Rivista bimestrale Voce Romana
n° 12 - novembre-dicembre 2011

Monumenti Navali di Roma (VI)


L'Isola Tiberina


di DOMENICO CARRO


I pirati sono stati presenti nel Mediterraneo fin dalla più remota antichità, poiché le limitate capacità delle navi in servizio prima dell’epoca contemporanea non consentivano di controllare continuativamente tutta la vastità delle distese marine né, pertanto, di reprimere efficacemente le rapine compiute per mare. D’altronde vediamo bene che il controllo dei mari risulta talvolta problematico perfino in questo nostro terzo millennio, nonostante gli avanzatissimi sistemi di sorveglianza navale, aerea e satellitare. In epoca romana la pirateria venne anche finanziata e sfruttata da diversi sovrani ellenistici che intrapresero delle guerre fra il II sec. e la prima metà del I sec. a.C. per tentare di acquisire il dominio dell’Egeo e dell’intera Grecia, difesa dai Romani. Si avvalsero infatti di questo metodo di lotta di tipo terroristico, quale ausilio indiretto alle operazioni delle proprie flotte, il re di Macedonia Filippo V, poi il tiranno di Sparta Nabide, quindi il re di Siria Antioco III, il Grande, ed infine il re del Ponto Mitridate VI Eupatore, anch’egli detto "il Grande", non tanto per la sua statura come reggitore del proprio regno, quanto per la sua efferata crudeltà (motivo per cui si era “mitridatizzato”, temendo – a giusto titolo – che molti dei suoi prossimi lo avrebbero volentieri avvelenato).

Fu dunque soprattutto per impulso di quest’ultimo monarca, spietato e spregiudicato nemico dei Romani in una trentennale serie di guerre, che proliferò nell’intero Mediterraneo la pirateria originata dalle coste della Cilicia. Naturalmente i pirati non assalivano le navi da guerra romane, ma compivano attacchi di sorpresa contro il traffico mercantile che portava gli approvvigionamenti necessari all’Italia e contro le onerarie che assicuravano i rifornimenti logistici alle flotte ed agli eserciti oltremare. La pirateria cilicia fornì inoltre un aiuto a tutte le rivolte degli schiavi e dei gladiatori, alla guerra sociale contro Roma ed alla sedizione di Sertorio in Spagna.

Contro questa minaccia onnipresente e particolarmente insidiosa, i Romani reagirono mediante una serie di guerre navali condotte, in successione, da Marco Antonio l’Oratore (nonno del triumviro) in Cilicia, Lucio Licinio Murena nell’Egeo, Publio Servilio Vatia in Cilicia ed Isauria, Marco Antonio "il Cretico" (padre del triumviro) dalle acque spagnole a quelle di Creta, ed infine i due Metelli nel mari di Sicilia e di Creta. Tuttavia, nonostante i molteplici successi riportati nel corso di tali operazioni, i risultati conseguiti si dimostrarono sempre effimeri, tanto che la virulenza complessiva della pirateria continuò ad accrescersi fino a pregiudicare perfino la sicurezza delle coste del Lazio e l’afflusso dei rifornimenti vitali alla Città Eterna.

Questa era, a grandi linee la situazione sul finire del 68 a.C., quando i Romani, finalmente liberi da pressanti impegni bellici (la guerra mitridatica pareva ormai pressoché conclusa da Lucullo), poterono dedicare tutte le loro migliori risorse alla soluzione del problema. Essi lo fecero davvero in grande stile, adottando per la guerra contro i pirati delle misure assolutamente eccezionali, mai immaginate in precedenza, né mai più ripetute nei secoli successivi. Con la legge denominata "Lex de piratis persequendis" venne conferita a Gneo Pompeo Magno un potere proconsolare della durata di tre anni su di un’area che includeva l’intero bacino del Mediterraneo, con tutti i porti e le coste, fino ad una distanza di 74 km nell’entroterra. Investito di un’autorità superiore a quella dei governatori delle varie provincie, con facoltà di nominare 15 luogotenenti di rango senatorio, di avvalersi della collaborazione di tutti i re e governanti amici ed alleati del popolo romano, di prelevare dall’erario tutto il denaro che ritenesse necessario, di dotarsi di tutte le forze navali e terresti di cui avesse bisogno e di arruolare liberamente i relativi equipaggi, egli poté ben presto contare su 270 navi da guerra, incrementando poi tale consistenza fino ad un totale di 500 unità navali combattenti, oltre a 120.000 fanti e 4000 cavalieri.

