Settimanale“LO JONIO”
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Agli inizi del V secolo dalla fondazione dell’Urbe, i Romani avevano cominciato ad avvalersi, per la loro politica estera, del concorso di operazioni navali effettuate dalla loro piccola marina da guerra, appena potenziata grazie alla cattura delle navi di Anzio (338 a.C.). Uno dei primi esempi di tali impegni annotati negli annali era stata l’incursione della flotta romana approdata a Pompei al comando di Publio Cornelio per saccheggiare il territorio di Nocera, alleata dei Sanniti nella guerra contro i Romani (311 a.C.).
In quell’epoca Taranto, fondata quattro secoli prima da coloni spartani, era una delle più fiorenti città della Magna Grecia. Dal suo porto, nel Mar Piccolo, essa esercitava i propri commerci navali in tutte le acque del Mediterraneo centrale e manteneva degli stretti legami con Sparta e con vari altri regni ellenistici. Tali buone relazioni le avevano consentito di ottenere importanti aiuti militari da oltremare ogni volta che essa si era sentita minacciata dai popoli vicini (Messapi, Lucani e Bruzi). Dietro sua richiesta, in particolare, erano già sbarcati in Italia, con consistenti forze, il re di Sparta Archidamo III (342 a.C.), il re dell’Epiro Alessandro I il Molosso (~ 333 a.C.) e il principe spartano Cleonimo (309 a.C.): tre grandi spedizioni, che risultarono tuttavia scarsamente utili ai richiedenti.
Nei confronti della potenza emergente di Roma, Taranto aveva invece mantenuto un atteggiamento ostile, promettendo l’invio di rinforzi alla città di Palepoli assediata dai Romani (327 a.C.), intimando – senza successo – a questi ultimi di cessare l’assedio a Lucera occupata dai Sanniti (319 a.C.) ed entrando in guerra contro i Lucani, rei di aver richiesto l’alleanza agli stessi Romani.
Nel 282 a.C. il duumviro navale Lucio Valerio, al comando di una flotta di dieci navi da guerra – triremi, accompagnate forse da pentecontere –, fu inviato dal Senato nel golfo di Taranto per una ricognizione intesa a rassicurare, con la presenza navale romana, l’alleata città di Turi (anch’essa di cultura greca, essendo stata fondata sotto gli auspici di Pericle sul sito della distrutta Sibari). Mentre transitava al largo di Taranto, la formazione di navi rostrate venne avvistata dai Tarentini, intenti a celebrare i Baccanali nel loro teatro cittadino, affacciato sul Mar Grande. La comparsa di vele militari romane in quelle acque fu per essi un evento del tutto inatteso e sconcertante. In seguito allo sdegno popolare, suscitato da quel fatto, ingigantito dai fumi dell’alcol ed alimentato dal demagogo Filocari – secondo il quale i Romani avevano violato un proprio antico impegno a non navigare nel golfo di Taranto –, venne fatta salpare la flotta dal Mar Piccolo per farla dirigere contro le navi romane.
I Romani, che non si attendevano alcuna ostilità dai Tarentini, né si erano predisposti al combattimento (occorreva perlomeno serrare le vele ed abbattere i relativi alberi), furono facilmente vinti dalle esperte triremi greche: delle dieci navi romane, solo cinque riuscirono a disimpegnarsi, mentre le altre furono catturate o affondate.
L’ambasceria inviata da Roma, per protestare contro questo inopinato atto ostile ed intimare la restituzione dei prigionieri, deve essere giunta a Taranto in brevissimo tempo, visto che ancora perduravano le festività dionisiache celebrate nel teatro. Quella fu infatti la sede in cui il legato romano, Lucio Postumio Megello, espose le richieste del Senato, al cospetto di una folla che, resa ilare dalle abbondanti libagioni, sghignazzava sprezzantemente per ogni parola greca non pronunciata nel modo più corretto. Ma il picco delle risate si verificò quando un balordo locale – certo Filonide –, più ubriaco degli altri, si sollevò le vesti e lordò con le proprie feci la toga del legato. Il Romano non si scompose, ma preconizzò che quell’abito sarebbe stato lavato con molto sangue.
