Rivista bimestrale Voce Romana
n° 27 - maggio-giugno 2014

Sulle onde della Storia Romana (IX)


Navalia


di DOMENICO CARRO


Se noi Italiani abbiamo potuto essere definiti, con convincente approssimazione, “un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”, quali sono le caratteristiche salienti che riconosciamo nei nostri antichi ed ammirati progenitori? Nel considerare i maggiori pregi dei Romani, chiunque conservi ancora qualche minima reminiscenza classica non dovrebbe aver dubbi, né sulle loro rinomate virtù militari, né sull’innato senso di equità naturale che li ha portati a stabilire i principi giuridici che sono tuttora alla base dell’odierno Diritto, perlomeno per la nostra civiltà occidentale. Ma ciò che dei Romani colpisce sicuramente tutti, anche i più smemorati, è il loro straordinario talento di costruttori di opere mirabili, per grandiosità, splendore artistico, razionalità, cura tecnica e rispondenza alle esigenze dei cittadini. Questo è universalmente noto, visto che tutte le regioni europee e mediterranee che facevano parte del mondo romano permangono disseminate di superbe vestigia di teatri, anfiteatri, circhi, terme, templi, basiliche, mercati, caseggiati, ville, fori, archi ed acquedotti, oltre alla ramificata ed efficientissima rete stradale che da Roma si irradiava e sempre a Roma – secondo il noto detto – riconduceva. Per contro, è molto meno noto che delle identiche capacità di grandi costruttori sono state evidenziate dai Romani anche per ogni esigenza della navigazione: costruzioni navali ed opere marittime.

A questo punto molti iniziano già a storcere il naso, essendo convinti che la navigazione antica fosse appannaggio delle popolazioni fenicio-puniche e greco-ellenistiche. Questo è in parte vero, ma occorre tener presente che tutte queste popolazioni (sulle sponde del nord-Africa e dell’intero bacino orientale del Mediterraneo) sono state assorbite nell’impero romano; non basta: va anche ricordato che tale risultato si è reso possibile solo perché le loro flotte da guerra – espertissime ed orgogliosamente pugnaci – hanno dovuto rinunciare a tutte le loro tradizionali prerogative dopo essere state reiteratamente sconfitte per mare da quelle romane. A buon diritto, quindi, questo ampio e benefico mare Mediterraneo venne chiamato dai Romani “mare nostrum”.

Parliamo dunque delle costruzioni navali. Siamo certi che i Romani abbiano utilizzato delle navi fin dai secoli più remoti della loro storia, ma la nostra conoscenza di quell’epoca arcaica è comunque troppo sommaria per farci capire se e come essi costruissero quelle navi. Le prime notizie storiche su tale argomento iniziano con la cattura delle navi di Anzio (340 a.C.), che vennero in parte immesse nei già esistenti Navalia di Roma. Un salto di qualità si verificò nella prima guerra Punica, quando i Romani misero in cantiere la loro prima grande flotta di quinqueremi, replicando forse lo scafo di una nave cartaginese arenata, oppure – ipotesi più verosimile – avvalendosi dell’esperienza di carpentieri navali di qualche marineria alleata. I fabri navales romani pervennero successivamente a progettare un tipo di quinquereme molto più veloce e manovriera, dopo aver studiato le peculiarità costruttive di due pregevoli quadriremi nemiche catturate in mare. Da allora le tecnologie impiegate dai cantieri navali romani hanno subito dei progressi costanti, giungendo, in epoca imperiale, a livelli di indubbia eccellenza, sia per la quantità delle navi varate, sia per la qualità nautiche del naviglio. Una splendida riprova di tali progressi ci è venta dai relitti delle due gigantesche navi di Nemi, recuperate dal lago negli anni ’30 e poi purtroppo incendiate durante la guerra. Per fortuna ci fu il tempo di sottoporre quegli scafi a dei rilevi alquanto accurati, che hanno fornito l’evidenza della perfezione tecnica raggiunta dall’architettura navale romana, delle innovazioni tecnologiche introdotte a bordo e della raffinatezza degli allestimenti. Per averne una percezione diretta, basta visitare il Museo Nazionale Romano, nel Palazzo Massimo (primo piano, Sala X) a Roma, ed il Museo delle Navi Romane di Nemi, sulla riva settentrionale del lago.

