Comune di Roma - Equipe Cooperativa Sociale a.r.l.Tutte le strade portano a Roma - Capitolo IIILE ROTTE DI ROMAdi DOMENICO CARRO |
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Quando il censore Appio Claudio Cieco avviò la costruzione del tratto iniziale della prima grande strada extraurbana di Roma, i Romani utilizzavano già da tempo le vie d’acqua che la Natura aveva messo a loro disposizione: il Tevere, per le comunicazioni fra la città ed il porto di Ostia, e il Mediterraneo per i commerci marittimi necessari ai rifornimenti dell’Urbe. In effetti, proprio nello stesso anno in cui nasceva la Via Appia (312 a.C.), il Senato istituì la nuova carica dei due “duumviri navali”, responsabili della manutenzione e della gestione della flotta. Questa flotta, che era stata potenziata pochi anni prima con la cattura delle navi da guerra di Anzio, aveva la funzione primaria di proteggere i traffici navali d’interesse romano. Si trattava certamente di un’esigenza di vitale importanza. Infatti, solo per via marittima Roma poteva ricevere le derrate e le materie prime di cui aveva assoluto bisogno per il proprio sostentamento, poiché il territorio da essa controllato era ancora molto limitato e circondato da popolazioni ostili o infide.
I Romani furono dunque costretti a preoccuparsi molto seriamente dei loro rifornimenti, ad iniziare da quelli alimentari. L’approvvigionamento di questi ultimi venne assicurato durante tutta la storia di Roma antica dall’organizzazione dell’annona, che provvedeva a far affluire le derrate necessarie - utilizzando pressoché esclusivamente il trasporto navale - ed a fornire al popolo il fabbisogno di grano. L’istituto dell’annona fu peraltro così antico che venne addirittura attribuito all’iniziativa del mitico fondatore di Roma. A questo proposito lo storico greco Aristobulo (IV sec. a. C.), citato da Plutarco, riferisce che Romolo, sul finire del suo regno, andò su tutte le furie quando apprese che il Senato aveva abolito la distribuzione di grano al popolo. Ma questa sfuriata gli costò la vita, poiché i senatori non esitarono ad assassinarlo, facendone poi sparire il corpo per rendere credibile la sua ascensione fra gli Dei. Si potrebbe quindi dire che le preoccupazioni di Romolo per l’annona gli valsero l’onore di essere oggetto di culto come una divinità, sotto il nome di Quirino.
Quello che è certo, è che i Romani avevano acquisito una certa familiarità con i mezzi navali fin dalle origini della città, quando i colli che ospitavano i primi insediamenti - il Palatino, il Campidoglio e l’Aventino - erano lambiti dalle acque del Tevere, estese alle paludi del Velabro. Quella zona aveva una posizione strategica favorevolissima, in quanto si prestava perfettamente al controllo del fiume ed alla lucrosa attività delle barche e delle chiatte che traghettavano persone e merci da una riva all’altra, all’altezza dell’isola Tiberina. La stessa zona costituiva inoltre un ottimo ancoraggio naturale per le navi che risalivano il fiume provenendo dal mare. La presenza delle navi a stretto contatto con la città rimase poi una costante lungo tutta la storia di Roma antica. I Romani poterono utilizzare queste navi in sicurezza a partire dall’epoca regia, dato che l’intero basso corso del Tevere, dalla città fino al mare, fu posto sotto il controllo romano dalle conquiste di Anco Marzio, che giunse fino alla foce e vi fondò la colonia di Ostia. Quanto alle paludi del Velabro, esse furono bonificate dai Tarquini, ma per diversi secoli il fiume conservò in quell’area una profonda insenatura che costituì il più antico Portus Tiberinus, sulla cui banchina meridionale fu eretto l’austero Tempio di Portuno, tuttora esistente. Questo fu il primo porto fluviale di Roma, mentre Ostia ne divenne il primo porto marittimo.
