Rivista bimestrale Voce Romana
n° 28 - luglio-agosto 2014

Sulle onde della Storia Romana (X)


Morituri te salutant


di DOMENICO CARRO


Chi non è rimasto affascinato dai possenti gladiatori dei “kolossal” hollywoodiani? Il loro arrivo nell’arena viene immancabilmente presentato mostrando l’iniziale parata in pompa magna, con pennacchi ed armi scintillanti, sotto le urla entusiastiche della plebaglia in delirio. Poi i gladiatori si schierano allineandosi perfettamente davanti al palco del sanguinario imperatore in carica e, con voce grave e stentorea, solennemente gli rivolgono in coro il famoso saluto: “Ave Cesare, morituri te salutant!”.

Che uomini! Che tempre! Quale ammirevole insegnamento per ogni tremebondo mortale terrorizzato dall’idea della morte! Pur sapendo che la loro vita è destinata ad essere spezzata nel corso degli imminenti combattimenti, quelle prodi canaglie non esitano a salutare virilmente e con impeccabile rispetto il loro potente sovrano, ostentando quasi con fierezza la loro disperata condizione di condannati alla pena capitale.

Tutto ciò potrebbe essere considerato apprezzabile e forse anche singolarmente edificante, se solo vi fosse un minimo di attendibilità storica in questa presunta consuetudine.

In realtà, si tratta di un’autentica bufala. Quella cerimonia protocollare prettamente cinematografica non corrisponde affatto ad una tradizione romana, visto che assolutamente nulla del genere compare nelle fonti antiche. Innanzi tutto, i gladiatori non erano in alcun modo predestinati a soccombere nell’arena. Anche se ovviamente esposti all’elevato rischio di riportare qualche ferita in combattimento, essi superavano quasi sempre la prova senza perdere la vita: un epilogo altamente auspicabile per tutti, non per qualche forma di “buonismo” ante litteram, ma perché quei lottatori professionisti valevano una fortuna. In ogni caso, la tanto strombazzata frase da morituri non è mai stata declamata da alcun gladiatore, né ha mai risuonato in alcun anfiteatro romano. Per contro, si ha notizia di un saluto pressoché identico pronunciato una sola volta, in un contesto storico del tutto particolare ed in occasione di uno spettacolo prettamente navale: una naumachia.

Le naumachie, com’è noto, erano il più grandioso degli spettacoli offerti dagli imperatori al popolo romano: esse si prefiggevano di mostrare dal vivo un vero e proprio combattimento fra dei reparti navali cui veniva attribuito il ruolo di rappresentare delle flotte celebri dell’antichità classica: Fenici, Ateniesi, Persiani, ecc. La flotta romana, naturalmente, non era mai rappresentata, sia perché entrambe le formazioni navali contrapposte dovevano poter ricevere il tifo del pubblico, sia perché non avrebbe avuto senso rischiare che, pur nella finzione di un combattimento inteso solo come spettacolo (ma non per questo meno realistico e soggetto all’aggressività dei partecipanti), le navi con le insegne del Senato e del popolo romano potessero trovarsi in difficoltà o risultare addirittura sopraffatte da quelle avversarie: una sciagurata eventualità che, essendo stata storicamente rarissima per le primissime grandi flotte romane, era presto divenuta inimmaginabile per effetto del potere marittimo di Roma.

L’invenzione delle naumachie risale a Giulio Cesare, che in occasione del suo quadruplice trionfo (46 a.C.) organizzò uno spettacolo di combattimento navale nel Campo Marzio, dopo avervi fatto scavare un laghetto. Questo era collocato in una delle due depressioni naturali esistenti in zona (Valle e Vallicella), laddove fin dall’epoca più arcaica c’era una palude (palus Caprae). La battaglia navale avvenne fra due formazioni navali simulanti la flotta Tiria e quella Egizia, con biremi, triremi e quadriremi, sulle quali erano imbarcati 2000 combattenti. Lo spettacolo attirò tanta di quella gente, anche da fuori Roma, che nella calca perirono schiacciate diverse persone, inclusi due senatori. Il laghetto venne poi colmato di terra, ma poiché l’acqua tornava a ristagnarvi, Agrippa lo riscavò, conferendogli una sistemazione amena e definitiva: lo stagnum Agrippae, alimentato dall’acqua Vergine e con un emissario costituito dal canale Euripo sfociante nel Tevere.

Un paio di decenni dopo, Augusto, volendo anch’egli offrire al popolo romano uno spettacolo di combattimento navale (2 a.C.), fece scavare un bacino per la naumachia a Trastevere, al centro dell’ansa del fiume compresa fra il Gianicolo e l’odierna Porta Portese. Questo bacino, alimentato da un apposito acquedotto (acqua Alsietina), era collegato al Tevere da un canale navigabile attraversato da un ponte mobile. La battaglia navale avvenne fra trenta biremi e triremi (oltre al naviglio minore), simulanti le flotte dei Persiani e degli Ateniesi, con 3000 combattenti imbarcati. A tale spettacolo vollero assistere moltissimi forestieri e quasi tutta la popolazione dell’Urbe, tanto che Augusto fece presidiare la città dalle guardie per non lasciarla esposta alle rapine.

