A chi ha avuto il privilegio, trovandosi a Roma, di salire sul Campidoglio,
può essere capitato di imbattersi, fra l'enorme quantità
di capolavori dell'antichità esposti nei maestosi palazzi dei Musei
Capitolini, in un solenne monumento navale relativo ad un personaggio risalente
a soli quattro secoli fa: Marco Antonio Colonna, il "Trionfatore".
E’ infatti sul colle più sacro dell'Urbe, in quella che è
la più antica raccolta pubblica del mondo, ed in particolare proprio
nella Sala della Lupa, che custodisce i più venerabili cimeli
della storia romana - quali sono l'antichissima Lupa Capitolina
(di ben 25 secoli) ed i bimillenari frammenti dei Fasti Capitolini
e dei Fasti Trionfali -, che la Città Eterna ha voluto onorare
la memoria di quel suo figlio che per ultimo si è splendissimamente
illustrato sul mare, rinverdendo gli allori immortali dei "trionfi
navali" che permisero la diffusione della civiltà romana su
tutte le sponde del mondo antico. La foggia stessa di quel monumento navale,
fiancheggiato da due eleganti colonne rostrate in bassorilievo, suggerisce
al visitatore la naturale affinità fra le imprese marittime di questo
fascinoso esponente di una delle più rinomate casate della nobiltà
romana e quelle dei personaggi di spicco della storia navale dell’antica
Roma: da Caio Duilio e Lutazio Catulo, a Marco Agrippa e Giulio Agricola.
Ed è stato proprio questo il primo incentivo che mi ha portato,
dopo aver a lungo concentrato l’attenzione sul potere marittimo dei Romani
dell’antichità [1], ad indagare sulle gesta di questo Romano più recente ed a presentarne gli aspetti
salienti nell’ambito dell’illustrazione dei grandi ammiragli del XVI secolo.
Tuttavia, al di là delle suggestioni suscitate dalle molteplici
similitudini con il mondo antico, questo breve colpo d’occhio nel singolarissimo
mondo postmedievale ci presenta non pochi aspetti di estrema attualità,
fornendoci inoltre un’ulteriore conferma della perenne validità
delle logiche che governano la gestione del potere marittimo.
Marco Antonio Colonna nacque il 26 febbraio 1535 nel castello di Lanuvio [2] (o Civita Lavinia, secondo la denominazione medievale), residenza baronale di suo padre Ascanio, patrizio romano. Com’era accaduto ai più celebri personaggi del mondo antico, fin dai suoi primissimi giorni si manifestarono dei segni premonitori del suo luminoso destino. Pochi giorni dopo la sua nascita, infatti, un eremita recatosi a visitare la madre, Giovanna d'Aragona, sostenne che si doveva attribuire al neonato il nome Antonio, in considerazione della sua futura grandezza, essendo egli destinato a compiere delle straordinarie imprese ed a divenire il capo della casa Colonna [3]. Fu così che sua madre, pur impressionata da quella profezia (quello era il suo sesto figlio, ed era quindi ben lontano dal diritto di primogenitura), lo chiamò Antonio, con il prenome Marco in armonia con le tradizioni familiari.
Il giovane Marco Antonio scoprì il suo amore per il mare in occasione delle sue numerose escursioni al porto di Nettuno, piazzaforte marittima che rientrava nei possedimenti del padre e che era stata da alcuni decenni poderosamente fortificata a cura di Antonio da Sangallo. Per avere un’idea su quel periodo, potrebbero essere d’ausilio alcuni passi del romanzo storico di Mario Granata [4]: "Rotto alle fatiche del remo e del timone, il giovane Marco Antonio si avventurava, talvolta anche solo, su fragile legno in mare aperto; ed ancora più volentieri partiva per la pesca facendo vita in comune con i rozzi marinai, facendosi narrare con inestinguibile desiderio le storie delle guerre contro i pirati". Sua madre "aveva fatto l’abitudine a quelle fughe, e più non s’impressionava; sapeva il figliolo audace e rischioso, ma sapeva pure che tutti a Nettuno avrebbero data la vita per salvaguardare quella del giovane signore".
A diciott’anni, egli partecipò alla guerra intrapresa dal Viceré
di Napoli per liberare Siena dall’occupazione francese e riportarla sotto
l’autorità dell’Imperatore (Carlo V). Al termine delle operazioni
(1554), condusse i suoi uomini al castello di Paliano, e si impossessò
di quel feudo, avendo appreso che suo padre intendeva cederlo. Poco dopo
il padre morì, ma egli poté beneficiare solo per breve tempo
dei suoi possedimenti nel Lazio. Questi gli vennero infatti confiscati
dal Pontefice, Paolo IV, che per primo vi istituì un ducato territoriale
(1556) conferendo al nipote Giovanni Caraffa il titolo "Duca di
Paliano" [5]. Come se non bastasse,
Marco Antonio venne anche scomunicato dallo stesso Pontefice per aver avviato
un tentativo di riconquista delle proprie terre. Egli partecipò
quindi alla guerra condotta dalle forze imperiali e napoletane contro Paolo
IV per costringerlo a rompere l’alleanza recentemente stretta con il re
di Francia: egli stesso concorse alla presa dei porti di Nettuno e di Ostia,
e giunse infine alle porte di Roma; ma nemmeno la capitolazione del Pontefice
(1557) fu sufficiente a fargli rendere giustizia. Egli dovette pertanto
attendere la morte di Paolo IV (1559) per recuperare la maggior parte delle
sue terre, e la benevolenza del nuovo Pontefice, Pio IV, per ottenere tutti
i diritti anche sul ducato di Paliano (1562).
Poco dopo aver ripreso il controllo di tutti i suoi beni, Marco Antonio Colonna, ora Duca di Paliano, volle avvalersi del possesso del porto di Nettuno per dotarsi sollecitamente di una propria flotta, al fine di poter contrastare efficacemente la minaccia dei pirati. In quei tempi, infatti, costoro riuscivano a penetrare impunemente nel Tirreno, pregiudicando la sicurezza delle relative rotte marittime, e si erano talvolta spinti ad effettuare qualche sanguinosa scorreria anche sulle coste della Campania e del Lazio.
Le prime tre unità che entrarono a far parte della flotta di Marco Antonio furono la Capitana, la Colonna (già Borromea) e la Fenice (già Padrona): si trattava di tre galee che erano state precedentemente armate dal conte Federico Borromeo per ordine del Pontefice e che, essendo state più recentemente ereditate dal cardinale Carlo Borromeo, vennero da questi cedute, complete di armamento, al prezzo di 36000 scudi d’oro. Per completare il proprio progetto navale, Marco Antonio acquisì poi altre quattro galee e fece eseguire nel porto di Nettuno dei lavori di ampliamento e di adeguamento alle necessità logistiche della sua piccola flotta. Infine egli si predispose all’azione: non era infatti suo intendimento lasciare quelle navi inattive in porto; egli avrebbe "navigato con quelle in Spagna e in Africa, fatta la impresa del Pegnone, ed altre onorate navigazioni che pur gli storici ricordano e i documenti della sua casa ampiamente descrivono" [6].
Quella del Pegnone, in particolare, fu un’impresa di vasta risonanza, essendosi trattato di un’operazione navale multinazionale condotta, sotto gli auspici del Re di Spagna, al fine di sloggiare i pirati dalla rocca del Pegnone, una fortezza posta sull’omonimo isolotto roccioso (Peñón de Vélez de la Gomera) della costa africana, nei pressi dello stretto di Gibilterra. L’impresa, già tentata nel 1563, venne riavviata in grande stile nell’estate 1564 [7] sotto il comando di don Garcia di Toledo, Generalissimo del Mare: i maggiori partecipanti alla flotta della coalizione latina erano, oltre alla Spagna (presente con 15 galee): Genova (12 galee), Napoli (11), la Sicilia (11), la Toscana (10), il Portogallo (8) e Marco Antonio Colonna (con l’intera sua flotta di 7 galee) [8]. Quest’ultimo era salpato da Genova il 16 luglio e, dopo aver effettuato un breve scalo per rifornimenti a Villafranca il 22 luglio, aveva condotto le sue navi nel porto di Malaga, luogo di raduno della flotta multinazionale. In sua rappresentanza presso il Comando generale, egli inviò, su richiesta di don Garcia, il proprio luogotenente Giorgio Grimaldi, comandante stimato e di grande esperienza [9]. La spedizione partì da Malaga il martedì 29 agosto, dopo cena, alla volta dell’Africa, ove giunse il 31 agosto. L’imponenza dello schieramento navale europeo dissuase i pirati barbareschi dall’opporre qualsiasi resistenza sul mare. Sbarcati i reparti terrestri alla Torre d’Alcalà, le forze della coalizione diedero l’assalto alla rocca del Pegnone, con il sostegno del bombardamento navale contro costa, e riuscirono in breve tempo ad espugnare la fortezza, che capitolò il martedì 5 settembre, a distanza di una sola settimana dall’inizio della missione. Tutti i prigionieri vennero ridotti in schiavitù [10]. La spiccata audacia e combattività evidenziate dalle navi e dagli uomini della flotta di Marco Antonio Colonna, sempre in prima linea nelle azioni di assalto, furono oggetto di calorose parole di compiacimento scritte dal re di Spagna allo stesso Duca di Paliano dopo la conclusione dell’operazione; quale tangibile segno di gratitudine, inoltre, quel monarca gli concedeva, per il sostentamento della flotta, "la libera tratta di frumento da tutte le terre del regno" [11].
