Notiziario CSTN (Centro Studi Tradizioni Nautiche)
Numeri di Aprile 2015 (pp. 17-21) e Maggio 2015 (pp. 18-23)

FABRI NAVALES

Il progresso nelle costruzioni navali
in epoca romana

di DOMENICO CARRO
SOMMARIO:


Locandina conferenza


Note


Abbreviazioni
  1. I Romani e il progresso
  2. La "Nave di Enea"
  3. Le prime quinqueremi
  4. Le quinqueremi veloci
  5. Le navi da sbarco di Cesare
  6. Le poliremi turrite di Agrippa
  7. Le liburne
  8. Le navi speciali
  9. Le grandi navi da trasporto
  10. Le navi lusorie
© 2015 - Proprietà letteraria (copyright) di DOMENICO CARRO.


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SOMMARIO ROMA MARITTIMA NAVIGARE NECESSE EST home

I. I ROMANI E IL PROGRESSO

Anche se le fonti storiche non forniscono informazioni dirette sui fabri navales – che pur costituivano una corporazione alquanto potente [1] – possiamo apprezzare le capacità di questi costruttori navali romani dai crescenti risultati ch’essi conseguirono, nella costante ricerca delle soluzioni più idonee al soddisfacimento di tutte le esigenze di naviglio: militare, mercantile e per uso privato.

Certo che l’idea di progresso sembra scarsamente compatibile con il mondo greco-romano: visto a distanza di due o tremila anni, questo potrebbe infatti apparire immobile ed immutabile, cristallizzato nei rigidi canoni della classicità [2]. Eppure i Romani ebbero una chiara consapevolezza dei progressi che alla loro epoca si stavano compiendo, come si vede da alcune osservazioni di Seneca [3] e Plinio il Vecchio [4]. Anche noi stessi, d’altronde, non abbiamo alcuna difficoltà a percepire gli antichi progressi nell’architettura, ad esempio osservando, in sequenza, l'architrave un po' rozza della Porta dei Leoni di Micene, le perfette proporzioni del Partenone, le possenti arcate del ponte-acquedotto costruito da Agrippa in Provenza e la volta sublime ed ineguagliabile del Pantheon. In questo caso, tuttavia, siamo partiti da una costruzione di epoca “ciclopica” e ci siamo distesi lungo un arco di un millennio e mezzo.

Nel campo navale possiamo partire dai dati meno arcaici raccolti da Plinio il Vecchio, che riferisce la presunta origine dei vari tipi di poliremi [5]. Da queste informazioni, tratte da fonti greche, si comprende quale fosse, a grandi linee, la situazione dell'arte navale nel Mediterraneo nei secoli in cui ha iniziato a sbocciare la marina romana.

Il nostro esame delle tappe salienti del progresso romano nel campo delle costruzioni navali incomincerà dunque basandosi sul predetto scenario di riferimento all’epoca in cui i Romani si sono affacciati sul mare. L’indagine si svilupperà quindi fino all’epoca imperiale, quando il progresso tecnologico poté beneficiare della sensibile accelerazione provocata dal benessere e dalla facilità delle comunicazioni marittime [6]. Non si tratterà di una trattazione tecnica, ma di una veloce navigazione virtuale attraverso la storia navale romana [7], ponendo specifica attenzione all'evoluzione del naviglio.

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II. LA "NAVE DI ENEA"

All’inizio della storia navale romana non può mancare un breve cenno ad un evento che la poesia ha reso leggendario: quello dello sbarco sulla costa laziale di una flotta con i profughi della guerra di Troia [8]. Ma in questa sede, parlando della cosiddetta “Nave di Enea” non ci si riferisce ad una delle navi dell’eroe troiano, anche perché sappiamo da Virgilio [9] ed Ovidio [10] che questi scafi, andati in fiamme, furono tramutati in divinità marine, come le Nereidi [11]

Diamo allora un'occhiata alle necessità navali della primissima Roma, quando, circondati dalle acque del Tevere, i Romani controllavano il fiorente mercato nell'area del futuro Foro Boario, ai piedi del Palatino, e le lucrose attività di traghetto fra le due sponde del fiume. Fin da quell'epoca arcaica, delle navi dovevano utilizzare l'ancoraggio naturale dei Velabri per esigenze di commercio. Gli stessi Romani ebbero interesse a sfruttare anch'essi la via d'acqua fluviale fino al mare e la navigazione marittima, come si può desumere dalle iniziative assunte già in epoca regia da parte di Anco Marzio (640-616), cui è attribuita la fondazione di Ostia, e di Lucio Tarquinio (534-510), che inviò dei coloni a Circeo, quale presidio sul mare verso sud, e compì la bonifica dei Velabri, lasciando l’ampia insenatura del Portus Tiberinus quale primo porto fluviale cittadino.

Per navigare lungo le ampie sinuosità del fiume fino al mare e viceversa, sarebbe stato alquanto complicato utilizzare le normali navi mercantili, dotate della sola propulsione a vela e di limitate capacità di stringere il vento. In quell'epoca le unità più adatte a tali navigazioni, sia per esigenze commerciali che per compiti militari, erano le penteconteri [12], adottate, prima dell’avvento delle poliremi, dalle principali marinerie mediterranee: in Italia, la marina maggiore era quella degli Etruschi [13], primi maestri dei Romani. Dovettero dunque essere delle penteconteri le prime navi da guerra romane citate dalle fonti storiche. A queste unità furono più tardi affiancate anche delle triremi, di cui abbiamo notizia all’inizio del IV sec. a.C., ma le vecchie penteconteri rimasero comunque in linea ancora a lungo, perlomeno fino all’inizio della prima Guerra Punica ([14]).

Essendo state utilizzate per oltre 3 secoli, le longeve penteconteri rappresentarono in definitiva un punto di partenza particolarmente importante, l'inizio embrionale della potenza navale romana. I Romani ne furono evidentemente coscienti, visto che un esemplare di queste navi venne gelosamente conservato in un edificio sacro dei Navalia di Roma, lo storico arsenale e basa navale cittadina della flotta romana. Questo arcaico cimelio, verosimilmente rinnovato nel corso dei secoli, finì per essere venerato come “la nave di Enea” almeno fino al VI secolo d.C., quando venne personalmente visto ed ammirato da Procopio di Cesarea, giunto nell’Urbe dopo la cacciata dei Goti [15].

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III. LE PRIME QUINQUEREMI

Quando sfidarono i Cartaginesi sul mare, per estrometterli dalla Sicilia, i Romani possedevano da tempo una propria flotta militare, che era stata considerevolmente ampliata nel 338 a.C. con la cattura delle navi di Anzio [16]. Essi avevano altresì potenziato i loro cantieri navali – dai Navalia di Roma ad altri scali fluviali viciniori [17] – ed avevano istituito le magistrature dei duumviri navali (312 a.C.), per la gestione e la manutenzione della propria flotta [18], e dei quattro questori classici (267 a.C.), per radunare tutte le idonee navi da guerra disponibili presso le altre marinerie della Penisola [19].