Questo fu l’insensato casus belli del conflitto fra Roma e Taranto.
Nella successiva primavera il console Lucio Emilio Barbula entrò con le sue legioni nel territorio dei Tarentini, che evitarono il combattimento, protetti dalla robusta cinta di mura cittadine, e chiamarono in loro aiuto Pirro, l’ambizioso re dell’Epiro. Questo sovrano, allettato dalla prospettiva di estendere il proprio dominio al di qua del Canale d’Otranto, avvalendosi anche del proprio prestigio presso le città della Magna Grecia, intraprese un’imponente spedizione navale verso l’Italia, imbarcando oltre 25.000 combattenti e 20 elefanti da guerra. Sbarcato sulla costa salentina nella primavera 280 a.C., dopo aver subito varie perdite a causa della burrasca, giunse a Taranto, ove si rese subito impopolare, lasciando che i propri ufficiali commettessero stupri e soprusi, ed imponendo ai Tarentini un’austerità compatibile con lo stato di guerra e l’effettuazione di estenuanti esercitazioni militari, pena la morte. Quindi, lasciato un proprio presidio in città, si avviò contro i Romani.
In quella stessa epoca pervenne ad Ostia una flotta punica di 130 navi, il cui ammiraglio offrì al Senato l’appoggio navale di Cartagine per la guerra di Roma contro Pirro. Ma i senatori ricusarono fermamente, rispondendo che non era abitudine dei Romani intraprendere guerre che non potessero sostenere con le proprie forze. L’anno seguente venne comunque rinnovato il vecchio trattato navale fra Roma e Cartagine, la cui più antica versione risaliva al 509 a.C. Le nuove clausole prevedevano anche un reciproco aiuto in caso di aggressione subita da uno dei due stati, con il possibile coinvolgimento anche delle flotte della potenza navale punica.
Non vi fu comunque alcun sostegno di forze cartaginesi al fianco dei Romani nella guerra condotta da Pirro, le cui operazioni in Italia si articolarono, a grandi linee, su due vittorie sul terreno conseguite con gravissime perdite (le ben note “vittorie di Pirro”), una parentesi in Sicilia con un’inconcludente campagna, e la sconfitta definitiva a Maleventum, rinominata Beneventum (275 a.C.). Sconvolto e frustrato, il re d'Epiro si imbarcò in quello stesso autunno per rientrare in patria ed intraprendere un nuovo conflitto in cui doveva perdere la vita tre anni dopo.
Fu proprio in quell’anno che i Tarentini richiesero l’aiuto dei Cartaginesi. La città era infatti assediata dai Romani, che bloccavano anche l’uscita dal Mar Piccolo, per non consentire alle navi locali di far affluire i necessari approvvigionamenti. I voti tarentini furono prontamente esauditi, poiché poco dopo una flotta punica portò dei rifornimenti a Taranto (272 a.C.). Ma tale azione si dimostrò praticamente ininfluente, poiché in quello stesso anno i Tarentini deposero le armi e stipularono l’alleanza con i Romani.
Roma poté così completare il proprio controllo sull’intera Penisola, predisponendosi all’inevitabile confronto bellico con la potenza navale punica. La stessa flotta tarentina contribuì poi con le proprie navi alla costituzione della grande forza navale utilizzata dai Romani per il loro primo sbarco in Sicilia contro i Cartaginesi. Poiché l’epico conflitto che ne seguì consentì a Roma di acquisire il dominio del mare e di avviare pertanto la propria straordinaria espansione oltremare, lo storico Floro sintetizza il tutto dicendo che, per i Romani, il Bellum Tarentinum rappresentò allo stesso tempo la conclusione della conquista dell’Italia e il preludio dei trionfi transmarini.
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