Dopo poco tempo, tuttavia, il condottiero romano reputò conclusa
l’esperienza maturata con la propria flotta personale, essendosi certamente
reso conto dei limiti insiti in tale strumento: la sua flotta, infatti,
pur avendo le massime dimensioni ragionevolmente sostenibili con le risorse
di cui egli disponeva, non poteva fargli attribuire che un ruolo marginale
nell’ampio scenario della lotta che l’Occidente doveva continuare a sostenere
per contenere il dilagare delle flotte ottomane e barbaresche nel Mediterraneo.
Pertanto, in attesa di qualche più promettente occasione, egli optò
per la cessione delle sue navi, che gli avevano ormai già consentito
di acquisire, in mare, una buona notorietà.
Nei due anni seguenti, l’aggressività dell’impero ottomano si manifestò con crescente virulenza: nel 1565 l’isola di Malta venne attaccata da una flotta ottomana costituita da 160 galee e 50 unità minori e supportata da ulteriori navi condotte dai pirati, e riuscì a salvarsi solo grazie alla strenua resistenza opposta per quattro mesi dal gran maestro Giovanni Valletta e dai suoi Cavalieri, fino all’arrivo dei soccorsi recati dalla flotta napoletana; a distanza di un anno, un’altra flotta ottomana di 100 galee si impossessò dell’isola di Chio, appartenente ai Genovesi, e si spinse poi ad attaccare le isole Tremiti e il porto di Pescara ed a saccheggiare la costa marchigiana. Data la gravità della situazione, Marco Antonio Colonna si mise a disposizione del nuovo Pontefice, Pio V, che lo inviò a "svolgere delicati compiti diplomatici presso la Serenissima" [12]. Venezia era infatti la prima potenza marittima europea del Mediterraneo e, per l’estensione del suo dominio nel bacino orientale, disponeva di un osservatorio privilegiato nei confronti dell’espansionismo ottomano, ch’essa seguiva con vigile attenzione e non senza preoccupazioni. Tali preoccupazioni si accrebbero sensibilmente proprio a partire da quell’anno (1566), poiché, alla morte di Solimano, venne posto a capo dell’impero ottomano suo figlio Selim, che, dopo aver lamentato le scorrerie effettuate dai Cavalieri di Malta presenti a Cipro, finì con l’intimare a Venezia la cessione di quell’isola; per non lasciar dubbi sulle sue intenzioni, egli fece poi sequestrare tutte le navi veneziane che commerciavano nei porti turchi (gennaio 1570) ed innescò l’ostilità delle popolazioni bosniache contro la Dalmazia e dei pirati contro i Veneziani. La Serenissima si predispose pertanto alla guerra in difesa dei suoi legittimi possedimenti, e, quando la flotta ottomana diede l’avvio agli assalti contro Cipro, richiese l’aiuto del Pontefice e degli altri sovrani [13].
Pio V aderì prontamente e senza riserve alla richiesta, e volle impegnare le proprie risorse per costituire una flotta romana da inviare in aiuto ai Veneziani, in modo da promuovere, con l’esempio, l’aggregazione di una salda lega navale latina contro i Turchi. A tal fine, egli si affidò ancora a Marco Antonio Colonna, e, dopo avergli conferito il titolo di "Principe e Duca di Paliano" [14], lo nominò ammiraglio della costituenda flotta ("Praefectus Classis nostrae") da opporre ai Turchi "affinché, congiunte tutte le forze nostre, più facilmente si possa respingere l’impeto del furente nemico" [15]; e con solenne cerimonia gli consegnò, in quello stesso giorno (11 giugno 1570), il rosso Stendardo della Lega, recante il fatidico motto costantiniano ("in hoc signo vinces") [16].
Marco Antonio si impegnò con straordinario dinamismo per ottenere
un sollecito allestimento della nuova flotta e per la costituzione dei
relativi stati maggiori ed equipaggi: fece acquisire a Venezia otto scafi
di galea vuoti e li fece completare ed allestire nel porto di Ancona; si
recò egli stesso a Venezia, ove ottenne che venissero riattate per
lui anche quattro vecchie galee giacenti nell’Arsenale, fra cui la quadrireme
del Fausto [17] ch’egli poi utilizzerà
come propria nave ammiraglia; convocò i dodici migliori esponenti
della nobiltà romana e, dopo aver prescelto fra di essi il proprio
comandante di bandiera, assegnò agli altri, mediante sorteggio,
il comando delle rimanenti unità; procurò i marinai, i rematori,
la fanteria navale, le armi e le munizioni; diede precise istruzioni per
il vestiario ed i viveri. Infine, il 22 luglio salpò da Venezia
con le quattro galee dell’Arsenale e le condusse ad Ancona, ove all’inizio
di agosto, cioè meno di due mesi dopo l’avvio dell’impresa, l’intera
nuova flotta di 12 galee fu "pronta alla vela"
[18]. Con essa egli prese il mare per portarsi ad Otranto,
ove diede fondo il 6 agosto.
Per difendersi dalla violenta aggressione ottomana, la Serenissima aveva armato ben 144 unità navali combattenti (126 galee, 1 galeone, 11 galeazze e 6 navi): questa flotta, comandata dall’ammiraglio Girolamo Zane, aveva inizialmente operato nelle acque della Dalmazia e delle isole veneziane dello Ionio per rimuovervi ogni minaccia nemica, e si era poi portata a Creta in attesa dei rinforzi preannunciati dal Pontefice e da Filippo II, re di Spagna. Quest’ultimo, infatti, pressato dalle insistenze di Pio V, aveva promesso l’invio di 49 galee già presenti in Italia (12 genovesi, al soldo del re di Spagna; 37 napoletane, siciliane e spagnole) e comandate da Giannandrea Doria, che doveva sottoporsi agli ordini ed allo Stendardo dell’ammiraglio romano. Tale aspetto suscitò a Roma la massima soddisfazione e determinò a Venezia l’immediata decisione dogale di porre anche il proprio ammiraglio, con la sua poderosissima flotta, agli ordini del Romano [19].
Marco Antonio Colonna decise pertanto di attendere ad Otranto l’annunciato imminente arrivo di Giannandrea Doria, quindi congiungersi prontamente con i Veneziani a Creta, per poi dirigere verso Cipro con tutta la celerità richiesta dall’emergenza in atto. Ma il Genovese, salpato da Messina il 12 agosto, giunse ad Otranto solo il 20; poi, rallentando con vari pretesti i successivi movimenti, fece sì che il congiungimento delle forze nella baia di Suda non avvenisse prima del 31 agosto, e che le forze navali riunite - finalmente partite da Suda - si attardassero nelle acque della punta orientale di Creta dal 11 al 17 settembre.
Giannandrea Doria si limitava ad attenersi puntigliosamente a certe segrete istruzioni ricevute dal re e che lo invitavano, in sostanza, ad obbedire agli ordini del Colonna "quando gli pareva, e portar così grande aiuto ai Veneziani in Cipro quanto ne aveva portato suo zio alla Prevesa" [20], cioè nessuno (con riferimento, ovviamente, al comportamento defilato assunto dal pur grandissimo Andrea Doria [21] in occasione di quella battaglia navale del 1537 che avrebbe dovuto sfociare in una schiacciante vittoria della prima Lega contro i Turchi). In realtà, va osservato che le preoccupazioni e le conseguenti linee d’azione del re di Spagna erano obiettivamente molto diverse da quelle della Serenissima: quest’ultima "metteva sul tavolo tutto il suo avere, a rischio di perdere ogni cosa o di raddoppiare la posta; il re una piccola parte in ogni evento, a rischio di poca perdita e con speranza di minor guadagno" [22]. In effetti, mentre le responsabilità di Venezia si estendevano prevalentemente nel bacino orientale del Mediterraneo, la Spagna era soprattutto orientata a consolidare il proprio controllo in quello occidentale. Inoltre, per effetto dei conflitti di interessi che hanno sempre condizionato le relazioni fra le Potenze, alla Spagna non poteva dispiacere lasciare che i Veneziani permanessero attanagliati dalle loro crescenti difficoltà. In tale situazione, gli inevitabili attriti provocati dalle speciose difficoltà sollevate da Giannandrea Doria rischiavano di provocare una frattura insanabile che avrebbe fatto naufragare il progetto di ricostituzione della Lega perseguito dal Pontefice. Il compito di Marco Antonio Colonna andava quindi interpretato nel ricercare ogni possibilità di portare soccorso a Cipro in tempo utile, assicurando comunque che l’operazione navale congiunta si sviluppasse e venisse portata a termine senza alcuna traumatica dissociazione, dovendosi prioritariamente salvaguardare la possibilità di conseguire – con l’unione delle forze nella costituenda Lega - qualche risultato decisivo nei confronti dell’espansionismo ottomano.