Sulla necessità di navigare, i Romani non ebbero mai dubbi. Lo confermò Pompeo Magno, quando era responsabile dell’annona, con la sua celebre esclamazione: "Navigare necesse est. Vivere non est necesse!", essendo evidente che solo con la navigazione si poteva assicurare la sopravvivenza di Roma, e che, pertanto, i naviganti dovevano affrontare i pericoli della navigazione anche a rischio della propria vita. Tuttavia, per far sì che una nave raggiungesse il porto non bastavano il coraggio e la perizia. L’arte marinaresca poteva tener conto dei normali pericoli insiti nella natura stessa del mare, sempre mutevole e di una potenza ampiamente superiore a qualsiasi forza umana; il navigante poteva anche adattarsi ai capricci dei venti ed evitare le insidie nascoste nelle acque costiere, con secche e scogli affioranti; ma nessuna nave mercantile, per quanto abile ed esperto fosse il suo comandante, poteva sfuggire ad un attacco di navi da guerra nemiche o ad un assalto dei pirati. I Romani dovevano quindi provvedere alla protezione del traffico mercantile con la presenza in mare delle proprie navi da guerra. Ed è quello che fecero, come abbiamo accennato, fino a tutto il IV sec. e nelle prime decadi del III sec. a.C., con risultati accettabili, anche se sempre effimeri perché le minacce al traffico permanevano sempre in agguato.
La situazione si modificò poi radicalmente quando i Romani osarono affrontare per mare le temibili flotte della maggiore potenza navale dell’epoca, in occasione della prima Guerra Punica. Con un gigantesco sforzo organizzativo, finanziario, cantieristico, addestrativo, marinaresco e bellico, essi seppero combattere efficacemente contro i Cartaginesi un gran numero di battaglie navali, riuscendo dopo 20 anni a costringere il nemico alla resa. Questo permise ai Romani di acquisire il dominio del mare nel bacino occidentale del Mediterraneo e poi di neutralizzare, con una lungimirante strategia marittima, le pur micidiali vittorie terrestri di Annibale. Nel suo nuovo ruolo di grande potenza navale, Roma si trovò successivamente coinvolta in una serie di conflitti contro i maggiori regni ellenistici gravitanti sul bacino orientale del Mediterraneo. Si trattava, anche lì, di nazioni dotate di poderose forze navali e che vantavano un’antichissima esperienza nel campo marittimo. Tuttavia i Romani avevano ormai assunto una tale sicurezza nella gestione delle loro flotte che riuscirono ad imporsi sulle forze nemiche ed a risultare in posizione nettamente dominante anche in quei mari. Questa superiorità navale fu peraltro la condizione essenziale e determinante per l’espansione di Roma oltremare. In effetti, per i primi duecento anni (grosso modo fra la metà del III sec. e la metà del I sec. a.C.), l’espansione romana al di fuori della nostra Penisola avvenne quasi esclusivamente per via marittima: prima in Sicilia, in Sardegna ed in Corsica, poi al di là dell’Adriatico e del canale d’Otranto, quindi sui litorali della Spagna e del nord-Africa, per poi proiettarsi sulle coste e le isole del Mediterraneo orientale, ad iniziare dalla Grecia e dall’Asia minore. Solo allora iniziarono le maggiori campagne militari prettamente terrestri nell’Europa continentale.
Pochi decenni dopo, avendo rimosso dal Mediterraneo tutte le forme di pirateria organizzata, ed avendo annientato nelle acque di Azio l’ultima grande formazione navale nemica proveniente dall’Oriente, i Romani poterono beneficiare della straordinaria situazione di pace istituita da Ottaviano Augusto sulla terra e sui mari. Roma, a quel punto, controllava tutte le coste del Mediterraneo e l’intera fascia costiera atlantica dell’Europa occidentale. Tutti i mari dell’Impero permanevano dunque sotto il pieno dominio dei Romani, che assicuravano con le loro flotte una continuativa vigilanza, a tutela della sicurezza della navigazione e del rispetto della legalità. Per la legge di Roma, infatti, il mare era un bene di proprietà comune di tutto il genere umano: occorreva quindi garantire a tutti la libertà di navigazione.
Con l’avvento dell’Impero, come abbiamo appena visto, si crearono delle condizioni davvero ideali per lo sviluppo dei traffici navali. Si trattò di una situazione storicamente del tutto nuova, destinata a durare ben quattro secoli, divenendo poi impossibile e definitivamente irripetibile. I Romani seppero sfruttarla magistralmente, impegnandosi in tutte le iniziative idonee a favorire la navigazione. In particolare, vennero costruiti nuovi porti e migliorati quelli esistenti; i punti cospicui delle coste furono dotati di fari; la navigazione interna fu agevolata dallo scavo di un gran numero di canali navigabili; i cantieri navali furono potenziati; l’architettura navale fu notevolmente perfezionata; delle nuove disposizioni di legge incentivarono le costruzioni navali ed il trasporto di merci verso Roma, incoraggiandone la prosecuzione anche nella stagione invernale.
