Rivista bimestrale Voce Romana
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In una delle sue Lettere a Lucilio (VI, 1), il filosofo Seneca racconta di una sua breve navigazione da Napoli a Pozzuoli iniziata in un mare calmissimo, mentre si addensavano nuvoloni neri che non lasciavano presagire nulla di buono. Giunto grosso modo a metà percorso, mentre la sua nave si trovava al largo, lontana da ogni possibile ridosso, egli fu investito dalla bufera: il mare iniziò a montare molto rapidamente, ed in breve tempo la burrasca infuriò. Cedendo alle reiterate richieste del filosofo, tormentato dal mal di mare, il comandante si avvicinò cautamente alla costa più vicina, pur non ritenendola adatta all’approdo, specialmente con quelle condizioni di mare. Quando gli sembrò di essere abbastanza vicino, Seneca, ormai esasperato, si liberò degli abiti e, rimasto con il semplice panno che si usava nelle terme, si gettò in mare e nuotò verso la riva. Dopo essere stato scaraventato dai marosi sugli scogli, sebbene malconcio riuscì ad arrampicarsi ed a porsi in salvo, rendendosi infine conto che “non a torto i marinai temono la terra”.
Che dire? Il filosofo romano non avrebbe forse dovuto pervenire alla conoscenza di questa semplice verità prima di lanciarsi ciecamente in un’azione sconsiderata che avrebbe potuto costargli la vita?
A questo punto una buona parte dei lettori avrà già tratto le proprie conclusioni, assumendo l’aneddoto quale manifesta riprova della presunta incompatibilità fra i Romani ed il mare: secondo tale congettura, quel popolo dalle origini prettamente rustiche sarebbe stato in grado di muoversi con disinvoltura soltanto sul suolo rassicurante delle campagne e dei centri abitati, permanendo invece a disagio al cospetto del mare ed alieno da ogni familiarità con le navi, la navigazione e l’ambiente marittimo. Tuttavia, questa antica e radicata credenza si basa su di un pregiudizio che non trova riscontri nella realtà storica.
In effetti, già dall’episodio alquanto ridicolo che Seneca ha voluto raccontare a Lucilio, con una certa dose di implicita autoironia, si possono individuare due aspetti che contraddicono il predetto assunto. Per andare da Napoli a Pozzuoli i Romani disponevano di ottime strade ed anche della scorciatoia costituita dalla galleria che passava sotto la collina di Posillipo. Questa Crypta Neapolitana, scavata per volere di Marco Agrippa nell’ambito delle predisposizioni di sicurezza per la base navale provvisoria di Portus Iulius, era infatti ancora in uso, anche se buia (dati i suoi oltre 700 metri di lunghezza). Ciò nonostante, il viaggio per mare scelto da Seneca non era una bizzarria, ma un’alternativa che veniva localmente resa disponibile proprio perché molti Romani la ritenevano preferibile, in quanto molto più comoda del pur breve percorso stradale. Preferire la navigazione al trasporto terrestre è già un primo inequivocabile sintomo di familiarità con il mare.
Quanto a Seneca, egli stesso fa capire di non avere la minima intenzione di imbarcarsi nuovamente a breve termine, avendo sperimentato di soffrire eccessivamente il mal di mare: un problema, egli aggiunge, che affliggeva anche Ulisse. A questo proposito non deve sorprendere che un grande navigatore come Ulisse abbia potuto soffrire il mare, visto che anche l’ammiraglio Orazio Nelson, universalmente celebrato come eccelso marinaio prediletto da Sua Maestà britannica, era notoriamente torturato dallo stesso disturbo. Personalmente, per mia fortuna, sono sempre stato del tutto refrattario al mal di mare, ma in tutti gli equipaggi navali, nella nostra Marina come in quelle delle altre nazioni, ai nostri tempi come in ogni epoca della storia, c’è sempre una certa percentuale di persone affette da naupatia, pur trattandosi di provetti marinai, esperti e professionali. Non dobbiamo pertanto considerare squalificanti, per Seneca, le sofferenze subite a causa del mare agitato, mentre va comunque apprezzato il suo coraggio nel tuffarsi dall’instabile ponte della nave – ossessivamente sbilanciata e scossa dal beccheggio e dal rollio – e nel nuotare poi fra i marosi fino alla riva. Egli era dunque un provetto nuotatore abituato al moto ondoso delle acque marine, e non solo alla placida superficie delle piscine delle terme. Questa abilità, normalmente presente solo presso le popolazioni marittime, è un altro inequivocabile indizio di confidenza con il mare.
Rimane comunque ampiamente opinabile l’inconsulta decisione di affrontare un rischio mortale pur di sfuggire alla nausea patita a bordo. Tuttavia tale scelta, nella sua sorprendente singolarità, certamente non riflette il radicato buon senso della mentalità romana. Chiunque nel mondo romano avrebbe giudicato assurdo quel comportamento, esattamente come scrisse più tardi il retore Massimo Tirio (Discorsi, 31).