L’ammiraglio romano, pertanto, si prodigò per superare tutte
le obiezioni, per esaudire tutte le richieste, fornendo al Genovese le
più ampie garanzie nel campo della sicurezza e della logistica,
e provvedendo con paziente attenzione e con oculata azione di coordinamento
a replicare ad ogni provocazione con risposte ferme, pacate e costruttive
[23]. Così facendo, egli riuscì a mantenere
una parvenza di concordia fra i partecipanti, ad inviare 4 galee in avanscoperta
a Cipro ed a portare la forza navale mutinazionale fino alle acque
delle isole Chelidonie (a sud della Licia, a circa di 140 miglia da Cipro)
ove il maltempo lo costrinse a cercare ridosso nella notte del 21 settembre.
Avendo appreso, dalle quattro sue galee ritornate il giorno dopo da Cipro,
che la città di Nicosia era caduta in mano turca fin dal precedente
9 settembre, ed avendo recepito il parere dell’ammiraglio veneziano Girolamo
Zane che reputava decaduta la possibilità di conseguire qualche
utile risultato contro gli occupanti, egli decise, di comune accordo con
lo stesso Zane ed il Doria, di invertire la rotta e di recarsi ad effettuare
un colpo di mano contro i porti di Valona e Durazzo, scarsamente difesi
dai Turchi. Ma nemmeno questo fu possibile per il prematuro disimpegno
di Giannandrea Doria (il 26 settembre, nelle acque di Scarpanto) e per
i molteplici danni e naufragi provocati dalle pessime condizioni del mare
incontrate lungo la rotta nell’Egeo (con sosta alla Canea nei primi di
ottobre per riparare i danni e per predisporre le provvigioni per Famagosta),
nello Ionio (con sosta a Corfù, ove i Veneziani su fermarono nell’ultima
decade di ottobre per svernare) e nel basso Adriatico (con ridosso a Cattaro
- ove la nave ammiraglia di Marco Antonio Colonna venne incendiata da un
fulmine -, a Ragusa Vecchia e poi nei pressi di Ragusa). Ospitato con grandi
onori dai Ragusei, egli riprese il mare solo dopo aver ricostituito le
proprie forze; approdato infine ad Ancona, fece ritorno a Roma all’inizio
di gennaio 1571, accolto a braccia aperte dal Pontefice, che gli espresse
la sua piena soddisfazione e la sua gratitudine per la felice condotta
di quella difficile e delicata missione [24].
Tutte le relative vicissitudini erano infatti perfettamente note a Roma,
così come a Venezia ed a Madrid: ciò in quanto l’ammiraglio
romano aveva provveduto, durante tutto il corso dell’operazione, al sistematico
invio di frequenti e particolareggiate relazioni alla Sede pontificia ed
al re di Spagna, lasciando all’ammiraglio veneziano – con cui l’intesa
era perfetta – il compito di mantenere informata la Serenissima. Quelle
relazioni, rispettivamente scritte in italiano ed in spagnolo, sono tuttora
conservate [25] e consentono di pienamente
apprezzare le doti ed il coraggio morale dell’estensore, ed in particolare
la sua leale e trasparente schiettezza, appena ingentilita dalla correttezza
formale e dalla naturale eleganza stilistica, nonché la lucidità
della sua analisi, unita ad una sicura percezione delle priorità
nella condotta delle operazioni marittime.
Le trattative per la formale costituzione della nuova Lega contro i Turchi, avviate a Roma fin dal 1° luglio dell’anno precedente (prima ancora che le tre flotte si congiungessero per la missione navale verso Cipro), si protrassero fino al febbraio del 1571, quando venne affrontato l’ultimo e più spinoso argomento: quello del comando delle forze congiunte. è ben noto che l’intransigenza della posizione spagnola fece accettare ai Veneziani la designazione di don Giovanni d’Austria, il giovane fratello naturale di Filippo II, quale comandante supremo delle forze - navali e da sbarco - della Lega. Marco Antonio Colonna venne quindi nominato vice-comandante, destinato fra l’altro a sostituire il comandante in sua assenza. è curioso rilevare che il capo della delegazione spagnola, il cardinale Granuela, giudicò irragionevole l’aver nominato vice-comandante l’ammiraglio romano che portava solo 12 galee [26], mentre venne trascurata, nella nomina del comandante, la ben più vistosa sproporzione fra l’enorme flotta della Serenissima e tutte le altre. Lo stesso personaggio determinò una grave frattura quando, nel pieno delle solenne cerimonia organizzata il 7 marzo per la ratifica ufficiale del trattato, annunciò che l’entrata in vigore della Lega avrebbe dovuto essere rinviata di un anno per dar tempo alla Spagna di approntare la flotta come convenuto. I Veneziani non potevano accettare quella dilazione, tenuto conto della disperata situazione di Famagosta (ultimo baluardo di resistenza all’assedio turco nell’isola di Cipro) e della minaccia della flotta ottomana che incombeva anche su Creta e sulle altre isole del dominio veneto: essi rinviarono pertanto ogni decisione al Senato della Serenissima.
Anche se ogni ragionevole possibilità d’intesa risultava, in quelle condizioni, irrimediabilmente compromessa, Marco Antonio Colonna venne inviato dal Pontefice a Venezia nell’intento di ricercare qualche residuo spiraglio attraverso cui riaprire la laboriosa trattativa. I risultati di quella determinante ambasceria furono superiori alle più ottimistiche aspettative. L’ammiraglio romano impegnò tutto il prestigio di cui godeva presso i Veneziani per ammorbidire il loro rancore, mettendoli in guardia sul "danno che apporterebbe per sempre il perdersi la speranza di detta salutifera unione", rassicurandoli sulla possibilità che il re di Spagna inviasse comunque – fin dall’anno in corso – un discreto numero di unità, e convincendoli infine della necessità di ricostituire quella Lega che, avvalendosi del porto di Messina quale base navale ottimale (per capienza, sicurezza e posizione strategica) e schierando una forza navale del tutto adeguata, consentiva di sperare in un successo "grandissimo" contro il Turco, "prima nelle cose di mare, le quali sono d’infinita importanza" [27].
Avendo poi provveduto a far appianare le ultime difficoltà, anche finanziarie, nelle relazioni fra la Serenissima e gli Spagnoli, egli rientrò a Roma ove, il successivo 25 maggio, venne finalmente formalizzata la costituzione della nuova "Lega perpetua, offensiva e difensiva, contro il Turco e suoi dipendenti". Il trattato prevedeva, in particolare, che il comandante supremo dovesse "eseguire le deliberazioni comuni" prese dai tre ammiragli (romano, veneziano e spagnolo) "dei confederati; e quello che sarà parere di due s’intenda essere deliberazione di tutti" [28].
Per l’approntamento della sua flotta, Marco Antonio Colonna ottenne che le nuove galee gli venissero consegnate dal Granduca di Toscana, in modo da non gravare ancora sui Veneziani che già dovevano effettuare per sé stessi uno sforzo di eccezionale rilevanza. Dopo aver armato e rifornito le navi, assegnato i comandi e completato tutti i preparativi con la consueta celerità, egli salpò da Civitavecchia il 21 giugno con una flotta di 18 unità navali (12 galee e 6 fregate) e la portò prima a Napoli (24 giugno) e successivamente – poiché don Giovanni tardava - a Messina (20 luglio). Appena giunto nel porto siciliano, avendo appreso che la flotta turca si stava frapponendo tra le due divisioni veneziane dislocate a Corfù ed a Creta, fece segnalare il pericolo all’ammiraglio Sebastiano Venier (che aveva sostituito Girolamo Zane), raccomandandogli di far salpare al più presto entrambe le divisioni e di farle dirigere per Messina aggirando la forza navale nemica. Così facendo, una metà della flotta della Serenissima (quella proveniente da Corfù) poté felicemente ricongiungersi con quella romana fin dal 23 luglio. Per un mese, in attesa di don Giovanni, l’ammiraglio romano esercitò le funzioni di comandante supremo, impiegando le galee romane e veneziane in varie missioni operative e logistiche nell’area (inseguimento di pirati alle Eolie, imbarco di milizie navali a Palermo, prelievo di vettovaglie a Milazzo e di vino a Reggio) e mantenendo con equilibrio il controllo della disciplina degli equipaggi, spesso innervositi dall’attesa e dalle immancabili rivalità con i soldati del presidio spagnolo [29].