Avendo in tal modo costituito, con le unità romane e quelle italiche alleate, un’ampia forza navale protetta da navi rostrate di medie dimensioni (triremi e pentecontore), i Romani navigarono coraggiosamente verso lo Stretto di Messina, che era presidiato dalla ben più potente flotta punica (264 a.C.). I Cartaginesi, infatti, come le altre maggiori potenze navali del Mediterraneo, avevano da tempo adottato nelle loro forze navali delle poliremi dotate di ponte e molto più robuste e possenti delle triremi [20]): oltre ad alcune quadriremi, qualche esareme e perfino una settereme, si trattava soprattutto delle quinqueremi, che costituivano la quasi totalità delle loro navi combattenti.

Pur essendo stato avvistato nello Stretto ed affrontato in battaglia navale dal nemico, il comandante romano, Appio Claudio Caudice, riuscì a sottrarsi all’ingaggio ed a portare le sue navi a Reggio senza perdite significative. Ma nella concitazione dell’inseguimento, una quinquereme cartaginese si era spinta troppo sotto costa ed era finita in secca sulla spiaggia calabra [21]. Prontamente abbordata dalle più leggere navi romane, essa venne così catturata. Poco dopo lo stesso Appio Claudio, con un abile stratagemma, riuscì ad attraversare lo Stretto di notte, con tutta la sua forza navale, ed a sbarcare in Sicilia [22].

Tre anni dopo, avendo dato tempo ai fabri navales romani di studiare tutte le caratteristiche costruttive della nave punica catturata ed avendo altresì predisposto una poderosa organizzazione per la costruzione veloce di queste navi e per l’addestramento dei relativi equipaggi, i Romani allestirono nell’arco di due mesi una nuova flotta da combattimento che includeva un buon centinaio di quinqueremi [23]. Inoltre, per rendere tali navi più temibili del loro modello, vanificando le abituali manovre tattiche puniche, essi le dotarono del cosiddetto corvo [24], un attrezzo di nuova concezione che doveva agevolare e velocizzare le fasi di abbordaggio ed arrembaggio delle navi nemiche. In tal modo i Romani riuscirono a cogliere le loro prime grandi vittorie navali, sbaragliando le flotte cartaginesi nelle acque di Milazzo (260 a.C.) [25] e di Ecnomo (256 a.C.) [26].

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IV. LE QUINQUEREMI VELOCI

Nelle successive operazioni navali del conflitto, i Romani conseguirono ancora diversi successi, ma subirono anche delle perdite immani a causa di tre disastrosi naufragi causati dalle tempeste [27]. Tutto lascia pensare che, dopo i due primi naufragi (255 e 253 a.C.), i Romani abbiano abolito i corvi, avendo valutato che quell’ingombrante e pesante struttura sistemata a prua avesse compromesso la stabilità delle proprie navi in navigazione nella burrasca [28]. È comunque certo che da quel momento i corvi non risultano mai più presenti. Qualche anno dopo, peraltro, i Romani subirono inopinatamente la loro prima ed unica sconfitta in battaglia navale (acque di Trapani, 249 a.C.).

I Romani avevano fino allora pervicacemente compensato tutte le perdite navali subite, mettendo in cantiere centinaia e centinaia di quinqueremi, sempre sul modello di quelle cartaginesi. Ma quando le loro due maggiori flotte furono annientate nel giro di pochi giorni, per la sconfitta di Trapani e per la terza rovinosa burrasca (249 a.C.), essi ebbero bisogno di una congrua pausa per ricostituire le risorse umane e finanziarie necessarie all’armamento di una nuova grande forza navale.

Nel frattempo, tuttavia, i fabri navales romani avevano iniziato a studiare le peculiarità tecniche di due singolari quadriremi che erano state catturate l’anno precedente nel corso del blocco navale del porto di Lilibeo [29]. Si trattava di due unità che avevano sfruttato la loro maggiore velocità e le loro eccezionali qualità evolutive per violare ripetutamente il blocco romano, destando la sorpresa e l’ammirazione degli stessi Romani, che erano infine riusciti ad impossessarsene [30]. Sulla base dell’esperienza acquisita, i costruttori navali romani riuscirono a progettare un nuovo tipo di quinquereme veloce [31], dotando tale unità di caratteristiche nautiche altrettanto valide di quelle delle due quadriremi catturate.

Nel 242 a.C., quando i Romani furono in condizioni di armare una nuova flotta, essi misero in cantiere 200 quinqueremi, tutte del nuovo tipo. Con tali navi e con equipaggi perfettamente addestrati, Caio Lutazio Catulo conseguì l’anno seguente la decisiva vittoria navale delle Egadi (10 marzo 241 a.C.), in seguito alla quale i Cartaginesi si rassegnarono a richiedere la pace ed a rinunciare alla sua supremazia navale [32].

Successivamente, le quinqueremi vittoriose alle Egadi continuarono ad essere il tipo di nave fondamentale di tutte le flotte romane impiegate nell’arco di oltre due secoli, per consolidare il dominio del mare da parte dei Romani e per consentire la progressiva espansione di Roma su tutte le sponde del nostro mare, fino alla costituzione dell’Impero.

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V. LE NAVI DA SBARCO DI CESARE

Nel quarto anno del suo proconsolato in Gallia (55 a.C.), Giulio Cesare decise di effettuare un primo sbarco navale in Britannia. L’operazione, intesa come un’iniziale presa di contatto con l’isola, aveva uno scopo dissuasivo nei confronti dei Britanni che avevano inviato aiuti alle guerre galliche, soprattutto l’anno precedente in occasione della grande rivolta degli Aremorici [33]. Cesare possedeva già una flotta sull’oceano Atlantico, avendola fatta costruire sulla Loira proprio per combattere contro gli Aremorici. Dopo averli sconfitti con una memorabile vittoria navale conseguita nelle acque a sud della Bretagna [34], egli fece trasferire la flotta romana fino ad Izio, porto sul passo di Calais. Da lì condusse la sua prima spedizione in Britannia con due legioni imbarcate su 80 navi onerarie, mentre le navi da guerra fornirono il sostegno allo sbarco, duramente contrastato dai nemici [35].

Rientrato felicemente in Gallia alla conclusione della pace con i Britanni, Cesare decise di mettere subito in cantiere delle nuove navi actuariae, al fine di disporre di una flotta più ampia, a partire dalla successiva primavera, per poter condurre una più nutrita spedizione nell’isola, con cinque legioni e duemila cavalieri. Egli volle tuttavia evitare l’inconveniente riscontrato al primo sbarco, quando i legionari che erano saltati in acqua dalle navi venivano bersagliati dai proiettili nemici mentre compivano il lungo percorso verso la spiaggia, essendo oltre tutto impacciati dal peso delle armi. In quella circostanza egli aveva limitato il pericolo utilizzando molto felicemente le navi da guerra ed i mezzi navali minori [36]. Ma quelle stesse misure non sarebbero state altrettanto efficaci per uno sbarco di dimensioni alquanto più ampie.

