Rivista bimestrale Voce Romana
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Bruciava molto, al popolo cartaginese, la perdita del dominio del mare, di cui i Romani si erano impossessati vincendo le battaglie navali decisive della prima guerra Punica. Avendo dunque perduto la possibilità di espandersi per via marittima, i Cartaginesi lo fecero per via terrestre, percorrendo tutto il litorale nord-africano dallo stretto di Sicilia alle Colonne d’Ercole, ed insediandosi lungo le coste meridionali della Spagna, ove il giovane Annibale crebbe fra i preparativi della guerra di rivincita contro Roma. Costui, assurto al comando dell’armata punica, proseguì il periplo del Mediterraneo occidentale per via terrestre, procedendo lungo la penisola iberica, varcando i Pirenei, proseguendo nella Gallia meridionale, valicando anche le Alpi e penetrando infine in Italia, ove riuscì ad infliggere alle legioni romane quattro sconfitte di inaudita gravità: Ticino, Trebbia, Trasimeno e Canne. Concentrate nel breve arco di un anno e mezzo (fine 218 - metà 216 a.C.), queste disfatte lasciarono pressoché priva di difese la stessa città di Roma.
Tutti la conoscono questa parte della storia della seconda guerra Punica, che diede ad Annibale una straordinaria fama di grande stratega, anche se il Cartaginese si dimostrò veramente geniale solo nella tattica di quattro battaglie terrestri. La strategia è un’altra cosa: non si sofferma a considerare i risultati immediati - e spesso effimeri - di ciascun confronto sul campo, ma solo quelli a lungo termine, cioè quelli che sono destinati a diventare i fattori determinanti della vittoria finale nella guerra. Sotto quest’ottica Annibale fu un pessimo stratega, dato che la sua onerosa spedizione revanscista in Italia rimase del tutto inconcludente e provocò la sconfitta finale di Cartagine. La strategia vincente fu dunque quella seguita dai Romani; e si trattò di uno dei migliori esempi di grande strategia marittima, tanto che il primo e massimo teorico del potere marittimo, l’americano Alfred T. Mahan, introdusse il suo celebre trattato (The influence of sea power upon history, 1660-1783) con l’esame dei fattori strategici della vittoria romana nella seconda guerra Punica.
Un’analisi più approfondita di quanto poté fare lo studioso d’oltre-oceano porta a riconoscere che il criterio vincente del “temporeggiamento” attribuito a Quinto Fabio Massimo Verrucoso (detto, appunto, il Temporeggiatore) non possa essere interpretato come il semplice controllo del nemico a distanza, evitando la battaglia in attesa del momento favorevole: tutti i condottieri assennati fanno questa scelta. Si trattò invece del riflesso della grande strategia adottata dal Senato in quel conflitto: essa era basata principalmente sul controllo dei mari e delle coste, per irretire progressivamente Annibale, privandolo di ogni possibile aiuto esterno e confidando negli esiziali danni provocati al nemico dal trascorrere del tempo in condizioni di isolamento e di mancanza di rifornimenti.
In effetti vediamo bene che fin dall’inizio della guerra i Romani hanno dedicato le loro migliori energie proprio al dominio del mare. Mentre Annibale marciava verso l’Italia, entrambi i consoli erano imbarcati: uno navigò con una flotta di 60 quinqueremi fino alle foci del Rodano per cercare di intercettarvi il nemico, che era tuttavia passato più a nord; il console inviò quindi la flotta in Spagna contro Asdrubale, fratello di Annibale, mentre egli stesso sbarcò a Genova per affrontare i Cartaginesi in Italia. L’altro console fece rotta verso la Sicilia con una flotta di 160 quinqueremi, occupò l'isola di Malta; poi navigò lungo l'Adriatico e sbarcò a Rimini contro Annibale. Dopo la sconfitta del Trasimeno, il solo console superstite venne inviato con una flotta di 120 quinqueremi a controllare le acque fra la Corsica e le isole africane di Gerba e Cercina, ed a prendere possesso di Pantelleria. Per tutta la durata del conflitto delle flotte romane mantennero il controllo delle acque fra la Sicilia e l’Africa, compiendo numerose incursioni sulla costa nemica e sconfiggendo ripetutamente le flotte puniche.
Nel vasto scenario di quella guerra terribile, in cui sembrava che Annibale potesse assalire direttamente le mura dell’Urbe, i Romani si preoccuparono soprattutto di evitare che Annibale si procurasse un accesso al mare (egli ci provò invano a Napoli, per due volte, a Cuma, a Pozzuoli ed a Taranto, ove riuscì ad occupare la città ma non il porto), rafforzarono il proprio controllo sulle tre isole maggiori, impiegarono le loro flotte, oltre che nelle acque africane, anche nell’assedio navale di Siracusa (divenuta filo-cartaginese e difesa da Archimede), nonché verso le penisole ellenica ed iberica: verso la Grecia, nello Ionio e nell’Egeo, per impedire a Filippo V, re di Macedonia, di portare il promesso aiuto ad Annibale; verso la Spagna, per contrastare le ingenti forze ammassatevi dai Cartaginesi e destinate alla guerra in Italia.
Nel settore iberico le azioni risolutive furono compiute dal giovane Publio Cornelio Scipione che, giunto in Spagna ancora ventiquattrenne (211 a.C.), riuscì ad espugnarvi, con un assalto navale e terrestre, la principale base navale punica, "Nuova Cartagine" (odierna Cartagena), catturandovi un’ottantina di navi e un’ingente quantità di materiale bellico, per poi procedere alla completa estromissione dei Cartaginesi dalla penisola iberica (206 a.C.). Scipione fu poi eletto console e convinse il Senato ad assegnargli il comando di una spedizione in Africa. Radunate tutte le forze necessarie, egli salpò dalla Sicilia (primavera 204 a.C.) con una flotta di 400 navi onerarie scortate da 40 quinqueremi e sbarcò nei pressi di capo Farina, iniziando subito l’assedio navale e terrestre di Utica, per controllare l’accesso al golfo di Cartagine. Due anni dopo, Annibale, richiamato in Africa dai Cartaginesi, venne sconfitto da Scipione nei pressi di Zama (202 a.C.). Il Romano si presentò allora con una flotta di 90 quinqueremi davanti a Cartagine, che richiese infine la pace. Dopo la ratifica del trattato, egli fece portare fuori dal porto circa 500 navi da guerra della flotta punica e le incendiò sotto gli occhi di tutta la popolazione di Cartagine.
Rientrato a Roma, Scipione Africano venne accolto in città con il più grandioso dei trionfi che vi fossero mai stati celebrati (201 a.C.). Una decina d’anni dopo lo stesso Scipione eresse nell’Urbe il primo vero e proprio arco di trionfo, sul tratto terminale del Clivus Capitolinus, la strada che proseguiva la Via Sacra salendo dal Foro Romano al Campidoglio, verso il Tempio di Giove Ottimo Massimo. Da Tito Livio sappiamo che questo monumento era ornato con sette statue dorate e due equestri ed era preceduto da due vasche marmoree, probabile allusione ai mari di Spagna e d’Africa ch’egli aveva dominato. Di quell’arco nulla rimane oggigiorno, ma per noi è come se fosse sempre lì, visto che l’eco del trionfo del sommo condottiero aleggia ancora – insieme al suo elmo – nell’Inno nazionale d’Italia.
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