A partire del 23 agosto, giorno di arrivo di don Giovanni d’Austria con la flotta del re di Spagna, si trovarono riuniti a Messina i tre ammiragli confederati: fin dall’inizio i maggiori esponenti di quella flotta si dichiararono convinti della necessità di evitare il confronto diretto con i Turchi, che essi reputavano invincibili in mare. Tale approccio venne aspramente criticato da Marco Antonio Colonna, che non poteva ammettere che essi andassero "contro il comune interesse facendo così gran conto della flotta nemica per il numero delle vele, pur trattandosi in gran parte di fuste e di vascelli piccoli; e facendo così poco conto della flotta nostra, che include 210 galee, 6 galeazze e 30 navi, tanto che non so quando mai se ne costituirà un’altra pari a questa. Io potrei quietarmi e lasciar fare a chi tocca, ma non devo … ed il mio voto sarà sempre che si combatta" [30]. Quando la questione venne ripresa in esame, il 10 settembre (una settimana prima si erano ricongiunte anche la divisione veneziana proveniente da Creta e le 10 galee di Giannandrea Doria), le stesse ragioni vennero sostenute dall’ammiraglio romano e da Sebastiano Venier, e, "bastando già i due voti secondo i capitoli della Lega a dar legge al terzo, ridussero don Giovanni (quantunque perplesso tra l’osservanza del fratello e gli stimoli della gloria) ad inclinare il suo voto in favore della battaglia" [31]. Finalmente, il 16 settembre l’intera forza navale della Lega salpava da Messina per assolvere la sua missione.
Durante la navigazione di avvicinamento al nemico, la notte del 3 ottobre, giunsero a bordo le tragiche notizie della caduta di Famagosta e dell’orrendo supplizio subito dall’eroico difensore di quella piazzaforte, Marco Antonio Bragadino, scorticato vivo dai Turchi [32]. Lo sconcerto suscitato da quei fatti acuì la tensione fra Veneziani e Spagnoli e sfociò in deplorevoli incidenti, tra cui uno che rischiò di compromettere nuovamente la sopravvivenza della Lega. Sebastiano Venier, infatti, volle punire in modo esemplare, mediante impiccagione, un certo capitano che, essendo imbarcato su di una nave veneziana alla testa di un contingente spagnolo, aveva commesso delle gravi infrazioni alla disciplina. Poiché gli Spagnoli - gravemente risentiti per l'offesa recata a don Giovanni, che non era nemmeno stato consultato – parevano intenzionati a vendicare il loro uomo con azioni di giustizia sommaria, l’ammiraglio veneziano schierò la sua flotta come per il combattimento. Toccò ancora una volta a Marco Antonio Colonna placare gli animi, richiamandoli all’esigenza di coesione contro il vero nemico, e sanare la frattura fra il giovane don Giovanni, che pretendeva delle formali scuse, e l’anziano e coriaceo Venier, che non si sarebbe mai piegato. Avvalendosi della sua confidenza con i Veneziani e del suo credito ed ascendente nei confronti di don Giovanni, il Romano riuscì a comporre la crisi con uno stratagemma: convinse il Veneziano a non mostrarsi, quando in vicinanza di navi spagnole, per evitare qualche schioppettata da chi aveva giurato di ucciderlo; assicurò quindi a don Giovanni che Sebastiano Venier era pentito e che, a riprova della sua deferenza e delle sue buone intenzioni, se ne sarebbe stato per qualche tempo in disparte, senza farsi vedere. Pare che lo stesso Marco Antonio abbia poi voluto svelare quel suo trucco ad entrambi, dopo che la vittoria ebbe rasserenato gli animi [33].
E veniamo dunque al fatidico 7 ottobre 1571, giorno della grande vittoria navale, a cui i recalcitranti consiglieri di don Giovanni vennero trascinati – secondo la singolare similitudine adottata da Bartolomeo Sereno, diretto testimone di quegli eventi – "come bisce tirate a forza d’incanto" [34]. Allo scontro parteciparono, nella forza navale della Lega, 207 galee, di cui 105 della Serenissima (che portò anche le sue poderose 6 galeazze, copertesi di gloria proprio a Lepanto), 12 di Roma, 3 della Savoia, 3 di Genova, 3 di Malta e 81 sotto le bandiere del re di Spagna (31 spagnole, 19 napoletane, 4 siciliane, 12 genovesi portate dai Doria ed altre 15 assoldate in varie parti d’Italia). Da parte turca, 220 galee e 60 fuste [35]. Ma non proseguo oltre nella descrizione della battaglia, troppo nota e troppe volte reinterpretata per necessitare di una ulteriore versione. Mi limito solo a riportare la testimonianza diretta di Marco Antonio Colonna, traendo qualche riga da alcune lettere ch’egli scrisse, a caldo, dopo l’evento: "essendo certi che il nemico fosse a Lepanto, ci avviammo in quella direzione; al sorgere del sole venne avvistata la flotta turca che, reputandosi forte e fortunata, veniva ad incontrarci. La nostra flotta, col gran valore e somma prudenza del signor don Giovanni, assunse la formazione mettendo avanti le sei galeazze, e così ci scontrammo verso le ore 18, e per cinque ore continue si combatté: infine si ottenne la desiderata vittoria" [36].
"Dalla mia nave ammiraglia si è fatto quanto più non si poteva: poiché oltre all’aver sostenuto il maggior impeto della flotta nemica che seguiva la propria ammiraglia (combattuta da don Giovanni e da me, e congiuntamente catturata), vennero ad investirmi un’altra buona galea di prora, con una galeotta di fianco, ed una galea da poppa che uccise alcuni vicino a me, senza tuttavia recare danni né a me né allo stendardo di Sua Santità" [37]; "il combattere mi è parso riposo agli altri intrighi" [38].
"Ho valide ragioni – non solo per la costituzione della
Lega, ma anche per la conservazione di essa e per aver fermamente sostenuto
che si dovesse combattere la flotta nemica – per potermi arrogare
il merito d’aver superato infinite difficoltà ed essere pervenuto
a questo memorabile risultato" [39].
Dopo la battaglia navale, mentre il Turco fuggiva per riportare a Costantinopoli le poche navi che si erano salvate (25 galee e 20 galeotte), i vincitori si spartirono la preda secondo le prestabilite proporzioni: in particolare, delle 130 navi catturate, Marco Antonio Colonna ne ottenne 21, di cui 8 vennero date dal Pontefice al Granduca di Toscana, mentre le altre 13 rimasero alla flotta romana. Poi, dopo aver sostato a Corfù (ove si fermò Sebastiano Venier, il 23 ottobre, per poter compiere qualche altra impresa in Adriatico), a Messina (ove si fermò don Giovanni, il 1° novembre, per svernare in quel porto su ordine del re) ed a Napoli (il 13 novembre), avviò la sua flotta per il rientro a Civitavecchia (ove essa giunse il 23 novembre) mentre egli stesso si ritirò nel suo castello di Marino in attesa delle decisioni che in quei giorni stavano maturando a Roma [40].
Infatti, "il Senato ed il Popolo Romano stavano meditando di riceverlo, nel suo ritorno in Roma, con quell’onore che stimavano convenire al suo grande merito; … determinarono di apparecchiare, a questo fortissimo e prudentissimo vincitore, un trionfo che, essendogli tributato per la maggiore vittoria fra quante ne abbiano mai ottenute i cristiani, non fosse stato inferiore, per splendore di apparato e per fasto, a nessuno di quelli che siano mai stati celebrati dagli antichi imperatori sullo stesso Campidoglio" [41]. Quando si rese conto di quello che i Romani stavano preparando, l’ammiraglio romano cercò di fermare quella iniziativa rivolgendosi sia al Popolo Romano che al Pontefice, ma invano. L’entusiasmo popolare, esploso fin da quando erano giunte le prime notizie sulla vittoria (il 23 ottobre), era incontenibile, così com’era profonda la commozione del Pontefice, che, nutrendo a quel punto delle nuove e più ampie speranze, si affrettò a sollecitare gli altri sovrani ad entrare nella Lega [42].
Il Consiglio del Popolo Romano [43], che aveva già espresso (decreto del 30 ottobre) la volontà di onorare la vittoria "in questo conflitto navale, la quale è tale e tanta, che da molte centinaia di anni addietro non si legge esser mai stata intesa", decretò (sedute del 19 e 20 novembre) che si dovesse accogliere Marco Antonio Colonna, nel suo rientro a Roma, organizzandogli un corteo trionfale con la partecipazione delle più alte cariche cittadine, dei festeggiamenti in Campidoglio ed una iscrizione commemorativa nell’Aracoeli. I particolari della cerimonia (Ordine di entrata [44], con il percorso prolungato fino al Vaticano e l’articolazione del corteo) vennero poi definiti e messi a punto attraverso successive consultazioni con il Pontefice, che volle introdurre alcuni snellimenti per contenere i risentimenti già affioranti, per quei fastosi preparativi, presso gli Spagnoli. Nella Città, "primariamente si spianarono ed accomodarono tutte le strade per le quali doveva passare" il corteo trionfale; nel contempo si predispose febbrilmente tutto il necessario per i costumi e per gli addobbi. "Il che fu causa che per sei o otto giorni continui non si facesse altro che lavorare livree, imbrunire armi e tagliare insegne nuove, e altro non s’udisse che suonare tamburi e tirare archibugi, rallegrandosi il popolo, non meno del Senato, dell’onore che doveva farsi a Sua Eccellenza" [45].