Una particolare cura fu ovviamente dedicata al sistema portuario di Roma, incentrato sul collegamento fluviale fra la città ed Ostia. Per migliorare e tutelare la navigabilità del Tevere, disturbata dalla crescita spontanea di arbusti sulle rive, Augusto fece allargare e ripulire il letto del fiume. Egli istituì poi una magistratura incaricata della permanente cura delle rive e dell’alveo del Tevere ("curator riparum et alvei Tiberis"). Tale incarico, assegnato a dei senatori, continuò ad essere rinnovato perlomeno fino al IV secolo.
Il porto fluviale di Roma venne progressivamente esteso lungo la riva a valle dell’antico Portus Tiberinus, raggiungendo l’area dell’Emporio, ove sono tuttora visibili i resti delle arcate dei magazzini portuali. Sul retro di queste strutture, l’attigua discarica delle anfore sbarcate dalle navi iniziò ad accrescersi sempre più, fino a formare l’odierno monte Testaccio. In età imperiale, visto che le banchine sulla riva sinistra del Tevere non erano più sufficienti, si crearono delle banchine e dei magazzini anche sulla riva opposta, grosso modo dove furono più tardi realizzati il porto di Ripa Grande e l’Arsenale pontificio, nell’area di Porta Portese.
Il porto di Ostia, penalizzato dal progressivo formarsi di secche all’imboccatura del fiume, continuò ad essere utilizzato solo dalle navi di minor tonnellaggio. Per poter ricevere le navi più grandi, che altrimenti dovevano fermarsi a Pozzuoli, venne costruito in epoca imperiale un nuovo complesso portuale alla foce del ramo settentrionale del delta del Tevere. Questo porto, iniziato dall’imperatore Claudio, inaugurato da Nerone e completato da Traiano, venne chiamato Porto Augusto, o semplicemente “Porto”: fu il più ampio e razionale porto marittimo artificiale del mondo classico, e rimase in vita per oltre sei secoli. Se ne vedono ancora i resti imponenti, incluso il grande bacino esagonale di Traiano, nei presi dell’aeroporto di Fiumicino. Essendo, come Ostia, collegato direttamente a Roma mediante il Tevere, il Porto Augusto divenne il nodo centrale di tutta la vasta rete dei traffici marittimi dell’Impero romano: se si poteva dire con una certa approssimazione che tutte le strade portavano a Roma, era certamente ancor più vero che tutte le rotte marittime fossero effettivamente dirette verso la Città Eterna. Il traffico navale in ingresso ed uscita fu talmente intenso, e costituito da un numero di navi talmente elevato, che il retore Publio Elio Aristide (II sec.) scrisse: "Partenze ed arrivi di navi si susseguono senza sosta; c'è da meravigliarsi che non nel porto ma nel mare ci sia abbastanza posto per tutte le navi mercantili."
Lo sviluppo della marina mercantile e la prosperità dei traffici marittimi beneficiarono ampiamente della qualità della gestione romana, con il suo pragmatico spirito imprenditoriale e le sue spiccate capacità organizzative. È stato calcolato che la flotta mercantile in attività durante il periodo dell’Impero romano abbia superato di gran lunga la somma di tutto il naviglio messo in mare fino allora dalle altre marinerie del mondo classico (dai Fenici ai Cartaginesi, dalla Grecia ai regni ellenistici), raggiungendo delle dimensioni record che rimasero insuperate fino al XIX secolo, quando fiorirono le grandi compagnie di navigazione dell’epoca moderna. La fitta rete delle linee di comunicazione marittime costituì d’altronde il principale tessuto connettivo dello stesso Impero, che gravitava essenzialmente sull’ampio bacino del Mediterraneo, attorno al quale si estendeva il dominio di Roma. Era pertanto di comune interesse, dei Romani e di tutte le popolazioni dell’Impero, che i collegamenti marittimi fossero frequenti ed efficienti, consentendo tutti i trasporti ed i rifornimenti necessari, e favorendo un benefico interscambio di conoscenze e di valori fra tutte le sponde dell’Impero, unitamente alla crescita del benessere ed alla diffusione della Civiltà romana.