L’esigenza di Cesare era dunque quella di disporre di navi che non fossero costrette, come le onerarie, ad ancorarsi molto lontane dalla spiaggia. Pertanto, tenendo anche presente certe caratteristiche che egli aveva osservato con interesse nelle navi oceaniche dei Galli [37], lo stesso proconsole romano fece progettare ai suoi esperti un nuovo tipo di unità actuaria (a vela ed a remi) dallo scafo più largo, più basso e più leggero di quelli usati nel Mediterraneo, al fine di avere un minor pescaggio e consentire un maggiore avvicinamento alla spiaggia dello sbarco navale. Inoltre, limitando l’altezza sull’acqua delle unità, Cesare si era prefisso lo scopo di rendere più spedite le operazioni di sbarco degli uomini, degli animali da soma e dei materiali [38].

Con queste actuariae, costruite sulla Senna in numero di 600, e con la protezione delle vecchie unità ed altre 28 nuove grandi navi da guerra, Cesare effettuò il suo secondo sbarco navale in Britannia senza alcuna difficoltà, anche perché i barbari si ritirarono terrorizzati alla vista di oltre 800 navi romane in rapido avvicinamento alla spiaggia [39].

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VI. LE POLIREMI TURRITE DI AGRIPPA

Una dozzina di anni dopo, il giovane triumviro Ottaviano, figlio adottivo di Cesare, avviò la lotta contro la pirateria esercitata dalle flotte di Sesto Pompeo [40], arbitrariamente insediatosi in Sicilia. Poiché le incursioni navali di queste flotte colpivano in modo sempre più preoccupante le coste tirreniche e le rotte marittime dei rifornimenti vitali di Roma, i triumviri tentarono a più riprese di rimuovere questo problema con la diplomazia, ma senza ottenere alcun risultato durevole. Toccò invece al solo Ottaviano gestire la guerra navale, che egli poté condurre solo saltuariamente e con il contributo di alcuni suoi collaboratori, vedendo tuttavia che i suoi sforzi venivano costantemente vanificati dalla spiccata perizia e scaltrezza degli avversari [41].

All’inizio del 37 a.C., finalmente, Ottaviano poté conferire l’intera responsabilità della guerra navale contro questa esiziale pirateria a Marco Agrippa, suo amico coetaneo e suo prezioso collaboratore [42], che era stato eletto console per quell’anno. Il giovane console fece innanzi tutto costruire un nuovo porto estremamente capiente, il Porto Giulio [43], per radunarvi le navi già impostate da Ottaviano e per addestravi tutti gli equipaggi, e lo dotò di efficienti cantieri navali per potenziare considerevolmente la flotta.

Lo stesso Agrippa mise quindi in costruzione le nuove navi da guerra con le quali intendeva misurarsi personalmente con le temibili flotte piratiche basate in Sicilia. Egli volle che tali unità fossero più grandi e robuste di quelle avversarie. Esse dovevano essere in grado di resistere agli assalti nemici, per l’altezza delle murate, per la saldezza delle strutture e per lo spessore del fasciame [44]. La loro maggior capienza, inoltre, doveva consentire di imbarcarvi un maggior numero di classiari [45]. Per consentire a questi ultimi di combattere da una posizione sopraelevata e protetta, prima dell’arrembaggio, le unità erano dotate di alte torri da combattimento, sistemate a prora e talvolta anche a poppa.

Vengono attribuite ad Agrippa anche due invenzioni: delle torri a scomparsa [46], tali da poter essere erette molto rapidamente sul ponte di coperta prima dell’ingaggio, in modo da sorprendere il nemico, e l’arpax [47], una sorta di arpone lanciato da una catapulta per afferrare da lontano la nave avversaria da assalire con l’arrembaggio.

Con le sue nuove navi così allestite, Marco Agrippa poté misurarsi per mare nel migliore dei modi con la flotta avversaria, sino allora invitta. Dopo un primo netto successo conseguito nelle acque di Milazzo, egli riportò la vittoria decisiva in quelle di Nauloco (3 settembre 36 a.C.). Sesto Pompeo, avendo praticamente perso tutta la sua flotta (salvò solo 17 navi su 350), fuggì dalla Sicilia lasciando il mare libero e sicuro.

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VII. LE LIBURNE

Cessata, dunque, la pirateria nel Tirreno e nello Ionio, riprese però quella nel mare Adriatico ad opera degli Illiri [48]. L’anno successivo, pertanto, Ottaviano condusse una spedizione contro costoro, portando nelle acque della Dalmazia la flotta vittoriosa comandata da Marco Agrippa. Nel corso di questa guerra Dalmatica (35-33 a.C.), l’ammiraglio romano portò a termine con la consueta determinazione diverse operazioni marittime. Ad esempio, mise a ferro e fuoco le isole di Curzola e Melida, covi di efferati pirati, sconfisse nel golfo del Quarnaro i Liburni [49], rei anch’essi di pirateria, e sottopose al blocco navale le coste della Dalmazia fino alla completa accettazione della pace [50].

Fu nell’ambito delle predette azioni che Agrippa catturò tutte le navi rostrate utilizzate dai Liburni. Le interessanti caratteristiche delle navi prodotte nell’alto Adriatico erano già note ai Romani [51], ma quando l’ammiraglio romano poté verificare di persona le brillanti prestazioni delle unità catturate, egli decise di immetterle senz’altro nella sua flotta, ad integrazione delle altre poliremi in linea.

Le veloci liburne diedero concreta prova delle loro qualità nautiche ed operative nel corso della successiva guerra Aziaca (32-31 a.C.), inquadrate nella grande forza navale comandata da Marco Agrippa, sotto la supervisione di Ottaviano. Fra i comandanti subordinati, responsabili dei vari reparti in cui si articolava la formazioni navale romana, vi dovrebbe essere stato anche Mecenate, che risulta aver navigato proprio sulle liburne [52], passando velocemente fra le navi maggiori per ispezionarne la situazione e, verosimilmente, per assolvere un compito di collegamento. Inoltre, quando la flotta di Cleopatra prese la fuga, imitata dalla quinquereme del suo sposo, sulle unità sottili che furono mandate da Agrippa all’inseguimento, vi fu molto probabilmente lo stesso Mecenate, anche se non a bordo dell’unità che giunse effettivamente a contatto con le navi egizie [53].

Lo straordinario valore epocale della vittoria navale di Azio (2 settembre 31 a.C.), che rese possibile l’instaurazione della pace augustea, favorì anche l’esaltazione oltre misura del contributo, indubbiamente valido, fornito dalle liburne in quelle acque, tanto che nel tardo Impero si pensò che esse avessero eclissato tutte le navi preesistenti [54]. La diffusione delle liburne, peraltro, si accrebbe progressivamente a partire dall’epoca di Augusto, soprattutto nelle nuove flotte imperiali periferiche. In effetti, le loro limitate dimensioni unitamente alle loro eccellenti prestazioni nautiche le rendevano particolarmente idonee ai compiti di pattugliamento, marittimo o fluviale, tipici del tempo di pace. Nel basso Impero, pertanto, il termine liburna finì col divenire sinonimo di nave da guerra romana.