Il trionfo venne celebrato il 4 dicembre, "giorno di s. Barbara … adattissimo allo scopo"; era "un giorno chiarissimo e dolcissimo, simile piuttosto a quelli di maggio che non a quelli di dicembre". Il trionfatore "doveva entrare dalla porta Capena, oggi detta di s. Sebastiano, e procedere per l’Appia all’arco di Costantino, e da questo a quello di Tito, e poi passando dall’arco di Settimio Severo al Campidoglio, e dal Campidoglio al Vaticano". La porta Capena era adorna di festoni e della rappresentazione "di varie spoglie tolte ai nemici; … si scorgevano timoni, remi, antenne, galee fracassate, artiglierie ed altre cose relative alla battaglia navale". Sulla grande arcata della predetta porta, così come sui tre antichi archi di trionfo ch’egli avrebbe attraversato lungo la Via Trionfale e la Via Sacra, erano state affisse delle grandi iscrizioni in latino inneggianti alla vittoria navale ed ai suoi artefici. La prima di esse, in particolare, recava la dedica del Senato e del Popolo Romano a "Marco Antonio Colonna, ammiraglio della flotta pontificia, altamente benemerito della s. Sede, della salute degli alleati e della dignità del popolo romano" [46].
Fu dunque in questo scenario che Marco Antonio Colonna fece "la sua entrata solenne in questa Città, che fu assai bella" [47]. Il corteo trionfale può essere agevolmente ricostruito, essendo stato oggetto di una rappresentazione grafica nel "fregio di una stanza ancora conservata nell’antico castello di Paliano" [48] e di una particolareggiata descrizione redatta in quello stesso giorno da parte di due studenti dell’Università di Roma [49]. Da questi ultimi sappiamo che la cerimonia, "non molto dissimile dei trionfi o delle ovazioni degli antichi", iniziava con la sfilata di 4650 uomini superbamente vestiti ed armati, posti sotto 28 insegne ed accompagnati da 74 tamburi; nel mezzo di quel corteo veniva scortata una rappresentanza di 170 prigionieri turchi; poi, dopo alcune personalità, incedeva il trionfatore, "con cera gioviale e allegra e insieme piena di maestà", in groppa ad un cavallo bianco; venivano infine il Senatore ed i tre Conservatori di Roma, seguiti da un grandissimo numero di gentiluomini romani a cavallo. Il tutto era accompagnato da suoni di campane, salve d’artiglieria, squilli di trombe e rullio di tamburi, ma si udì anche qualche musica dolcissima.
Pochi giorni dopo, il 13 dicembre, Marco Antonio Colonna presenziava
alla solennità organizzata dal Senato all'Aracoeli, ed "a
quella chiesa egli offriva gli stendardi nemici e una colonna rostrata
d‘argento" [50], "piena di
mostri marini sopra indorati" [51],
"e attorno al fusto i rostri delle galee in argento dorato … Volle
poi il Senato che a ricordare il gran fatto una simile colonna rostrata
di marmo si ponesse nel palazzo dei Conservatori, al piano del cortile"
[52].
La Lega perpetua contro i Turchi sopravvisse ancora per un anno e quattro mesi. Le note divergenze di interessi tra Veneziani e Spagnoli tornarono infatti a manifestarsi fin dall’inizio del 1572, quando le delegazioni convenute a Roma iniziarono i lavori per definire le successive missione navali congiunte; l’arbitrato di Pio V permise comunque di far approvare la ripresa delle operazioni navali nelle acque della Grecia. Marco Antonio Colonna, il cui incarico venne confermato dal nuovo Pontefice (Gregorio XIII) il 15 maggio, riprese quindi il mare con la sua flotta di 15 unità navali e la condusse a Messina (2 giugno), ov’era don Giovanni d’Austria. Dopo oltre un mese di rinvii, quest’ultimo annunciò che, poiché le preoccupazioni di Filippo II (per una presunta minaccia di guerra da parte della Francia) non gli consentivano ancora di lasciare Messina, la missione poteva avviarsi verso Levante sotto il comando dell’ammiraglio romano, che avrebbe condotto con sé le navi romane, quelle dalla flotta veneziana - comandata da Iacopo Foscarino - e parte di quelle del re di Spagna sotto il comando di Egidio d’Andrada.
Dal 7 luglio al 31 agosto, pertanto, Marco Antonio Colonna esercitò le funzioni di comandante supremo di una flotta di 177 unità della Lega: le 15 romane (13 galee e 2 navi), 134 veneziane (100 galee, 16 navi e 18 galeotte) e 27 spagnole (22 galee, 3 navi e 2 galeotte). Avendo innalzato lo stendardo della Lega sulla sua nave ammiraglia, si recò prima a Corfù per aggregare alla sua forza navale il grosso della flotta veneziana e poi nella vicina baia di Camenizza per completare il dispositivo. Quindi, essendo salpato il 28 luglio, pur avendo appreso il giorno dopo che don Giovanni stava per portare il resto della sua flotta a Corfù, decise, d’intesa con gli ammiragli veneziano e spagnolo, di procedere verso Levante; ciò allo scopo di non ritardare ulteriormente l’efficacia dissuasiva della presenza navale della Lega nei confronti della flotta turca, che si era portata nelle acque del Peloponneso e minacciava Creta. Dal 4 al 14 agosto, egli operò nell’area del canale di Cerigo, distaccando svariate unità per sorvegliare il nemico e mantenendosi ininterrottamente pronto a sostenere il combattimento. anche se in condizione di netta inferiorità numerica. La flotta ottomana, infatti, era nuovamente costituita da ben 220 galee e 6 maone, essendo stata ricostruita in tutta fretta sotto il comando del corsaro Ucciali, detto il Tignoso (era il calabrese Luca Galeni, nato sulle sponde del golfo di Squillace e passato dalla parte dei Turchi con il nome di Ulug Alì). Nonostante la disparità di forze, l’ammiraglio romano riuscì, con il suo atteggiamento risoluto e determinato, a conseguire pienamente la propria finalità dissuasiva, scongiurando qualsiasi avvicinamento nemico alle acque di Creta. Non solo, ma egli riportò anche due brillanti successi in occasione dei due ingaggi verificatisi fra le due grandi flotte contrapposte: la prima volta, il 7 agosto nel canale di Cerigo, avendo con abile e coraggiosa manovra condotto la sua flotta a distanza di tiro ed iniziato il cannoneggiamento, indusse il Tignoso a ritirarsi e, "restato padrone del campo, mantenne ai Cristiani la superiorità sul mare"; la seconda volta, il 10 agosto al largo di capo Matapan, dopo aver portato le sue navi al tiro, privò il Turco di 12 galee (5 affondate e 7 messe fuori combattimento) e si diresse poi arditamente, con poche galee, contro il centro della flotta ottomana, combattendo strenuamente e mettendo "tanto terrore ai nemici" che il Tignoso, "spargendo fumo di cannonate a sola polvere, voltava a turpe fuga le spalle, e come disfatto cedeva un’altra volta il campo a Marco Antonio" [53].
Essendo comunque evidente che solo con l’aggiunta delle navi di don Giovanni d’Austria (che era giunto il 10 agosto a Corfù) la forza navale della Lega sarebbe stata in condizione di riportare in mare una vittoria decisiva, fece in modo di affrettare il ricongiungimento: lasciata l’area di Cerigo il 14 agosto, due giorni dopo diede fondo a Zante, sapendo che allo stesso tempo don Giovanni avrebbe dovuto raggiungere la contigua isola di Cefalonia. Quest’ultimo, invece, fuorviato dalla sopravvalutazione dei rischi e da un certo livore per i successi del Romano, non solo non si era mosso da Corfù, ma, dopo varie esitazioni, finì per esigere che il ricongiungimento avvenisse proprio in quell’isola. L’incontro del comandante con il suo vice-comandante (giunto il 1° settembre) fu contraddistinto da una tale asprezza che Marco Antonio Colonna si dichiarò pronto a lasciare l’incarico; e palesò le sue perplessità, con pacatezza, in una lettera diretta al Segretario di Stato: "certo qui hanno mal consigliato Sua Altezza a farci tornare con tanto incomodo, lasciando in mano ai nemici il paese che con tanta fatica avevamo conservato, per dover poi riportarci forse in avanti; noi, inoltre, finché Sua Altezza non si congiungeva, avevamo anche l’autorità delle deliberazioni: egli non poteva quindi comandare con tanta autorità" [54].
Nonostante tutto, egli continuò ad adoprarsi con tutte le sue energie affinché la flotta ottomana venisse affrontata al più presto e con decisione, traendo vantaggio dalle sensibili limitazioni ch’essa ancora presentava, nelle sue capacità marinaresche e di combattimento, per essere stata approntata in tutta fretta ed armata con equipaggi raccogliticci ed inesperti. Dopo una settimana, in seguito alle insistenze dell’ammiraglio romano, la forza navale della Lega salpò da Corfù (7 settembre), attardandosi subito dopo nella baia di Camenizza (fino al giorno 11), a Paxo (fino al 13) ed a Cefalonia (fino al 15). Poi, dopo aver incomprensibilmente eluso un sicuro ingaggio con la flotta turca nelle acque di Navarino il mattino del 17 settembre, dando al nemico il tempo di salpare e fuggire verso il porto di Modone, don Giovanni condusse l’inseguimento con esasperante cautela; ed a Marco Antonio Colonna, che lo esortava a serrare al più presto le distanze, ordinò di recarsi lui stesso, con la sola nave ammiraglia, ad accertarsi da vicino se le navi nemiche stessero realmente continuando a fuggire. Il Romano non ebbe esitazioni: portatosi sollecitamente verso il nemico, che distaccò contro di lui 9 galee, continuò a farsi sotto; essendo poi sostenuto a distanza da altre otto unità della Lega inviategli da don Giovanni, inseguì le galee nemiche, le affrontò davanti al porto di Modone, ne fece andare alcune in secca e tentò infine di catturarne "due incagliate sotto la stessa fortezza, donde i Turchi sfolgoravano di tutte le loro artiglierie contro lui solo" [55].