Vediamo dunque quali furono i percorsi più significativi seguiti dalle navi di Roma, iniziando dalle navigazioni sulle vie d’acqua interne, proseguendo con alcune rotte nel Mediterraneo, poi con altre negli Oceani, ed infine con il prolungamento delle rotte verso le coste più remote, alla ricerca di nuove opportunità commerciali o di qualche barlume fra i misteri dell’ignoto.
Il primo e fondamentale corso d’acqua utilizzato dai Romani fu naturalmente il Tevere, il cui breve tratto fino al mare consentiva l’agevole afflusso in città delle merci scaricate dalle navi marittime ad Ostia o Porto. Le merci stesse venivano infatti imbarcate su delle navi più piccole, dette “codicarie”, particolarmente adatte alla navigazione fluviale fino a Roma. Gli effetti benefici di questo collegamento indusse i Romani ad attribuire al loro fiume un’essenza soprannaturale: era il Dio Tevere, rappresentato semisdraiato, come tutte le divinità fluviali, con in braccio un remo, simbolo della navigazione, o una cornucopia, simbolo di abbondanza. La navigazione sul fiume non venne limitata al tratto a valle di Roma, poiché il Tevere era navigabile anche per un discreto tratto a monte, perlomeno fino all’altezza di Orte, ove sono ora i resti del cosiddetto Porto di Seripola (denominazione medievale). Questo porto fluviale romano fu molto attivo dal I sec. a.C. al tardo Medioevo per l’invio a Roma dei prodotti agricoli dell’Umbria. Poco più a valle vi era l’antico porto fluviale di Otricoli, noto soprattutto come “porto dell’olio” poiché provvide a rifornire la Città Eterna dell’olio umbro, reputato di qualità superiore rispetto a quelli provenienti da oltremare. Questo traffico si protrasse anche fino al ‘700, epoca in cui la Roma papalina faceva approdare i battelli carichi d’olio al porto di Ripetta.
Oltre al Tevere, tutti i fiumi principali dell’Impero furono solcati dalle navi romane, sia per i trasporti commerciali, sia per esigenze militari: in Spagna, l’Ebro, per raggiungere Cesarea Augusta (Saragozza) e Calagurri (Calahorra), il Beti (Guadalquivir), per recarsi ad Italica (Santiponce) e Cordova, ed il Tago che bagnava Felicitas Iulia (Lisbona); in Gallia, la Senna, sulla cui riva destra sorgeva Lutetia Parisiorum (Parigi), la Loira, per raggiungere la Civitas Turonorum (Tours), la Garonna, che bagnava Tolosa, ed il Rodano, per navigare dal Mediterraneo ad Arelate (Arles), Arausio (Orange), Vienna (Vienne) e Lugduno (Lione), capitale della provincia Lugdunense; in Britannia, il Tamigi, per approdare a Londinium (Londra); in Germania, l’Elba, utilizzato dalla flotta di Tiberio per intimorire i nemici, il Reno, lungo il quale sorgevano pressoché tutte le città della provincia romana, da Argentorato (Strasburgo) a Mogontiaco (Magonza), Bonna (Bonn), Colonia Agrippina (Colonia) e Colonia Traiana (Kellen), la Mosella, per raggiungere Augusta Treverorum (Treviri); e così via.
Un ruolo particolare venne assolto dai quattro fiumi maggiori dell’Impero: il Reno, il Danubio, l’Eufrate ed il Nilo. I primi due ebbero anche la funzione di fiumi di confine. Pertanto, oltre ad essere percorsi dalle navi da carico, furono oggetto di pattugliamenti sistematici da parte delle navi da guerra di tre flotte imperiali: la flotta Germanica, per la vigilanza sul confine renano e sulle acque del mare del Nord prossime alla foce; la flotta Pannonica, operante sull’alto corso del Danubio, nonché sugli affluenti Drava e Sava; la flotta Mesica, responsabile del controllo del basso corso del Danubio e del suo delta sul mar Nero.