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VIII. LE NAVI SPECIALI

Non bisogna tuttavia pensare che l’inventiva dei fabri navales romani si fosse ottusa in seguito all’adozione del modello delle liburne nelle flotte imperiali. Continuarono invece, senza interruzioni, sia la ricerca delle possibili migliorie tecnologiche alle costruzioni navali, sia lo studio delle innovazioni da adottare a fronte di problemi di nuovo tipo. Se ne danno di seguito tre brevi esempi.

a. Le navi oceaniche di Germanico

Quando il giovane e promettente Germanico venne inviato da Augusto al comando delle forze romane sul Reno (14 d.C.), egli poté inizialmente avvalersi della flotta romana trovata in loco [55]. Volendo però avviare una vasta offensiva verso il fiume Elba, per alleggerire la pressione dei Germani sul Reno, egli decise la costruzione di una nuova flotta di mille navi di diverse tipologie, che egli fece progettare ad hoc sulla base dei requisiti da lui stesso prestabiliti. Con queste unità, ottimizzate per le navigazioni oceaniche ma anche per manovre sui fiumi ed il trasporto di macchine belliche, cavalli e viveri [56], egli poté condurre la sua ardita operazione, navigando sull’Oceano fino alla foce del fiume Amisia e sbaragliando i Germani [57].

b. Le navi per la costruzione di ponti

Fra le varie spedizioni belliche compiute durante l’Impero con impiego di navi sui grandi fiumi, quelle più ricorrenti furono quelle sull’Eufrate [58]; fra queste ultime, quella meglio documentata fu quella condotta da Giuliano, l’imperatore filosofo, che affrontò la guerra contro i Persiani (363 d.C.) con una forza navale decisamente imponente. Essa includeva 1000 onerarie, 50 navi da guerra e 50 unità navali specificamente destinate alla costruzione di ponti. Si trattava di navi di grande stazza, già predisposte per realizzare in breve tempo quei ponti di navi utilizzati dalle legioni per attraversare i grandi fiumi [59]. Questo tipo di unità doveva in effetti essere già stato ideato molto prima, ed incluso in molte precedenti analoghe operazioni romane, anche sul Reno e sul Danubio [60].

c. La “liburna invincibile”

Un’indicazione della perdurante inventiva dei Romani nelle costruzioni navali ci è fornita da un singolare progetto illustrato intorno al IV sec. d.C. [61] dall’anonimo autore del trattato “De Rebus Bellicis”. Si tratta di una liburna con propulsione a ruote, che avrebbe dovuto sfruttare l’energia di coppie di buoi aggiogati come per il funzionamento delle grandi macine [62]. Questa unità, per la sua maggiore potenza, avrebbe dovuto prevalere con facilità su qualsiasi nave da guerra nemica [63].

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IX. LE GRANDI NAVI DA TRASPORTO

A partire dal principato di Augusto, lo straordinario sviluppo della marina mercantile nel mondo romano [64] fu certamente favorito dalle benefiche condizioni di pace e di stabilità, oltre che di libertà e sicurezza della navigazione. Ma quello sviluppo si giovò in modo significativo anche dell’effetto trainante prodotto dalle maggiori commesse imperiali, che stimolarono più di ogni altra l’ingegno dei costruttori navali romani. Ad esempio, un indubbio impulso all’attività dei cantieri navali provenne dall’esigenza di varare in breve tempo un elevato numero di grandi onerarie per realizzare lo spettacolare ponte di navi fra Pozzuoli e Baia sperimentato dal giovane imperatore Caligola a scopo dimostrativo [65].

Le commesse imperiali che maggiormente incentivarono un perfezionamento delle metodologie di costruzione degli scafi furono tuttavia quelle relative alla realizzazione delle maggiori navi da trasporto. Andando in ordine di grandezza, vi furono innanzi tutto le grandi unità lapidariae, destinate al carico dei marmi [66] da prelevare presso le cave disseminate su tutte le sponde del Mediterraneo e da utilizzare in modo sempre più massiccio per le costruzioni imperiali, per gli edifici pubblici ed anche per l’edilizia privata.

Per quanto grandi e particolarmente robuste, le predette navi non furono sempre sufficienti a soddisfare le esigenze degli imperatori. Gaio Caligola, ad esempio, volendo far trasportare a Roma la statua di Giove Olimpio, per sistemarla in un tempio da erigere sul Palatino, fece costruire una nave su misura per poter imbarcare quel particolare carico [67].

Le navi da trasporto più grandi costruite dai Romani furono però quelle che servirono a trasportare per mare, da Alessandria, i maggiori obelischi. Iniziò Augusto, dopo aver incluso l’Egitto fra le province romane. Egli portò a Roma quattro obelischi, i cui due maggiori sono attualmente a Piazza del Popolo ed a Piazza Montecitorio. Per trasportare il primo fu costruita una nave che lo stesso Augusto giudicò talmente pregevole da lasciarla in permanente esposizione al pubblico in un bacino di Pozzuoli [68].

Venne poi costruita dal giovane Caligola una nave decisamente più grande, che portò l’obelisco che si trova ora a Piazza S. Pietro, unitamente ai relativi quattro grandi sostegni in granito. Plinio il Vecchio, che vide questa nave, la giudicò “la più mirabile di tutte quelle che avessero mai solcato i mari” e riferì che il suo albero era così grande che occorrevano quattro uomini per abbracciarlo. Qualche anno più tardi, la nave fu affondata dall’imperatore Claudio davanti al nuovo porto imperiale dell’Urbe per farne il nucleo dell’isola artificiale sulla quale venne poi eretto il grande faro di Roma [69].

Tre secoli dopo, il sinistro imperatore Costantino fece costruire un'altra gigantesca nave da trasporto, con la quale il figlio Costanzo fece pervenire sul Tevere il maggiore obelisco di Roma, quello attualmente sistemato in Piazza S. Giovanni in Laterano [70].

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X. LE NAVI LUSORIE

Per concludere questa serie di esempi mi sembra particolarmente appropriato, in questo consesso, un cenno al naviglio lusorio nel mondo dell’antica Roma.

La grande diffusione dei natanti da diporto [71] nelle acque antistanti le ville marittime e le località marine più amene, testimoniata da un’infinità di affreschi romani ritrovati nelle città della Campania ed in molti altri siti archeologici, dimostra quanto fosse fervida l’attività dei cantieri navali anche in questo settore. Tuttavia, in assenza di ritrovamenti di antichi relitti di barche da diporto, non risulta possibile trarre dalle sole fonti iconografiche delle attendibili indicazioni sulle tecniche costruttive degli scafi rappresentati.