Nei successivi venti giorni la forza navale della Lega rimase al largo di Modone, astenendosi tuttavia dall’intraprendere alcuna azione di assalto navale a quel porto (nonostante le reiterate sollecitazioni del vice-comandante), ma limitandosi ad una inconcludente diversione a Navarino (30 settembre - 5 ottobre). Infine il 7 ottobre, dopo aver celebrato il primo anniversario della vittoria navale di Lepanto con la fortuita cattura di una galea predatrice del nemico, venne deciso, per mancanza di viveri a bordo della flotta del re di Spagna, di rientrare in Italia: don Giovanni completò così la propria missione a Messina il 25 ottobre, senza aver conseguito alcun risultato utile, se non quello di vanificare le potenzialità operative della Lega nel teatro marittimo. Poco dopo Marco Antonio Colonna ricondusse la flotta romana a Civitavecchia [56].
Rientrato a Roma e ricevuto con calorose espressioni di lode dal Pontefice, l’ammiraglio romano venne da questi inviato nuovamente in missione diplomatica presso i Principi e le Repubbliche d’Italia ed alla corte del re di Spagna, al fine di sollecitare un più vigoroso concorso alla lotta contro i Turchi nell’anno successivo. Dopo aver registrato accoglienze festose ed un genuino apprezzamento da parte del Granduca di Toscana, di Emanuele Filiberto di Savoia, dei Veneziani e dei Genovesi [57] (ivi incluso Giannandrea Doria), egli venne accolto con tutti gli onori anche da Filippo II che, pur ironizzando sugli scarsi risultati conseguiti dall’ultima "passeggiata" della forza navale della Lega in Grecia, assicurò una costruttiva partecipazione spagnola all’imminente convegno di Roma.
Nei primi mesi del 1573 i rappresentanti veneziani e spagnoli, convenuti
per l’ultima volta nella Città Eterna per discutere della Lega,
approvarono la sollecita ripresa delle operazioni navali, impegnandosi
ad approntare le rispettive flotte entro fine marzo.
Il 4 aprile, constatato che - com’era prevedibile - la flotta spagnola
non era ancora pronta, il Doge annunciò che la Serenissima si riteneva
ormai libera da ogni impegno con la Lega, e doveva necessariamente sottoscrivere
con l’Impero Ottomano un accordo di pace senza il quale le possibilità
di salvaguardare la sicurezza dell’intero dominio veneto, dalla Dalmazia
al Mediterraneo orientale, sarebbero state irrimediabilmente compromesse.
Nel successivo mese di maggio, Marco Antonio Colonna rimise nelle mani
del Pontefice quell’alto comando navale ch’egli aveva retto con straordinaria
efficacia per tre anni pieni, e che aveva ormai esaurito il suo ruolo eccezionale,
di primissima grandezza, nello scenario internazionale [58].
Dopo aver perseguito con tanto coraggio ed ostinazione ogni possibilità di successo contro il nemico, incitando i recalcitranti col ragionamento e con l’esempio, esercitando un ruolo di mediazione fra le conflittuali esigenze dei due maggiori membri della Lega, dovendo spesso indurre i Veneziani a piegarsi alle esasperanti rigidità spagnole, ma contrapponendosi con fermezza e talvolta anche con durezza ad ogni soluzione che potesse far ritardare eccessivamente o compromettere l’esito della missione, Marco Antonio Colonna continuò comunque a godere, contrariamente ad ogni previsione, sia l’alta stima e la piena fiducia di Filippo II, sia l’ammirazione e la riconoscenza della Serenissima. Egli era peraltro, in quello strano ed intricato mondo postmedievale, alla stessa volta: Principe e Duca di Paliano, ammiraglio del Pontefice, feudatario del re di Spagna, cavaliere del Tosone, gran contestabile della Corona di Napoli, nonché iscritto all’albo della nobiltà veneziana. Con tutti aveva mantenuto rapporti leali e trasparenti, riferendo dettagliatamente ogni su azione e le motivazioni che lo avevano di volta in volta indotto a prescegliere la propria linea d’azione. Con tale modo di fare, pur avendo concorso in modo determinante al conseguimento di risultati ritenuti eccessivi dalla parte spagnola ed insufficienti da parte veneziana, tutti apprezzarono la sua onestà intellettuale, il suo impegno appassionato e disinteressato, la sua lucida visione della strategia marittima e le sue innate doti di condottiero pugnace, trascinatore e vincente. Il Doge volle spesso avvalersi dei suoi consigli, mentre Filippo II continuò ad accordargli la sua più attenta considerazione, tanto che, dopo lo scioglimento della Lega, lo stesso Marco Antonio Colonna poté liberamente confidargli i tre principali motivi dei molteplici ostacoli che gli erano stati frapposti – evidentemente da parte spagnola - in quei tre fatidici anni: "primo, perché vi furono alcuni che non giudicavano utile né avevano piacere della Lega; secondo, perché non riuscivano a convincersi che si potesse combattere contro i Turchi per mare; terzo, la grande e rabbiosa invidia che nutrivano verso di me perché, col favore di Vostra Maestà, mantenevo in quelle spedizioni un ruolo tanto importante. E questa maledetta invidia tanto più andò crescendo quanto meglio le cose andavano, contrariamente alla loro opinione" [59].
Nel 1574, a distanza di un solo anno dal ritiro dei Veneziani dalla Lega e dalla loro forzata pace con Costantinopoli, il re di Spagna volle risolvere una volta per tutte l’annoso problema della presenza navale ottomana e barbaresca nel Mediterraneo occidentale, intraprendendo un’offensiva in grande stile sul litorale nordafricano. Con tale iniziativa, intesa a rimuovere quella minaccia incombente non solo sui suoi traffici marittimi ma anche sulle coste iberiche e sicule, egli parve anche dare un concreto seguito alla sprezzante sua dichiarazione secondo cui avrebbe continuato anche da solo la lotta contro i Turchi. Ma la campagna d’Africa si risolse in una netta sconfitta degli Spagnoli [60], ed in un conseguente consolidamento della posizione degli Ottomani e dei pirati barbareschi sulle rive magrebine. Nei successivi due anni, si rese particolarmente evidente come la perdita del controllo spagnolo sul porto di Tunisi avesse messo le flotte nemiche in condizione di esercitare una costante minaccia sulle acque del canale di Sicilia e sulle relative isole. Nei primi mesi del 1577, pertanto, Filippo II, "temendo troppo della Sicilia, e bisognandogli governatore tale che fosse in terrore agli Ottomani" [61], offrì a Marco Antonio Colonna la carica di governatore dell’Isola con il titolo di Viceré.
Il Principe romano giunse a Palermo il 22 aprile dello stesso anno e, da quella capitale, esercitò le sue funzioni di Viceré nei successivi sette anni, fino alla sua morte. Egli governò con umanità ed equità, impegnandosi coscienziosamente in tutti i settori della pubblica amministrazione. Nel campo sanitario, conseguì la completa estinzione della peste che aveva afflitto la Sicilia poco prima del suo arrivo. Promosse l’agricoltura, principale sorgente di ricchezza dell’Isola. Fece in modo che la giustizia venisse esercitata con pari rigore nei confronti di tutti i ceti sociali [62]. Non si comportò "come gli ingordi proconsoli che lo seguirono", e "tenne a freno l’ingordigia dei suoi ministri" [63]. Arricchì Palermo di opere pubbliche, quali la nuova Vicaria, un grandioso edificio per la Dogana, la strada dalla Vicaria fino al mare e quella graziosa porta che tuttora venne chiamata Felice in onore di sua moglie Felice Orsina.
Nel campo delle sicurezza marittima, solo in un’occasione sembrò che i pirati avessero ripreso "le loro scorrerie avventurandosi fino alle Egadi e prendendo parecchie fuste palermitane che trasportavano vino ed olio. … Alcune galee inviate in perlustrazione posero in fuga i legni corsari, e per qualche tempo i traffici marittimi non furono più disturbati" [64]. Alcuni raccontano anche che al corsaro Ucciali, il Tignoso (che "allora governava Algeri, Tunisi e Cipro), venisse desiderio della patria, e perciò proponesse al Colonna di patteggiare col re. Egli voleva ritornare cristiano e darglisi in potere, purché gli venisse concesso un principato in Calabria. Per gestire la cosa più sollecitamente, si era portato con la flotta in vista della Sicilia" [65]. Ma si tratta di notizie che non risultano comprovate ed in cui la parte originata dalla fantasia parrebbe ampiamente prevalere sulla realtà storica. In ogni caso, l’assenza di situazioni critiche avvalora senz’altro la tesi dell’efficacia dissuasiva della presenza di Marco Antonio Colonna nei confronti delle mire delle flotte turche e barbaresche sulla Sicilia.