L’Eufrate segnò il confine dell’Impero solo nei periodi in cui Roma mantenne la sovranità sulla provincia di Mesopotamia. In tali circostanze l’esigenza di difesa verso sud (deserto d’Arabia) era abbastanza limitata, mentre il fiume era la via di comunicazione ideale per i trasporti ed i collegamenti fra il Mediterraneo (molto vicino all’Eufrate all’altezza di Antiochia) e le province di Mesopotamia e Babilonia, fino al golfo Persico. Per contro, nei ricorrenti periodi di conflitto contro i Parti e poi contro i Persiani, l’Eufrate venne sfruttato molto efficacemente come via di penetrazione veloce verso il nemico. A tal fine, i Romani costituirono sul fiume una loro forza navale, detta flotta Mesopotamica, utilizzata da varie spedizioni militari per l’assalto alle città fortificate e per il sostegno logistico delle legioni. Questo sostegno si rivelò infatti indispensabile, perché la fanteria era chiamata ad operare in condizioni climatiche pressoché insostenibili: tutte le campagne belliche condotte dai Romani in quella zona senza il concorso della flotta si conclusero con clamorose sconfitte (come quelle di Crasso e di Marco Antonio).
Il primo Romano ad effettuare una crociera sul Nilo fu Giulio Cesare che, dopo aver felicemente portato a termine la guerra Alessandrina e rimesso la giovanissima Cleopatra VII sul trono d’Egitto, risalì il fiume accompagnandosi con la stessa regina a bordo del panfilo reale, scortato da ben 400 navi da guerra. Quando poi l’Egitto divenne una provincia romana, il Nilo continuò ad essere meta di crociere di piacere e di intensi traffici navali commerciali, sotto la vigilanza di una forza navale romana permanente, detta flotta Augusta Alessandrina. Con questa flotta i Romani effettuarono anche delle operazioni militari di un certo rilievo, quali, ad esempio, una spedizione navale vittoriosamente condotta durante il principato di Augusto contro la regina nubiana Candace, rea di aver attaccato di sorpresa la guarnigione romana di Assuan, e una missione navale inviata da Nerone per esplorare l’alto corso del Nilo e tentare di individuarne le sorgenti: essa giunse fino ad un’area di “paludi immense”, probabilmente quella bagnata dagli affluenti orientali del Nilo Bianco, a circa 1500 km a sud di Assuan.
Fra le vie d’acqua interne vanno infine ricordati i molti canali navigabili che i Romani vollero scavare per agevolare la navigazione. Fra questi canali, chiamati “fosse” secondo la terminologia latina, ebbero una particolare rilevanza i seguenti: la Fossa Mariana, canale navigabile scavato da Caio Mario quale ramo orientale del delta del Rodano, fra Arelate ed il mare; la Fossa Giulia, canale navigabile e di bonifica delle paludi Pontine, chiamato Decennovio nel Medio Evo e poi “Linea Pio VI”; la Fossa Augusta, canale navigabile del porto di Ravenna; la Fossa Drusiana, canale navigabile fra il Reno e l’antico mare interno dei Paesi Bassi; la Fossa di Corbulone, canale navigabile fra il Reno e la Mosa; due Fosse di Nerone non completate (abbandonate alla morte dell’imperatore), ovvero il canale di Corinto, scavato per un terzo, ed un canale navigabile fra la Campania ed Ostia, appena iniziato; due Fosse Traiane, integrali rifacimenti romani dei molto più antichi canali navigabili fra il Nilo ed il Mar Rosso e fra il Tigri e l'Eufrate.