La fiducia riposta dai Romani nel nuovo Comandante in Capo aveva solide basi. Pompeo era allora nel pieno della sua maturità (non aveva ancora 40 anni) ed era celeberrimo per le sue splendide vittorie in Africa ed in Spagna, che gli avevano già procurato due volte l’onore del trionfo in età giovanissima. Il popolo vedeva in lui anche una certa rassomiglianza con i ritratti di Alessandro Magno, e questo convincimento era probabilmente rafforzato da quel soprannome di "Magno" che lo stesso Pompeo aveva ottenuto a soli 24 anni, con l'autorevole sostegno di Silla. In ogni caso, proprio nel giorno in cui egli ricevette il comando della guerra piratica, il prezzo del grano calò improvvisamente, nonostante la tremenda scarsità delle scorte, per la forte reazione emotiva dei mercati alla prospettiva di un sollecito ripristino della sicurezza della navigazione.

La realtà superò di gran lunga le più rosee speranze del popolo romano. La grande guerra contro i pirati venne infatti pianificata e condotta da Pompeo in modo magistrale: avendo suddiviso il Mediterraneo in tredici aree, il proconsole inviò in ciascuna di esse un suo luogotenente al comando di una flotta per rastrellarvi tutte le acque; egli stesso con 60 navi percorse l'intero mare, da ponente a levante, e sconfisse infine in battaglia navale nelle acque della Cilicia tutte le navi piratiche che erano sfuggite alla cattura. Avendo vinto quella guerra in meno di tre mesi (primavera-estate 67 a.C.), liberando definitivamente il Mediterraneo dalla pirateria cilicia, egli concluse poi anche la guerra Mitridatica, utilizzando la sua immensa forza navale per controllare le acque orientali del Mediterraneo e del Mar Nero, e poi per il blocco navale della Crimea, ove il re nemico si era rifugiato. Rientrato a Roma al termine della susseguente campagna in Oriente, Pompeo trionfò per la terza volta, "avendo restituito al popolo romano il dominio del mare" (Plin., Nat. Hist. VII, 98).

Come sempre accadde dopo le grandi vittorie conseguite dai Romani, anche la felicissima conclusione delle imprese di Pompeo per mare ed oltremare venne accompagnata da significativi abbellimenti dell'Urbe. Iniziò proprio Pompeo dedicando un nuovo tempio a Minerva con i proventi del bottino, per sciogliere il suo voto alla dea. Lo stesso Pompeo avviò subito dopo la costruzione del suo grandioso teatro nel Campo Marzio: l'edificio, la cui cavea era sovrastata da un tempio di Venere, doveva includere, probabilmente alle spalle della scena, un arco di trionfo in onore delle vittorie sui pirati ed in Oriente. Risulta che anche l'abitazione del trionfatore fosse stata ornata con i rostri delle navi catturate ai nemici, visto che quella casa rostrata di Pompeo esisteva ancora tre secoli dopo, all'epoca di Filippo l'Arabo, quando venne incamerata dal fisco.

Ma l'orgoglio dei Romani per le proprie navi e per i successi ch'esse avevano conseguito sotto il comando di Pompeo, riconsegnando a Roma l'imperium maris, il dominio del mare, traspare ancor più nettamente da un altro fascinoso abbellimento della Città Eterna. Proprio in quegli anni, infatti, all'Isola Tiberina venne conferita quella sistemazione architettonica a forma di nave che rimase una sua caratteristica singolarissima per tutta la durata dell'impero, e di cui si conservano tuttora delle eloquenti evidenze archeologiche.

Quest'isola, di natura alluvionale, doveva essere allora un po' più lunga nella sua punta a monte, quella più prossima al Campo Marzio. Essa era divenuta la sede del tempio di Esculapio dagli inizi del III sec. a.C., quando, in seguito ad una pestilenza, una trireme romana era stata inviata ad Epidauro per prelevarvi il simbolo del dio. Al suo ritorno, mentre la nave stava per rientrare nei Navalia, sulla riva sud del Campo Marzio, il sacro serpente fu visto scendere nel fiume ed andare rifugiarsi sull'isola. In quel luogo fu quindi eretto il tempio del dio della medicina, il cui culto diede all’Isola Tiberina quelle funzioni di luogo di cura che si sono tramandate fino ad oggi.

Con i lavori di risistemazione architettonica del sito, negli anni prossimi al terzo trionfo di Pompeo, l'isola venne consolidata ed abbellita da un rivestimento in peperino e travertino, che, nelle due estremità a valle ed a monte assunsero la forma della prora e della poppa di una enorme nave da guerra. In tal modo, da quel momento ed in tutti i secoli successivi fino al declino della Città in epoca medievale, i Romani poterono vedere ai piedi del Campidoglio, nel cuore dell'Urbe, quell'elegante nave marmorea la cui possente prora rostrata pareva sempre pronta a navigare sul Tevere verso il mare.

© 2011 - Proprietà letteraria di DOMENICO CARRO.

  

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