La successiva naumachia fu organizzata dal quarto imperatore: Claudio, il cui principato era iniziato con la conquista della Britannia e si era poi illustrato anche con l’inizio dei giganteschi lavori per la costruzione del nuovo porto marittimo di Roma, destinato ad essere inaugurato dopo la sua morte, da suo figlio adottivo Nerone. Ma ancor prima delle predette due imprese, fra i suoi primi atti di governo egli aveva dato inizio ai lavori per la bonifica dei terreni coperti dalle acque del lago Fucino, secondo uno dei tanti progetti geniali di Cesare. Si trattava di un’opera alquanto complessa, che consisteva nel creare un emissario del lago mediante lo scavo di un canale che, passando sotto al Monte Salviano in un traforo di 5,5 km, andava poi a riversarsi nel fiume Liri. I lavori, rallentati dalla problematica consistenza delle rocce da perforare, durarono undici anni, impiegando continuativamente trentamila uomini. Al termine, prima di far mettere in comunicazione diretta il lago con l’emissario, l’imperatore volle conferire la massima visibilità all’evento organizzando nelle acque del Fucino una grande naumachia (52 d.C.).

Con questo spettacolo prettamente navale, allestito con una grandiosità mai vista fino allora (né mai più vista, da allora in poi), egli intendeva rinverdire gli allori trionfali ottenuti per il suo fugace intervento personale in Britannia, dopo una navigazione da Roma a Marsiglia e nei fiumi della Gallia fino alla Manica. Per questo suo trasferimento a bordo delle navi rostrate (in cui il solo pericolo incontrato erano state due maestralate nel mar Ligure e nel Golfo del Leone), Claudio si era sentito pari al più grande dei comandanti in capo delle flotte romane, Marco Agrippa, vincitore di tre guerre marittime e decorato da Augusto con la corona navale, una onorificenza assolutamente eccezionale. Lo stesso Claudio, infatti, dopo il trionfo britannico aveva fatto apporre sul frontone del Palazzo imperiale una corona navale (come se egli se la fosse attribuita da solo) vicino alla corona civica che il Senato aveva a suo tempo realmente conferito ad Augusto.

Per la naumachia erano state immesse nel lago due forze navali contrapposte, simulanti la flotta Rodia e quella Sicula, ciascuna delle quali includeva cinquanta quadriremi e triremi. Gli equipaggi che vi dovevano imbarcare per prendere parte al combattimento navale erano costituiti da criminali condannati a morte: in totale, diciannovemila uomini. Lo specchio d’acqua da utilizzare per la battaglia era pertanto stato delimitato da un cordone di navi da guerra ed altri natanti armati di catapulte e balestre, presidiati da classiari e pretoriani, per evitare che le navi assegnate ai condannati potessero prendere la fuga anziché combattere. Prima di salire a bordo i condannati si trovavano radunati tutti insieme quando videro Claudio che si preparava ad assistere allo spettacolo vestito con l’abito militare. Allora essi lo salutarono come si saluta un comandante militare acclamato imperator, ricordandogli la loro situazione giuridica: “Ave imperator, morituri te salutant”, espressione grosso modo equivalente a “Salve Generale, i condannati a morte ti salutano”.

Claudio, che anche in quell’occasione pareva con la testa fra le nuvole – assorto da gravissimi problemi come quello delle nuove lettere ch’egli intendeva aggiungere all’alfabeto latino –, rispose sovrappensiero: “Salve a voi!”, senza badare al senso delle sue parole. Per contro, il significato non sfuggì affatto ai condannati a morte, che interpretarono immediatamente quell’augurio di buona salute come un’evidente concessione della grazia. Pertanto, dopo essersi imbarcati e schierati per la battaglia navale, essi si limitarono a navigare cautamente verso le navi avversarie, incrociandole senza arrecarsi reciprocamente alcun danno. Ci volle allora tutta l’energia dei classiari e dei pretoriani per convincere quei delinquenti che la loro condanna non era affatto stata annullata e che l’eventuale successiva grazia dipendeva dal coraggio ch’essi avessero dimostrato nell’affrontare la flotta contrapposta. Finalmente essi si risolsero ad impegnarsi a fondo e diedero vita ad un combattimento talmente aspro e realistico, da indurre l’imperatore a premiare davvero il valore dei partecipanti, condonando la pena capitale a tutti i sopravvissuti.

© 2014 - Proprietà letteraria di DOMENICO CARRO.

  

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