Per contro, abbiamo avuto la fortuna di acquisire delle conoscenze dirette molto precise sui relitti di due panfili di lusso, due navi da diporto dalle dimensioni colossali, tanto che risultano essere fra le maggiori costruzioni navali in legno finora conosciute. Si tratta ovviamente delle due gigantesche navi fatte costruire da Gaio Caligola nel lago Nemi, per un utilizzo lusorio e religioso, e conservatesi per 19 secoli in quelle acque, fino a quando furono messe a secco negli anni Trenta e ricoverate in un museo costruito su misura. Nonostante la loro tragica perdita nel corso del conflitto mondiale, i rilievi su di esse effettuati ci hanno comunque fornito dei dati incontrovertibili sullo straordinario livello di perfezione raggiunto dalle costruzioni navali romane e dai relativi allestimenti, tanto pregevoli e raffinati quanto efficienti e tecnicamente avanzati [72].

Questi due colossi, che ci hanno riempito di meravigliata ammirazione, non sono nemmeno citati dalle fonti antiche, poiché furono ben poca cosa a fronte delle fastose deceremi – o deceres Liburnicae – che lo stesso giovane principe utilizzò per le proprie crociere di piacere al largo della Campania. Esse abbagliarono i contemporanei per le loro poppe gemmate, le vele multicolori e per la presenza di triclini, terme, portici e giardini [73].

Ma questo non vuol certo dire che i Romani considerassero che la qualità delle navi coincidesse con il lusso del loro allestimento. Tutt’altro. Come scrisse Seneca [74]:

«La nave che viene giudicata buona non è quella dipinta con colori preziosi, o dal rostro argentato o dorato, né è quella con la divinità protettrice scolpita in avorio, o carica di tesori o di altre ricchezze regali, ma è la nave ben stabile e robusta, con giunture saldamente connesse ad impedire ogni penetrazione dell'acqua, tanto solida da resistere agli assalti del mare, docile al timone, veloce e non succube dei venti.»

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Note:

[ 1] Ne sono rimaste ampie tracce nei maggiori porti romani, quali, ad esempio, Ostia, Porto e Pisa. Ad Ostia, in particolare, essi possedevano una splendida sede sociale (la Schola di Traiano) ed un tempio dedicato al loro culto (il Tempio dei Fabri Navales).

[ 2] Anche il raffronto sommario fra il mondo greco e quello romano evidenzia molte similitudini apparenti, come sembra voler suggerire Plutarco con le sue vite parallele: Teseo e Romolo, Demostene e Cicerone, Alessandro e Cesare, ecc.

[ 3] “Secondo me le opinioni degli antichi sono imprecise e rozze: si vagava ancora qua e là alla ricerca del vero; ... in seguito quelle medesime teorie furono perfezionate” (Sen. nat. 6, 5, 2-3)

[ 4] “Non si metta in dubbio che un progresso continuo esiste, di generazione in generazione” (Plin. nat. 2, 62)

[ 5] “Damaste afferma che la prima bireme fu costruita dagli Eritresi, Tucidide che la prima trireme si deve ad Aminocle di Corinto; la quadrireme, secondo Aristotele, fu costruita per la prima volta dai Cartaginesi; la quinquereme, secondo Mnesigitone, dagli abitanti di Salamina; la nave a sei ordini, secondo Senagora, dai Siracusani; le navi da sette a dieci ordini, secondo Mnesigitone, da Alessandro Magno; quelle fino a dodici ordini, secondo Filostofano, da Tolomeo Soter; quelle fino a quindici da Demetrio figlio di Antigono; quelle fino a 30 da Tolomeo Filadelfo; quelle fino a 40 da Tolomeo Filopatore” (Plin. nat. 7, 207-8).

[ 6] “The demand for more and more, beautiful and useful things, provided the incentive for such technological advances, but other factors also influenced demand and growth, especially transport possibilities in the Mediterranean of the pax Romana” (Robyn Veal, sintesi del saggio "Forest resources and technical innovation in the Roman economy" che verrà presentato nel 2015 al convegno "Capital, Investment, and Innovation in the Rowan World").

[ 7] Il testo di riferimento principale è Domenico Carro, Classica (ovvero "Le cose della Flotta") - Storia della Marina di Roma - Testimonianze dall'antichità, Rivista Marittima, Roma, 1992-2003 (12 volumi). Ulteriori informazioni sono pubblicate in altri testi e nel sito Roma Aeterna (www.romaeterna.org).

[ 8] Secondo Ferdinando Castagnoli, "la venuta di Enea nel Lazio non sarebbe un mito artificiosamente creato, ma invece, in un certo senso, una tradizione: sarebbe cioè l'eco di fatti realmente avvenuti, l'arrivo di genti egee nel Lazio proprio intorno al periodo della guerra di Troia." (da AA.VV., Enea nel Lazio: archeologia e mito, Fratelli Palombi, Roma, 1981, p. 4).

[ 9] “... da Cibele in ninfe furono tramutate, e dee fatte del mare.” (Verg. Aen. 10, 220-222)

[10] “... spesso sorreggono con le mani le navi che rischiano d'affondare” (Ov. met. 14, 559-561).

[11] Queste leggiadre divinità marine sono state spessissimo rappresentate dall’arte romana, perché erano considerate protettrici dei naviganti.

[12] Le pentecontori (o penteconteri) erano navi rostrate lunghe 30 metri, dotate di 50 remi (25 per lato) oltre alla vela. I remi erano disposti su di un solo ordine; vi era un solo vogatore per ogni remo. Queste navi si dimostrarono idonee a compiere anche lunghe navigazioni (Hdt. 1, 163) e furono valutate veloci come le liburne, ma meno delle triremi (Zos. 5, 20).

[13] Maurizio Martinelli, La più antica marineria etrusca, Rivista Marittima, Roma, maggio 2006, pp. 73-85

[14] Pol. 1, 20, 14

[15] Proc. BG 4, 22, 2-3; Filippo Coarelli, Il Foro Boario: dalle origini alla fine della repubblica, Edizioni Quasar, Roma, 1992, pp. 123-127

[16] Liv. 8, 13-14

[17] Oltre ai cantieri navali già realizzati ad Ostia, i Romani devono aver predisposto vari altri cantieri sul Tevere e sui suoi affluenti, per mettersi in condizione di allestire grandi flotte in breve tempo ed al riparo dalla minaccia del nemico. I probabili resti di uno di questi cantieri sono recentemente stati individuati dalla associazione culturale “Porto di Narni, approdo d’Europa” in un canale artificiale che corre parallelo al corso del fiume Nera, non lontano da Narni.

[18] Liv. 9, 30

[19] Lyd. mag., 1, 27

[20] Il progressivo ingrandimento delle poliremi era cominciato all’inizio dell’epoca ellenistica, soprattutto presso i regni dei successori di Alessandro Magno, che giunsero a costruire delle navi gigantesche e sfarzose, più adatte all’ostentazione della potenza che all’effettiva acquisizione del dominio del mare. La maggiore rispondenza delle quinqueremi nelle operazioni navali di ampio respiro si era già intravista fra il V e IV sec. a.C., dai confronti in mare tra Siracusa e Cartagine, ma diverrà palese a tutti solo nel III sec. a.C..