Ma ci siamo soffermati fin troppo a lungo su questo aneddoto marginale. Ben altre argomentazioni possono trarsi dall’insieme dei dati sulla storia navale e sui costumi degli antichi Romani. Qui non posso darne che un breve cenno, sfiorando a volo d’uccello soltanto alcuni aspetti salienti, per sintetizzare in poche righe quanto ho riportato altrove in più di settanta pagine (Classica, vol. XI, pp. 112-185).
Innanzi tutto va osservato che le molteplici attività svolte dai Romani con le navi (militari e civili) e per le navi (costruzione o potenziamento dei cantieri, porti, fari e canali navigabili; organizzazione dell’annona, del traffico marittimo, ecc.), come illustrato nei precedenti dieci articoli di questa serie e nei dodici di quella precedente (Monumenti navali di Roma), forniscono già di per sé l’evidenza dell’elevata competenza, presente a tutti i livelli della società romana, nel campo navale.
Ma i Romani non si limitarono ad acquisire tutte le conoscenze necessarie ed una ricca esperienza in materia, perché vi fu anche, fra di essi, un vero e proprio amore per il mare e per le navi. Lo si vede da innumerevoli segni, quali, ad esempio: la propensione a dotarsi di splendide ville marittime costruite sui punti più belli delle nostre coste, ville dotate di ampia vista panoramica sul mare, di pontili per l’ormeggio di navicelle da diporto e mezzi navali per il trasporto di persone e merci, nonché di complessi sistemi di vasche per l’allevamento dei pesci; la fortuna delle località marine di villeggiatura, come Alsio, Anzio, Astura e gli altri siti costieri più a sud fino alla Campania, laddove “nulla al mondo splende più dell’ameno golfo di Baia” (Orazio, Epist. I, 1, 83), l’incantevole riviera prediletta dai Romani; la diffusione della nautica da diporto e della pesca amatoriale, come si vede in moltissimi piccoli affreschi con paesaggi marini; l’attrattiva esercitata dagli spettacoli di naumachia e dalle competizioni nautiche (organizzate in particolari occasioni, come le feste Nettunali ed i giochi delle Aziadi); la predilezione per i viaggi via mare o su altre vie d’acqua, rispetto alle alternative terrestri, secondo varie testimonianze riferite anche a personaggi di spicco (Augusto, Caligola, Claudio, Plinio il Giovane, Traiano, ecc.); l’abilità nel nuoto, che era comune a tutti i Romani e che è stata anche evidenziata in alcuni aneddoti celebri, quali quello della giovane Clelia, che attraversò il Tevere a nuoto insieme alle altre fanciulle fuggite con lei da Porsenna, e quello di Cesare che sfuggì per un pelo all’assalto degli Alessandrini tuffandosi in mare ed allontanandosi rapidamente a nuoto, prima sott’acqua e poi in superficie; la passione romana per il pesce, i crostacei ed i frutti di mare, la loro competenza nel riconoscere e ricercarne le specie più prelibate, nonché l’ampio utilizzo dei prodotti ittici nelle più apprezzate ricette gastronomiche e nelle preparazione del garum; il rispetto e l’ammirazione che gli stessi Romani ebbero invece per i delfini, sempre riconosciuti come appartenenti ad una specie dotata di viva intelligenza e di una naturale propensione all’amicizia con gli uomini, come si vede anche da racconti leggendari riferiti ad eventi sostanzialmente verosimili verificatisi nelle acque della Campania e del Nord-Africa.
Oltre ai predetti elementi, risultano altrettanto indicativi della dimestichezza con il mare e con la navigazione certi comportamenti presenti in tutte le città marinare, come l’uso di parole di origine navale (navus, navare, naviter, importuosus, importunus, ecc.), il frequente ricorso a similitudini marittime, la devozione alle divinità protettrici dei naviganti (Nettuno, Venere, Castore e Polluce, Fortuna, i Lari Permarini, ecc.) e l’uso di ex voto da parte di chi scampò ad un naufragio.
Infine, se il mare è stato oggetto di versi molto intensi vergati dai poeti, altrettanta sensibilità si ritrova anche nei prosatori romani. Cicerone, ad esempio, adopera espressioni particolarmente felici nel tratteggiare il mare e la ricchezza dell’ambiente marittimo: “Quant’è grande la bellezza del mare!”, ch’egli equipara allo spettacolo dell’universo, decantando il fascino e la straordinaria varietà delle coste, delle spiagge, delle isole e delle specie della fauna marina (La natura degli dei II, 100). In un altro passo, egli accenna efficacemente alle suggestive mutazioni cromatiche “Quel mare, che per lo spirare recente del Favonio sembra di porpora … a noi stessi poco fa sembrava ceruleo e stamane arancione, mentre adesso, dalla parte in cui splende il Sole, biancheggia e scintilla, e non somiglia a quello ch’è più vicino e che pur lo contiene” (Lucullo II, 33).
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