La navigazione sul canale che fiancheggiava le paludi Pontine (Fossa Giulia) è stata descritta nella prima parte della divertente satira di Orazio sul suo viaggio da Roma a Brindisi. Il canale costeggiava il lungo tratto rettilineo della via Appia, a tutti noto come “Fettuccia di Terracina”, ed era navigabile dall’antico centro abitato di Forappio (vicino all’odierno borgo Faiti, all’altezza di Sezze) fino al mare. I Romani che viaggiavano sull’Appia preferivano normalmente compiere quel tratto sui battelli che navigavano sul canale, essendo un’alternativa considerata riposante rispetto al percorso stradale. In quel contesto Orazio coglie certi aspetti bislacchi e grotteschi, ad iniziare dalla sosta serale a Forappio per la cena, che egli trova insopportabile per l’eccessiva presenza di battellieri e tavernieri imbroglioni, nonché per l’acqua pessima che lo induce a saltare il pasto. Dopo aver atteso con impazienza i suoi compagni di viaggio intenti a cenare, vede che, al calare della notte, un’altra ora viene persa per l’ormeggio del battello, l’imbarco dei passeggeri, la riscossione delle somme pattuite e l’attacco della mula, mentre fioccano invettive fra i battellieri ed i servi. Quindi, avviatasi la navigazione a rimorchio della mula, nessuno riesce a dormire per gli assalti delle zanzare incattivite ed il gracidare delle rane della palude Pontina. Ma poi, dopo aver sopportato i canti del battelliere avvinazzato e di un altro viaggiatore brillo, finalmente cala il silenzio e tutti si lasciano cogliere dal sonno, incluso lo stesso battelliere che si ormeggia ad un sasso, lascia la mula a pascolare e cade di colpo tra le braccia di Morfeo. Se ne accorge alle prime luci dell’alba un viaggiatore collerico, che prende a bastonate mula e battelliere. Riprende così la navigazione, che si conclude infine - verso le nove del mattino - nei pressi di Terracina.
Oltre alle numerose ed importanti opere geografiche destinate agli studiosi, l’Impero romano utilizzò anche delle guide di uso comune, chiamate "itinerari", che delineavano i percorsi terrestri o marittimi limitandosi alla sola elencazione delle località intermedie fra il punto di partenza e quello di arrivo, e l’indicazione delle distanze fra le località contigue. È probabile che questi itinerari venissero consultati insieme alle comuni carte geografiche utilizzate dai viaggiatori e dai naviganti: dei rotoli di papiro con la rappresentazione stilizzata delle coste e delle grandi strade, rese pressoché rettilinee come si fa oggigiorno per le carte autostradali o per le piante delle metropolitane.
Da uno degli itinerari che ci sono pervenuti, l’Itinerarium maritimum, conosciamo l’elenco dei porti e degli ancoraggi minori che potevano venir presi in considerazione dai naviganti sulla rotta da Roma ad Arelate (odierna Arles), la città romana più importante della Provincia Narbonense (odierna Provence). Si tratta di una rotta che segue il percorso marittimo corrispondente a quello terrestre della via Aurelia e della sua prosecuzione transalpina. Le rotta stessa permane quindi pressoché costiera nel suo tratto tirrenico, mentre potrebbe allontanarsi anche sensibilmente dalla costa nel mar Ligure. Naturalmente i comandanti delle navi romane non si fermavano in tutti i porti ed ancoraggi elencati. Essi stabilivano le soste necessarie in base alla velocità di avanzamento ed alle condizioni meteo, tenendosi comunque pronti a ridossarsi nella località più appropriata in caso di burrasca. Le stesse considerazioni orientavano le loro decisioni circa la convenienza di allontanarsi dalla costa per attraversare il golfo di Genova. Con una nave pienamente efficiente, con una buona velatura ed in condizioni meteo ottimali, l’intera rotta da Roma ad Arelate poteva essere percorsa in due giorni.
Ecco dunque la lunga sequenza dei porti ed ancoraggi elencati dall’Itinerarium maritimum per tale rotta: Porto Augusto, Pirgi (S. Severa), Panapio, Castro Nuovo (S. Marinella), Centocelle (Civitavecchia), Alga (vicino Scaglia), Rapinio (vicino Torre S. Agostino), Gravisca (Porto Clementino, attiguo a Tarquinia Lido), Maltano, Quintiano, Rega, Arnine (Montalto Marina), Porto Ercole, Incitaria (sull’Argentario), Domiziana (sull’Argentario), Alminia (Albinia), Talamone, fiume Ombrone, Lago Aprile (Castiglione della Pescaia), fosso d’Alma (foce presso Torre Civette, nel golfo di Follonica), Scabrio (vicino Follonica), Falesia (Piombino), Populonia, Vada, Porto Pisano (Livorno), Pisa, Luni, Porto Venere (Portovenere), Segesta (Sestri Levante), Porto Delfino (Portofino), Genova, Vado (Vado Ligure), Albingauno (Albenga), Porto Maurizio (Imperia), fiume Taggia, Ventimiglia, Ercole Monaco (Monaco), Avisione (Eza), Anaone (Beaulieu), Olivoli (Villafranca), Nicea (Nizza), Antipoli (Antibes), isole Lera (Sainte Marguerite) e Lerina (Saint-Honorat) (odierne îles de Lérins), Foro Giulio (Fréjus), golfo Sambracitano (golfo di Saint Tropez), Caccabaria di Ercole (Saint Tropez), Alcone, Pomponiana (a sud di Hyères), Telone Marzio (Tolone), Taurento (forse La Madrague de Saint-Cyr de Provence), Carsice (La Ciotat), Citarista (capo di S. Sigo), Porto Emina (vicino Cassis), Immandra (vicino Cap Croisette), Marsiglia, Incaro (Cari), Dili, Fossa Mariana (Fos-sur-Mer), Grado Marsigliese, fiume Rodano fino ad Arelate (Arles).