[21] Pol. 1, 20

[22] Frontin. strat. 1, 4, 11; Pol. 1, 11

[23] Pol. 1, 20; Flor. epit. 1, 18, 7; Plin., nat., 16, 192

[24] Il cervellotico corvo (passerella orientabile, larga più di un metro e lunga oltre 10 m) è citato da una sola fonte (non molto convincente su questo punto): Pol. 1, 22. Tutte le altre fonti parlano invece di manus ferreae: Flor. epit. 1, 18, 9: Frontin. strat. 2, 3. 24; Vir. ill. 38, 1

[25] Pol. 1, 23-24; Liv. per. 17; Eutr. 2, 20; Sil.. 6, 663-664. Per gli onori tributati a Caio Duilio, vedasi anche Fast. tr., an. CDXCIII; Plin. nat. 34, 20; Quint. inst. 1, 7, 12; Cic. Cato 13; Flor. epit. 1, 18, 10; Val. Max. 3, 6, 4; Amm. 26, 3. Nella battaglia navale di Milazzo, i Romani privarono i Cartaginesi di 45 navi (31 catturate e 14 affondate).

[26] Pol. 1, 25-28; Oros. 4, 8, 6. Nella battaglia navale di Ecnomo, i Cartaginesi riuscirono ad affondare 24 navi del grande convoglio romano, ma persero quasi un centinaio delle proprie navi da guerra (64 unità catturate dai Romani e più di 30 affondate).

[27] Liv. 42, 20, 1; Pol. 1, 36-39 e 49-55; Eutr. 2, 22-23 e 26; Oros. 4, 9, 5-11 e 10, 3; Diod. 23, 18-19 e 24, 1-4. Per effetto di questi tre naufragi, i Romani persero più di 280 quinqueremi nelle acque di Camarina (255 a.C.), oltre 150 analoghe unità al largo di capo Palinuro (253 a.C.), nonché 120 navi da guerra e quasi 800 onerarie nei pressi di Eraclea Minoa (249 a.C.).

[28] J. H. Thiel, Studies on the history of Roman sea-power in republican times, North-Holland Publishing Company, Amsterdam, 1946.

[29] Pol. 1, 41-47; Diod. 24, 1.

[30] Le due quadriremi erano state condotte da un certo Annibale Rodio, comandante molto abile, e da un suo baldanzoso emulo. La nave di quest’ultimo venne bloccata dai Romani su dei relitti sommersi. Essa fu poi armata dagli stessi Romani per inseguire e catturare quella del Rodio.

[31] Polibio precisa che i Romani “avevano cambiato il metodo di costruzione delle navi e avevano eliminato ogni peso, tranne quello del materiale indispensabile alla battaglia navale”.
Per le caratteristiche della quinquereme romana, si rimanda all'approfondito ed interessante studio di Piero Pastoretto e Umberto Maria Milizia, “Le Quinqueremi”, Edizioni Artecom, Roma, 2008
Secondo tale studio l’unità aveva 60 remi per lato disposti a coppie sfalsate su due ordini; ciascuna coppia di remi era manovrata da una squadra di 5 rematori: 3 per il remo dell'ordine superiore e 2 per quello inferiore. Oltre ai 300 rematori, erano imbarcati 120 classiari (vedi successiva nota 45) e altri 30-40 uomini, fra marinai e servizi vari. Dimensioni stimate dell'unità: lunghezza fuori tutto ~57 m; larghezza 9 m; immersione ~1.50 m; lunghezza remi 8.50 m; velocità 3-5 nodi; spunto 6-7 nodi.

[32] Pol. 1, 61-63 e 2, 27; Eutr. 2, 27; Oros. 4, 10, 7; Diod. 24, 11; Nep. 22, 1, 3; Val. Max. 6, 6, 2; App. Sic. 2; Flor. epit. 1, 18, 37. Con la vittoria navale delle Egadi i Romani privarono i Cartaginesi di circa 190 navi (63 catturate e 125 affondate), perdendone a loro volta solo 12 (affondate).

[33] Caes. Gall. 3, 7-9. Alla guerra Venetica (pilotata dai Veneti transalpini) non contribuirono solo le popolazioni dell’Aremorica (penisole della Bretagna e del Cotentin) ma tutte quelle delle regioni costiere della Gallia settentrionale, fra le foci della Loira e del Reno. Si trattò della più estesa coalizione antiromana mai costituita in Gallia prima della rivolta generale capeggiata quattro anni dopo da Vercingetorige.

[34] Caes. Gall. 3, 13-15. In quella battaglia navale (fine luglio 56 a.C.), le navi romane – sottili, leggere e manovrate a remi – riuscirono ad annientare una poderosa flotta di 220 navi oceaniche galliche, dalle alte murate, dalle robuste fiancate a prova di rostro, e che navigavano a vela spinte da un forte vento in poppa.

[35] Caes. Gall. 4, 20-26. La prima spedizione navale in Britannia si svolse fra il 5 ottobre ed i primi di novembre 55 a.C.. I barbari opposero una feroce resistenza allo sbarco romano, prima scagliando proiettili dalle scogliere di Dover, approdo temporaneo delle navi di Cesare, e poi andando ad accogliere i Romani sulla spiaggia di ciottoli di Deal, per impedire ai legionari di raggiungere la riva.

[36] Le navi da guerra romane effettuarono il tiro contro costa con le macchine da getto per interdire al nemico la possibilità di scagliare le loro armi sui legionari romani che sbarcavano. Nel contempo, le imbarcazioni cariche di classiari navigarono verso la spiaggia per proteggere i soldati in acqua.

[37] Caes. Gall. 3, 13; Strab. 3, 5, 1. Durante la guerra Venetica, Cesare aveva osservato che le navi dei Galli avevano le carene molto più larghe ed alquanto più appiattite di quelle romane, per affrontare meglio i bassi fondali al riflusso della marea e per poter anche posarsi a secco quando la marea si ritirava.

[38] Caes. Gall. 5, 1. Non può sfuggire la singolare analogia fra i requisiti dettati da Cesare e le caratteristiche salienti dei modern mezzi navali adibiti agli assalti anfibi.

[39] Caes. Gall. 5, 2-8. Il secondo sbarco navale in Britannia si svolse ai primi di luglio 54 a.C.. La spedizione oltre-Manica si concluse tre mesi dopo. I Britanni si astennero, negli anni seguenti, dal fornire ulteriori aiuti alle ribellioni dei Galli.

[40] Sesto Pompeo, secondogenito di Pompeo Magno, aveva occupato la Sicilia l’anno dopo la morte di Cesare. Egli esercitò per molti anni la pirateria contro Roma e l’intera Italia, utilizzando ingenti forze navali armate da sbandati e poste sotto il comando di ex capi pirati catturati a suo tempo da suo padre.

[41] Liv. per. 128; Suet. Aug. 16; App., civ. 4, 85 e 5, 80-92. I principali comandanti delle flotte di Ottaviano furono Quinto Salvidieno Rufo nel 42 e Gaio Calvisio Sabino nel 38 a.C..