Nella primavera del 1584, il Viceré di Sicilia venne convocato a Madrid da Filippo II. "Il motivo, secondo alcuni storici, fu per affidargli il comando della flotta che allora intendeva inviare contro l’Inghilterra" [66]. Anche se il destino non doveva comunque consentirgli di assumere il comando della Invencibile Armada (che l’Oceano dissolse quattro anni dopo), egli concorse alle iniziali predisposizioni e, soprattutto, ebbe la possibilità di trascorrere buona parte degli ultimi due mesi della sua vita respirando la brezza marina alla testa di una formazione di navi da guerra da rischierare in vista di un’importante operazione navale. Egli salpò infatti da Palermo il 28 maggio con 10 galee della flotta siciliana richiestegli dal re di Spagna. Dopo essere passato da Napoli, sostò brevemente a Civitavecchia, per recarsi a salutare il Pontefice e Roma e per visitare le sue terre. Ripartì quindi da Civitavecchia avendo aggregato alla sua formazione navale altre 8 galee italiane (4 del Granduca di Toscana e 4 dell’Ordine dei Cavalieri di Malta). Entrato così con 18 galee nel porto di Barcellona, ove si stava radunando il primo nucleo della grande flotta, vi sbarcò e si avviò verso Madrid. Strada facendo, si ammalò; continuò nondimeno fino a Medinaceli, ove spirò il 1° agosto.
Sulla quella fine improvvisa, il Muratori, sommo storico dell’Italia medievale e rinascimentale, scrisse che il Viceré "fu portato all’altra vita da un sì precipitoso e violento male, che fece dubitare di veleno" [67]. Nel mistero che continuerà ad avvolgere la sua prematura morte (poiché difficilmente se ne potrà reperire la chiave), si può ravvedere un ultimo parallelo con alcuni fra i più straordinari personaggi dell’antichità romana, da Romolo Quirino allo splendido Scipione Emiliano.
Marco Antonio Colonna fu oggetto di solenni onoranze; il suo corpo venne
poi trasferito dalla Spagna a Paliano. "I Romani gli posero in
Campidoglio una statua, e lo chiamarono il "Trionfatore""
[68].
Dopo aver tratteggiato, con poche frettolose pennellate, la fascinosa vita di Marco Antonio Colonna e le sue strette connessioni con le maggiori vicende marittime dell’epoca, mi limito a soggiungere qualche considerazione nello spirito del tema del nostro convegno.
Poiché si vuole valutare quanto in esame anche sotto l’aspetto della sua attualità, occorre innanzi tutto tener conto della peculiare connotazione del periodo storico considerato, sospeso fra il mondo antico e quello moderno, con vistosi residui del Medioevo nonostante gli splendori del Rinascimento italiano, e con la persistenza di sistemi feudali che parzialmente si intersecano e che, attestandosi su di un Impero nominalmente ancora romano, su regni nazionali o plurinazionali, e su principati regionali, interagiscono con libere repubbliche, con la Sede pontificia, con gli ordini cavallereschi sovrani, ecc. In questo scenario composito e contraddittorio, esiste inoltre un’ulteriore specificità: quella del popolo italiano che, avendo direttamente ereditato il cosmopolitismo e la coscienza universale dei Romani, risulta del tutto refrattario agli egoismi nazionali che dividono gli altri popoli d’Europa; esso, tuttavia, non solo non si sottrae in alcun modo alla lotta per la difesa comune contro il Turco, ma è presente su tutti i mari in prima linea ed in proporzione ampiamente maggioritaria.
È in tale contesto che si inserisce Marco Antonio Colonna, con il prezioso retaggio culturale comune a tutti gli Italiani e con la propria intrinseca romanità. Egli osserva con distacco le aspre lotte che si svolgono fra le potenze europee, e, quando viene coinvolto, si schiera – secondo la consuetudine della nobiltà romana – con la formale legalità romana rappresentata dall’Impero. Il suo atteggiamento è invece radicalmente diverso nei confronti della gigantesca ondata barbarica che rischia di sommergere la nostra civiltà: riconoscendola come il solo vero nemico da combattere, si impegna con tutte le energie in quella direzione, ricercando e caldeggiando l’unione con ogni altra forza disponibile, senza faziosità né secondi fini. Cogliendo prontamente tutte le occasioni che gli si presentano, eccolo partecipare alla costituzione delle grandi forze navali multinazionali di quel periodo (operazioni al Pegnone, a Cipro, a Lepanto ed in Grecia): soluzione tuttora attualissima, che ha dimostrato le elevate potenzialità di quello strumento quando condotto con unicità d’intenti, nonché la naturale attitudine delle forze navali latine ad operare congiuntamente, com’è stato recentemente confermato dalle svariate operazioni condotte nel basso Adriatico e dalla costituzione della Forza Marittima Europea (EUROMARFOR, con la partecipazione di Italia, Francia, Spagna e Portogallo).
Marco Antonio Colonna è stato spesso qualificato con l’epiteto di condottiero - evocante delle capacità di comando forse più terrestri che navali - per riflettere l’antica bivalenza interforze ancora vigente all’epoca. Tutte le sue scelte, tuttavia, denotano la sua innata predilezione per il mare e la sua chiara visione dei grandi vantaggi conseguibili attraverso l’esercizio del potere marittimo. Egli non ha dubbi sulla necessità di sconfiggere i Turchi proprio sul mare, ben comprendendo che la via maestra per il perseguimento dell’obiettivo strategico più importante, quello di fermare l’espansione ottomana, consiste nel sottrarre al nemico la possibilità di fruire della supremazia marittima.
Ma il Principe romano non si limita a buoni ragionamenti teorici ed a felici intuizioni: egli sa dimostrare con l’azione la sua capacità di sollecitare ed ottenere l’accordo delle altre parti (ambascerie a Venezia negli anni 66 e 71 ed a Madrid a fine 72) e, soprattutto, le sue doti di comando, associate ad una stoffa di autentico marinaio. Lo vediamo già sul piano organizzativo, dalla sicurezza e celerità di allestimento di nuove flotte (la propria degli anni 62-64 e quella pontificia negli anni dal 70 al 73.) e di reperimento ed addestramento degli stati maggiori ed equipaggi (marinai, rematori e militi navali): creazione ex novo, per quattro volte, di strumenti navali del tutto rispondenti e che danno eccellente prova di sé, per capacità marinaresche e per combattività. Lo vediamo poi sul piano della logistica, sempre curata con ogni sollecitudine, sia per la propria flotta, sia per la forza navale multinazionale quando egli ne esercita il comando in prima persona (nell’operazione del 70 e nelle fasi iniziali di quelle del 71, per un mese, e del 72, per circa due mesi): questo aspetto assume una cruda evidenza quando le navi di don Giovanni d’Austria devono rientrare in Italia per carenza di viveri, mentre tutte le altre ignorano tale problema pur avendo preso il mare molto tempo prima. Lo vediamo infine sul piano tattico, dall’autorevolezza del suo comando, dalla sua determinazione in seno al consiglio degli ammiragli della Lega, dalla sua accortezza nel fronteggiare le situazioni critiche, dalla sua ostinata perseveranza nei momenti difficili, dal suo fiuto nell’individuare i punti deboli del nemico, dall’immediatezza di concezione delle linee d’azione più favorevoli, dalla sua irruente foga combattiva e dalla quella manifesta carica vincente che trova un naturale sbocco a Lepanto.
Alberto Guglielmotti, dal cui approfondito ed accurato studio su Marco Antonio Colonna non si può prescindere, ne parla come "il più grand’uomo del suo tempo, colonna saldissima del Cristianesimo, dell’Italia, e di Roma; dal cui senno e valore deve la posterità riconoscere la grande vittoria. Egli a stringere la Lega, egli a conservarla, egli a trovare il danaro, egli a quietare le risse dei soldati, egli prima di ogni altro al convegno di Messina, egli ad assicurare la riunione della flotta, egli a trattenere la fedeltà dei Veneziani, egli a vincere il partito della battaglia, egli a prevedere in chiari termini la vittoria, egli a mettere la ragione in capo agli Spagnoli, egli ad impedire la guerra intestina, egli a condurre i discordi sul campo della battaglia, egli a sostenerli nella mischia: sempre esposto ai maggiori pericoli, non solo nel comandare e provvedere ai bisogni della sua galea, ma a quelli di don Giovanni e di tutta la flotta" [69],
In merito a Lepanto, che costituisce ovviamente il più vistoso risultato conseguito con il determinante apporto di Marco Antonio Colonna, mi sembra opportuno sottolinearne la valenza storica, in modo da attenuare l’inevitabile sensazione di delusione suscitata dal successivo inaridimento della Lega: "quantunque la memorabile giornata, in quel luogo combattuta e vinta, non producesse la caduta repentina dell’impero ottomano sotto la violenta percossa, tuttavia lo ferì di piaga insanabile, e lo ridusse per lenta consumazione all’impotenza" [70]. Dopo Lepanto, infatti, "il potere marittimo turco non assunse più iniziative di espansione strategica verso il Mediterraneo occidentale, limitando il proprio impegno ad eliminare gli Spagnoli da Tunisi nel 1574" [71].