La stessa rotta venne percorsa all’epoca del tramonto dell’Impero dallo scrittore gallo-romano Claudio Rutilio Namaziano, che ne ha lasciato una vivida descrizione nel suo libro "Il ritorno", purtroppo pervenuto incompleto. Salpato dal Porto Augusto in piena stagione autunnale ed in condizioni meteo alquanto infide, egli navigò sottocosta superando Alsio e Pirgi, e approdò a Centocelle (Civitavecchia) per trascorrevi la notte. All’alba riprese la navigazione a vela, allargandosi dalla costa per evitare le secche; dopo aver avvistato Gravisca e le mura abbattute di Cosa, ormai abbandonata dopo le devastazioni barbariche, entrò a Porto Ercole. Alle prime luci del terzo giorno superò il promontorio dell’Argentario nonostante il vento contrario che lo costrinse ad effettuare numerosi bordi; superò l’isola del Giglio ed approdò all’Elba. Salpò nuovamente il mattino del quinto giorno, ma il vento decisamente contrario lo indusse a procedere a remi fino a Populonia. All’alba del sesto giorno poté rimettere in vela e giunse a Vada, con una navigazione estremamente cauta fra le secche. La brezza del mattino del settimo giorno gonfiò le sue vele, che lo portarono ad un ancoraggio sicuro vicino Pisa. Il seguito della navigazione fino in Gallia è rimasto nelle pagine perdute.
In epoca imperiale, i collegamenti navali fra Roma e la Spagna furono quasi esclusivamente finalizzati al trasporto ed al commercio marittimo, poiché le province spagnole erano state pacificate all’inizio del principato di Augusto e non richiesero più un intenso impegno delle flotte militari, com’era avvenuto fra il III ed il I sec. a.C.. Analogamente a quanto succedeva per quasi tutte le province dell’Impero, il traffico commerciale con la Spagna si svolgeva soprattutto in direzione di Roma, che era particolarmente interessata a ricevere l’olio prodotto dalla provincia Betica (nel sud della penisola iberica), i metalli e varie altre apprezzate produzioni della Spagna, quali lo sparto, il vino ed il garum. A riprova dell’intensità del predetto commercio, si è visto che una parte decisamente cospicua dei cocci di anfora che costituiscono il Monte Testaccio, a Roma, appartengono ad anfore d’olio provenienti dalla Betica.
La rotta che collegava Roma con la Spagna non seguiva un percorso costiero, che avrebbe comportato un inutile allungamento dei tempi di viaggio e dei costi, ma attraversava il medio Tirreno, transitava fra la Sardegna e la Corsica, e si dirigeva quindi verso i porti spagnoli di destinazione. La rotta per la Betica, in particolare, doveva procedere verso Sud-Ovest in modo da passare al largo di tutte le isole Baleari e delle coste meridionali della penisola iberica, per poi puntare sullo stretto delle Colonne d’Ercole (odierno stretto di Gibilterra), uscire dal Mediterraneo ed approdare nel porto di Cadice. Questa rotta, che includeva diversi tratti di navigazione d’altura (ben lontano dalle coste) era considerata del tutto adatta alle grandi navi onerarie che erano in servizio per quei trasporti, tenuto anche conto dei venti statisticamente favorevoli spiranti al largo. La navigazione a vela rendeva possibile effettuare l’intero percorso da Cadice al porto di Roma in un tempo minimo di sei giorni.