[42] Marco Vipsanio Agrippa, amico di Ottaviano fin dall'infanzia, aveva allora poco meno di ventisei anni, ed era già uno dei suoi più stretti collaboratori. Egli era però destinato a diventare, non solo il principale consigliere del futuro Augusto, ma anche il suo braccio destro, suo genero (e quindi padre ed avo di molti Cesari), nonché imperatore a sua volta, a fianco dello stesso Augusto.

[43] Flor. epit. 2, 18, 6; Suet. Aug. 16; Vell. 2, 79, 1-2; Cass. Dio 48, 49-51. Il Porto Giulio fu costruito utilizzando due specchi d'acqua naturali, i laghi Averno e Lucrino, che vennero congiunti da un canale navigabile e messi in comunicazione con il mare aprendo nella duna litoranea un passaggio protetto da dighe foranee.

[44] Cass. Dio 49, 1. Oltre ad alcune grandi esaremi (per lo più impiegate come navi sede comando, per Ottaviano e per lo stesso Agrippa), la maggior parte delle nuove unità doveva essere sempre del tipo delle quinqueremi, ma con caratteristiche più rispondenti e con maggiori capacità belliche.

[45] I classiari erano i militi navali combattenti, ovvero l’efficiente anticipazione romana delle moderne fanterie navali, come i nostri fucilieri di Marina (Brigata Marina S. Marco) o i “marines” anglosassoni. Essi provvedevano ad arrembare e catturare le navi nemiche, oltre a condurre sbarchi navali ed operazioni in costa.

[46] Cass. Dio 49, 1. I Romani, peraltro, utilizzavano già delle torri pieghevoli (turres plicatiles) nelle operazioni terrestri, come fece Gaio Cassio Longino (il cesaricida) nel suo assedio di Rodi.

[47] App. civ. 5, 118. L’arpax ci è stato descritto come un arpone di legno rivestito in ferro, lungo oltre 2 metri, munito di una punta uncinata e di due anelli cui erano assicurati dei cavi che venivano alati con degli argani per avvicinare la nave nemica agganciata e portarsi all’abbordaggio.

[48] La propensione degli Illiri per la pirateria era da tempo nota ai Romani che, due secoli prima, avevano condotto la prima guerra Illirica (229-228 a.C.) – prima vittoriosa proiezione delle forze romane oltremare – proprio per reagire ai soprusi inflitti dai pirati ai marittimi romani ed italici. Le navi utilizzate dagli Illiri in quel conflitto ed in quelli che seguirono (220-219 e 168 a.C.) erano soprattutto i lembi, piccole unità molto veloci e manovriere, particolarmente adatte agli agguati ed alle incursioni fra le isole della Dalmazia.

[49] Il porto principale dei Liburni era Senia (odierna Segna, in croato Senj).

[50] Liv. per. 131-132; App. Ill. 16-28; Cass. Dio 49, 38.

[51] Una flotta liburnica era stata utilizzata dai partigiani di Pompeo durante la guerra Farsalica e nel tormentato strascico marittimo della guerra civile.
Inoltre, sappiamo che i Romani avevano già avuto notizia anche di certi natanti arcaici chiamati serilia, che il grammatico Quinto Verrio Flacco (I sec. a.C. - I sec. d.C.) descrive come “navicelle dell'Istria e della Liburnia tenute insieme dal lino e dallo sparto, ed il cui nome deriva dal fatto che sono intrecciate [conserendo] e tessute insieme” (Fest. P509 Th). Dall’analisi di due relitti del III-II sec. a.C. recuperati nel 1979 e 1987 nelle acque dalmate prossime al porto di Enona (in croato Nin) e conservati a Zara, si è valutato che queste serilia fossero delle specie di lance a vela lunghe fino a 8 m, larghe 2,5 – 3 m, e con un pescaggio di 0,4 m. I vari corsi del fasciame risultano cuciti tra loro con cavi passati ad elica nella serie di fori praticati lungo i bordi delle tavole stesse.

[52] Hor. epod. 1, 1; Ps. Acro. epod. 1, 1;

[53] Eleg. Maec. 1, 45-48; Plut. Ant., 67.

[54] Veg., mil. 4, 33. In pratica, Flavio Renato Vegezio, che scrisse verosimilmente nelle prime decadi del V sec. d.C., si mostra convinto che gli imperatori romani avessero iniziato a costruire le loro flotte adottando il modello delle navi dei Liburni perché la battaglia navale d’Azio aveva dimostrato la superiorità di tali unità rispetto a tutte le altre. In realtà le poliremi più grandi delle liburne rimasero in linea ancora a lungo anche in epoca imperiale, perlomeno nelle due maggiori flotte romane, quella di Miseno e quella di Ravenna.

[55] Quella flotta era stata costituita da Druso (figlio di Livia, moglie di Augusto) nel 12 a.C. e potenziata da suo fratello Tiberio nel 4-5 d.C.; entrambi l'avevano usata sia per scopi bellici che per compiere delle memorabili navigazioni esplorative nel mare del Nord. Giulio Cesare Germanico era figlio di Druso e figlio adottivo di Tiberio.

[56] Tac. ann. 2, 6

[57] Quella felicissima operazione venne purtroppo funestata da gravi perdite subite nella navigazione di ritorno a causa di una violenta tempesta. Germanico seppe però reagire ottimamente, contenendo i danni con una immediata operazione di soccorso ed infliggendo poi al nemico un’ulteriore sconfitta.

[58] L’Eufrate era utilizzato quale rapida via di penetrazione dei Romani dal Mediterraneo verso la Mesopotamia, che era contesa con i Parti, in un primo tempo, e poi con i Persiani.

[59] Amm. 23, 3, 9; Zos. 3, 13.

[60] Oltre a quanto desumibile dalle fonti letterarie, basterebbero gli splendidi bassorilievi della colonna Traiana e di quella Antonina per comprendere quale fosse l’aspetto di questi ponti di navi, nonostante la prospettiva inversa e le falsate proporzioni fra uomini e unità navali. Quando dovevano realizzare un ponte di navi su di un grande corso d’acqua, come il Reno, il Danubio o l’Eufrate, i Romani utilizzavano un collaudatissimo procedimento che sfruttava la stessa corrente del fiume per posizionare le singole navi in rapida successione, di modo che a fine manovra esse risultassero tutte ancorate con la prora contro corrente, affiancate le une alle altre e perfettamente allineate (Arr. an. 5, 2; Cass. Dio 71, 3).

[61] Ci è pervenuta l’illustrazione del progetto sul “Codice Oxoniensis Canonicianus class. lat. mis. 378”, edito nel 1436. Tale rappresentazione viene ritenuta sostanzialmente fedele al disegno antico che, eseguito dall'autore stesso o sotto la sua direzione, illustrava l'edizione originale dell'opera.