Tornando a Marco Antonio Colonna, mi sembra di poter concludere che
dal suo appassionato impegno, ancorché prodotto in un periodo storico
profondamente dissimile dal nostro, sono scaturiti risultati ed insegnamenti
che permangono di elevato pregio e di sicura attualità. E sono lieto
di aver avuto l’occasione di onorarne la memoria in un qualificato consesso
di cultori della storia marittima, nella convinzione che a nessuno più
di lui, negli ultimi venti secoli, poteva meglio attagliarsi il solenne
rientro nella Città Eterna con l’antico rito romano del trionfo
navale.
Avvertenza: nelle citazioni riportate fra virgolette nel testo, le espressioni eccessivamente arcaiche sono state sostituite dal loro equivalente moderno; ciò al fine di renderne più immediata la comprensione (tenuto anche conto delle esigenze di traduzione nelle altre lingue) ed eliminare possibili equivoci.
[ 1] Domenico Carro, Nascita e affermazione del potere marittimo di Roma, da "Il Mediterraneo quale elemento del Potere Marittimo - Acta del Convegno di Storia militare tenuto a Venezia nella sede dell'antico Arsenale dal 16 al 18 settembre 1996", Ufficio Storico della Marina Militare - Commissione Italiana di Storia Militare, Roma, 1998, pagine 55-88.
[ 2] Alberto Galieti, Marc' Antonio Colonna a Lanuvio, a cura della R. Deputazione Romana di storia patria, Roma, 1938-XVI; pag. 75.
[ 3] Tullia Gasparrini Leporace, Aneddoti su Marcantonio Colonna, estratto dagli "Atti del V Congresso Nazionale di Studi Romani", Istituto di Studi Romani - Editore, Roma, 1940-XVIII; pag. 4.
[ 4] Mario Granata, Marcantonio Colonna, G. B. Paravia & C., Torino, Roma, ecc., 1940; pag. 4-5.
[ 5] Antonio Coppi, Memorie Colonnesi, compilate da A. Coppi, tipografia Salviucci, Roma, 1855; pag. 345.
[ 6] Alberto Guglielmotti, Marcantonio Colonna alla Battaglia di Lepanto, Felice Le Monnier, Firenze, 1862; pag. 12.
[ 7] Bartolomeo Dal Pozzo, Historia della Sacra Religione Militare di San Giovanni Gerosolimitano, detta di Malta, del Signor Commendator Fr. Bartolomeo dal Pozzo Veronese, Cavalier della medesima, parte prima, per Giovanni Berno, Verona, 1703; pag. 385.
[ 8] Giacomo Bosio, Dell’Istoria della Sacra Religione et Ill.ma Militia di San Giovanni Gierosolimitano, di Iacomo Bosio, parte terza, appresso Guglielmo Facciotto, Roma, 1602; pag. 482.
[ 9] Granata (op. cit.), pag. 115-117.
[10] Bosio (op. cit.), pag. 482.
[11] Granata (op. cit.), pag. 118.
[12] Granata (op. cit.), pag. 130.
[13] Guglielmotti (op. cit.), pag. 5-7.
[14] Coppi (op. cit.), pag. 345.
[15] Archivio Colonna, Decreto pontificio del 11 giugno 1570; da Guglielmotti (op. cit.), pag. 8-11.
[16] Guglielmotti (op. cit.), pag. 13.
[17] Guglielmotti (op. cit.), note 17 (pag. 25) e 95a (pag. 107-108).
[18] Guglielmotti (op. cit.), pag. 13.
[19] Guglielmotti (op. cit.), pag. 29-33.
[20] Guglielmotti (op. cit.), pag. 44-45.
[21] Guido Borsari, I grandi ammiragli, Mursia, Milano, 1975; pag. 96-98.
[22] Guglielmotti (op. cit.), pag. 40.
[23] Guglielmotti (op. cit.), pag. 47-76.
[24] Guglielmotti (op. cit.), pag. 81-110.
[25] Marco Antonio Colonna, Lettere ai cardinali Alessandrino e Rusticucci – Relazioni al re di Spagna; da Guglielmotti (op. cit.), note 35-37 (pag. 41-45), 43-45 (pag. 50-51), 57 (pag. 66) e 99 (pag. 103).
[26] Giovanni Battista Borino, Il contrastato trionfo di Marc' Antonio Colonna, a cura della R. Deputazione Romana di storia patria, Roma, 1938-XVI.; pag. 33.
[27] Marco Antonio Colonna, Orazione al Senato di Venezia; da Guglielmotti (op. cit.), pag. 138-143.
[28] Guglielmotti (op. cit.), pag. 127-129.
[29] Guglielmotti (op. cit.), pag. 167-171.
[30] Marco Antonio Colonna, Lettera al cardinale Rusticucci (Messina, 2 settembre 1571); da Guglielmotti (op. cit.), pag. 180.
[31] Guglielmotti (op. cit.), pag. 187-189.
[32] Marc' Antonio Bragadin, Le Repubbliche Marinare, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1974; pag. 107-108.
[33] Gasparrini Leporace (op. cit.), pag. 7.
[34] Bartolomeo Sereno, Commentario della guerra di Cipro e della lega dei principi cristiani contro il Turco; da Borino (op. cit.), pag. 36.
[35] Guglielmotti (op. cit.), pag. 211-213.
[36] Marco Antonio Colonna, Lettera a Pio V (Petalà, 7 ottobre 1571); da Guglielmotti (op. cit.), pag. 243-245.
[37] Marco Antonio Colonna, Lettera al cardinale di Sermoneta (Dragomestre, 11 ottobre 1571); da Guglielmotti (op. cit.), pag. 239.
[38] Marco Antonio Colonna, Lettera al Buonvicino (Petalà, 9 ottobre 1571); da Guglielmotti (op. cit.), pag. 227-228.
[39] Marco Antonio Colonna, Lettera al cardinale di Sermoneta (Dragomestre, 11 ottobre 1571); da Guglielmotti (op. cit.), pag. 238-239.
[40] Guglielmotti (op. cit.), pag. 254-259.
[41] Sereno (op. cit.), pag. 14-15.
[42] Borino (op. cit.), pag. 4-9.
[43] Archivio Capitolino, Decreti di Consigli, Magistrati e Cittadini Romani; Credenzione I, Tomo XXV; da Borino (op. cit.), appendice I.
[44] Archivio Vaticano, Miscellanea, Armadio II, 80; da Borino (op. cit.), appendice II.
[45] Domenico Fassolo e Baldassarre Mariotti, Lettera al Molto Magnifico Misser Annibale (Roma, 4 dicembre 1571); da Navone (op. cit.), appendice.
[46] Fassolo e Mariotti (op. cit.), appendice.
[47] Anna Borromea, Lettere al fratello, cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano; da Borino (op. cit.), appendice III.
[48] Giulio Navone, L'entrata trionfale di Marc' Antonio Colonna in Roma (fregio dipinto in una stanza della fortezza di Paliano), a cura della R. Deputazione Romana di storia patria, Roma, 1938-XVI.
[49] Fassolo e Mariotti (op. cit.), appendice.
[50] Ciampi (op. cit.), pag. 315.
[51] Borromea (op. cit.), appendice III.
[52] Guglielmotti (op. cit.), pag. 279.
[53] Guglielmotti (op. cit.), pag. 350-367.
[54] Marco Antonio Colonna, Lettera al cardinale di Como (Corfù, 1° settembre 1572); da Guglielmotti (op. cit.), pag. 380-381.
[55] Guglielmotti (op. cit.), pag. 388-397.
[56] Guglielmotti (op. cit.), pag. 400-423.
[57] Granata (op. cit.), pag. 244.
[58] Guglielmotti (op. cit.), pag. 424-433.
[59] Marco Antonio Colonna, Lettera al re di Spagna; da Guglielmotti (op. cit.), pag. 434-435.
[60] Granata (op. cit.), pag. 255.
[61] Guglielmotti (op. cit.), pag. 434.
[62] Coppi (op. cit.), pag. 346-347.
[63] Ciampi (op. cit.), pag. 316.
[64] Granata (op. cit.), pag. 257.
[65] Ciampi (op. cit.), pag. 316.
[66] Coppi (op. cit.), pag. 348-349.
[67] Ludovico Antonio Muratori: citazione da Coppi (op. cit.), pag. 348.
[68] Ciampi (op. cit.), pag. 317.
[69] Guglielmotti (op. cit.), pag. 236-237.
[70] Guglielmotti (op. cit.), pag. 4.
[71] Luigi Donolo, Storia della dottrina navale italiana, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1996; pag. 94.