum". All'epoca di Vegezio era invalso l'abitudine di usare il termine liburna per indicare una navi da guerra di qualsiasi tipo. Dovendo quindi attribuire a tale espressione il valore di una sineddoche, essa è stata tradotta in italiano con il termine generico di nave da guerra, al fine di evitare confusioni con le liburne vere e proprie.
[11] In latino: "lusoriarum". Nel IV secolo questo termine veniva normalmente utilizzato per designare non solo le navi da diporto (secondo il significato originario del termine), ma anche le unità navali delle flotte da guerra fluviali. Non si trattava di navicelle civili adattate alle esigenze del pattugliamento sui fiumi, ma di navi rostrate costruite per l’uso militare e dotate del normale armamento delle navi da guerra.
[12] L'imperatore al quale Vegezio si rivolge, fin dalla dedica iniziale dell'opera, non viene mai nominato. Si suppone che si tratti di uno dei tre Valentiniani, o comunque di un imperatore compreso fra Valentiniano I (364-375 d.C.) e Valentiniano III (425-455 d.C.).
[13] Questo inizio così infelice dà subito la misura della miopia strategica di Vegezio, che doveva comunque riflettere la mentalità dei suoi contemporanei. Sarà proprio grazie all'allentamento del controllo romano dei mari che i Vandali poterono poi insediarsi in Africa, spadroneggiare in tutto il Mediterraneo occidentale e minacciare ripetutamente l'Italia e la stessa Roma.
[14] Il mare Adriatico, anticamente anche chiamato talvolta golfo Ionico, era considerato una propaggine del mare Ionio.
[15] In realtà, non si tratta dei Liburni, cioè della popolazione della Liburnia (Dalmazia settentrionale, bagnata dal Quarnaro), ma delle loro navi, cioè le liburne. Queste navi erano già da tempo apprezzate dai Romani, che ne inclusero alcuni esemplari nelle loro flotte fin dall'epoca di Giulio Cesare. Successivamente, nel corso della guerra Dalmatica (35-33 a.C.), poiché i Liburni si erano dati alla pirateria, l'intera loro flotta venne catturata da Marco Agrippa, il grande ammiraglio di Ottaviano. Quelle navi vennero allora aggregate alle forze navali che erano già state approntate dallo stesso Agrippa per la vittoriosa guerra Sicula (conclusa nel 36) e ch'egli condusse poi alla vittoria anche nella guerra Aziaca.
[16] Vi è un'evidente esagerazione. Le liburne, che erano state concepite per la pirateria, erano superiori alle altre unità per i soli compiti che richiedevano navi agili e veloci. In effetti, nell'epoca imperiale, le biremi furono pressoché totalmente soppiantate dalle liburne, mentre tutti gli altri tipi di unità maggiori delle biremi rimasero regolarmente in linea.
[17] Presunta allusione ai calcoli per stabilire la scadenza di certe festività mobili, come quella pasquale.
[18] Il nome Cecia è ricordato anche dalle altre fonti, mentre risulta anomala la dizione Euroboro, che appare anche incoerente con il resto, poiché questo vento non è contiguo all'Euro, ma da un lato al Subsolano, e dall'altro all'Aquilone (Borea per gli Ellenisti).
[19] Vento meglio conosciuto come Euronoto, essendo contiguo all'Euro ed al Noto.
[20] Qui c'è un evidente errore: questo vento è conosciuto solo come Libonoto, mentre il Coro è il vento che spira da Est-Nord-Est, fra il Favonio ed il Thrascias.
[21] Vento meglio conosciuto come Favonio.
[22] Si tratta invece del Coro. Anche la dizione Giapice, non sembra appropriata, trattandosi di un vento a carattere locale presente nell'area della Iapigia (in Puglia).
[23] La dizione Circio viene normalmente riferita ad un ben noto vento locale: quello che spira dalla valle del Rodano sul golfo del Leone (odierno Mistral).
[24] Si tratta di due stelle, ritenute apportatrici di pioggia, nella costellazione dell'Auriga,
[25] Costellazione delle Pleiadi, indicata con la sua denominazione latina.
[26] Il libro I delle Georgiche contiene una lunga descrizione dei mutamenti del tempo che si presentano nelle varie stagioni. Per le relazioni fra i fenomeni atmosferici ed il comportamento degli animali, vedere in particolare i versi 356-423.
[27] Marco Terenzio Varrone, che fu anche uno dei più brillanti ammiragli di Gneo Pompeo Magno durante la grande guerra contro i pirati (67 a.C.), scrisse un gran numero di opere a carattere navale e marittimo, purtroppo tutte perdute. Fra queste, vengono ricordate: una Corografia (studio delle regioni della terra e delle relative acque), De litoralibus (sui litorali marittimi), De ora maritima (sulle acque costiere), una Effemeride navale (manuale di meteorologia marina e oceanografia), De aestuariis (sulle maree) ed i Legationum Libri (racconti dei suoi impegni come legato di Pompeo nella guerra piratica e in quella Mitridatica).
[28] Anche la corazza leggera romana (lorica), originariamente in solo cuoio, venne rivestita di protezioni metalliche la cui estensione andò aumentando con il trascorrere dei secoli. Gli schinieri (ocreae) erano le protezioni metalliche della parte anteriore delle gambe.
[29] Il mazzafrombolo (fustibalus) è un'arma individuale, costituito da un'asta con una fionda ad una estremità. La balista (ballista), l'onagro (onager), e lo scorpione (scorpio) sono macchine belliche rispettivamente usate per lanciare proiettili vari, pietre e dardi.
[30] Sulle lusoriae, vedere la nota 11.