[62] I Romani conoscevano da diversi secoli sia l’effetto delle ruote a pale nell’acqua, sia i meccanismi con trasmissione del moto mediante ruote dentate. Se ne ha un chiaro esempio nella descrizione vitruviana del misuratore delle miglia percorse in marei (Vitr. 10, 9).

[63] Com’è noto, l’evoluzione delle navi nel basso Impero non seguì il criterio della meccanizzazione. Il problema della difficoltà di reperimento degli equipaggi di rematori favorì invece la scelta di navi dotate di un minor numero di remi e di un maggior numero di alberi per le vele, come nei dromoni.

[64] Per grandezza di navi e volume di carico, la flotta mercantile romana dell’epoca imperiale rimase la maggiore della storia fino al XIX secolo, quando fiorirono le grandi compagnie di navigazione dell’epoca moderna. Vedasi Lionel Casson, Navi e marinai dell'antichità, Mursia, Milano, 1976.

[65] Suet. Cal. 19; Cass. Dio 59, 9. Quel ponte sperimentale, lungo circa 3 miglia nautiche, era costituito da una duplice fila di navi affiancate, al di sopra delle quali correva una larga strada rettilinea, percorribile con dei grandi carri come la via Appia. Esso era stato realizzato per dimostrare le potenzialità romane agli occhi dei Germani e dei Britanni, per dissuaderli dal venir meno ai patti stabiliti.

[66] Plin. nat. 36, 2.

[67] Cass. Dio 59, 28. Quella nave fu effettivamente costruita. Tuttavia il trasporto della celebre opera colossale di Fidia non avvenne, forse perché (lo riferiscono le fonti greche) la nave fu colpita da un fulmine.

[68] Plin. nat. 36, 70. I due maggiori obelischi di Augusto vennero originariamente sistemati nel Circo Massimo e nel Campo Marzio (per la gigantesca Meridiana, detta Horologium o Solarium).

[69] Suet. Claud. 20; Cass. Dio 60, 11; Plin. nat. 16, 202-203 e 36, 70. L’obelisco di Gaio Caligola venne sistemato nel Circo Vaticano (poi detto Circo di Gaio e Nerone) a brevissima distanza dalla collocazione attuale.

[70] Amm. 16, 10, 17 e 17, 4,1-14. La nave è stata descritta dallo storico romano Ammiano Marcellino come una “nave di inusitata grandezza”. Essa era propulsa a vela ed a remi, con un armo di trecento rematori. Costantino l’aveva fatta costruire per imbarcarvi il maggior obelisco di Tebe, che egli destinava certamente alla sua nuova capitale (Nova Roma, ovvero Costantinopoli). L’obelisco era però ancora ad Alessandria alla morte di Costantino (337 d.C.). Venti anni dopo il figlio Costanzo, colpito dalla maestà di Roma, decise di farne omaggio alla Città eterna. Trasportato da Alessandria al Tevere con la predetta nave, anche questo obelisco fu sistemato nel Circo Massimo, come quello di Augusto.

[71] Il naviglio da diporto dell’epoca romana era costituito dalle “lusorie”, navi e altri natanti che i Romani agiati utilizzavano dai pontili delle proprie ville marittime per servizi di utilità e per navigazioni di piacere. Alle lusorie si aggiungevano le miriadi di barche a bordo delle quali nella bella stagione i meno abbienti andavano in mare, sui laghi e sui fiumi, per pescare o per il semplice diletto di navigare, a remi o a vela.

[72] Guido Ucelli, Le Navi di Nemi, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1983; Id., Il contributo dato dalla impresa di Nemi alla conoscenza della scienza e della tecnica di Roma, XLI Riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze - Roma, Settembre 1942-XX, Milano, 1943. Le meraviglie offerte dalle due navi romane di Nemi abbracciano molteplici campi, fra i quali: l'architettura navale, per la robustezza degli scafi – che sostenevano sovrastrutture complesse e pesanti (di cui si sono conservate colonne, pavimenti in marmo e tegole) –, per la perfezione degli incastri e per il rivestimento metallico delle carene; l'attrezzatura marinaresca, per i bozzelli, le carrucole, i timoni e le grandi ancore, inclusa una di ferro a ceppo mobile (analoga alla cosiddetta ancora dell'Ammiragliato, brevettata dai Britannici nel 1851); l'arte, per la raffinatezza delle sculture ornamentali in bronzo; la metallurgia, per la sapiente utilizzazione delle più appropriate combinazioni del rame con il piombo e lo stagno (ed anche con il ferro, per certi chiodi) a seconda dello specifico uso dei singoli manufatti; la meccanica (ruote dentate, piattaforme girevoli su cuscinetti a sfere, ecc.) e l'idraulica (tubazioni, valvole, norie e pompe a stantuffo).

[73] Suet. Cal. 37.

[74] Sen. epist. 9, 2.

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Elenco delle abbreviazioni delle fonti antiche citate

Amm.Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri
App. civ.Appiano Alessandrino, Bella civilia
App. Ill.Appiano Alessandrino, Illyrica
App. Sic.Appiano Alessandrino, Sicula
Arr. an.Flavio Arriano, Anabasis Alexandri
Caes. Gall.Cesare, De bello Gallico
Cass. DioCassio Dione, Historia Romana
Cic. CatoCicerone, Cato maior de senectute
Diod.Diodoro Siculo, Bibliotheca historica
Eleg. Maec.Appendix Vergiliana, Elegiae in Maecenatem
Eutr.Eutropio, Breviarium ab urbe condita
Fast. tr.Fasti triumphales
Fest.Sesto Pompeo Festo, De verborum significatu
Flor. epit.Floro, Epitoma de Tito Livio
Frontin. strat.Frontino, Stratagemata
Hdt.Erodoto, Historiae
Hor. epod.Orazio, Epodi
Liv. Tito Livio, Ab Urbe Condita
Liv. per.Tito Livio, Periochae
Lyd. mag.Giovanni Lido, De magistratibus
Nep.Cornelio Nepote, De viris illustribus
Oros.Orosio, Historiarum adversus paganos
Ov. met.Ovidio, Metamorphoses
Plin. nat.Plinio il Vecchio, Naturalis historia
Plut. Ant..Plutarco, Antonius
Pol.Polibio, Historiarum libri
Proc. BGProcopio di Cesarea, Bellum Gothorum
Ps.-AcroPseudo-Acrone, In Horatium
Quint. inst.Quintiliano, Institutio oratoria
Sen. epist.Seneca, Epistulae morales ad Lucilium
Sen. nat.Seneca, Naturales quaestiones
Sil.Silio Italico, Punica
Suet. Aug.Svetonio, Divus Augustus
Suet. Cal.Svetonio, Caligula
Suet. Claud.Svetonio, Divus Claudius
Tac. ann.Tacito, Annales
Val. Max.Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri
Veg. mil.Vegezio, Epitoma rei militaris
Vell.Velleio Patercolo, Historiae Romanae
Verg. Aen.Virgilio, Aeneis
Vir. ill.ps. Aurelio Vittore, De viris illustribus
Vitr.Vitruvio, De architectura
Zos.Zosimo, Historia nova


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