Anche nel campo delle opere marittime i Romani riuscirono a superare tutti gli altri popoli dell’antichità classica. Oltre ad ampliare e migliorare i porti esistenti su tutte le coste dell’impero, essi ne costruirono ex novo molto altri, quali il vastissimo complesso portuale imperiale di Roma (il Portus Augustus Urbis Romae, realizzato da Claudio e Traiano vicino all’attuale aeroporto intercontinentale di Fiumicino) ed il porto di Centumcellae, odierna Civitavecchia. Nei lavori portuali i Romani poterono sfruttare ottimamente le tecniche – tutte romane – descritte da Vitruvio in merito alla creazione di moli e dighe foranee, ed all’uso della pozzolana per cementare le strutture sommerse. Un analogo impegno venne profuso per i fari. Il riconosciuto ed ammirato antesignano era ovviamente costituito dall’altissima torre eretta dai Tolomei sull’isola di Faro, davanti ad Alessandria: un’opera annoverata fra le sette meraviglie del mondo antico. Da parte dei Romani venne realizzata una vera e propria rete di fari, disseminandoli lungo tutte le coste dell’impero, in prossimità dei punti cospicui e dei maggiori porti. Molti di questi fari raggiunsero delle dimensioni ragguardevoli, ma quello che più di ogni altro poté fieramente rivaleggiare con il modello alessandrino fu il grandioso faro a quattro (o cinque) piani degradanti che venne eretto sull’isola artificiale posta all’imboccatura del porto imperiale di Roma.

Torniamo dunque nell’Urbe, ove erano presenti, oltre all’antico Portus Tiberinus ed alle più vaste costruzioni portuali dell’Emporium, i celebri Navalia cui si è già accennato. Quando si parla dei “navalia” dei Romani, ci si riferisce alle strutture specialistiche che avevano la duplice funzione di arsenale e di base navale della flotta romana. In effetti, come accade oggigiorno, l'arsenale provvede alle manutenzioni ed alle riparazioni delle navi, mentre la base navale principale ha la funzione di accogliere le unità della flotta al loro rientro dall'attività operativa. Nell'antichità tale funzione includeva il rimessaggio di tutte le navi, che venivano tirate a secco sugli scali d’alaggio coperti che conosciamo attraverso varie rappresentazioni iconografiche antiche: quelle che mostrano una serie di archi sotto ai quali spuntano le prore rostrate delle navi. Occasionalmente la disponibilità degli scali veniva sfruttata anche per impostarvi delle nuove costruzioni navali, conferendo in tal modo ai navalia anche la funzione di cantieri navali. Ma tale impiego andrebbe considerato come una funzione accessoria e non esclusiva dei navalia. Sappiamo infatti che nell'antichità delle intere flotte potevano essere costruite anche su scali di fortuna sistemati su di una spiaggia marina, o sul greto di un fiume, o sulla riva di un lago, purché in vicinanza di una foresta da cui trarre i vari tipi di legname necessari.

I Navalia di Roma furono certamente collocati sulla riva sinistra del Tevere, lungo la sponda del Campo Marzio. In un primo tempo essi furono presumibilmente concentrati nel tratto più a valle di quella riva, cioè di fronte all'isola Tiberina. Si suppone che essi si estesero successivamente più a monte, giungendo fino all'altezza del ponte Elio (ora S. Angelo). I Navalia, pur essendo protetti, erano quindi al di fuori delle mura repubblicane. Dopo la risistemazione dell'antica cinta muraria di Roma, avvenuta nel III sec. a.C., il tratto delle vecchie mura che correva parallelo al fiume fra le pendici del Campidoglio e quelle dell'Aventino (lasciando fuori dalle mura il Portus Tiberinus) venne abbattuto. Conseguentemente, le mura interrotte in coincidenza dei due predetti tagli vennero prolungate fino alla più vicina riva del fiume, e cioè dal Campidoglio al Tevere (all'altezza dell'estremità nord del porto fluviale) e dall'Aventino al fiume (all'altezza dell'antico Ponte Sublicio). Con tale risistemazione il Portus Tiberinus venne inglobato nella cinta muraria di Roma, mentre i Navalia continuarono a rimanerne fuori. Tuttavia, per consentire il passaggio dal porto ai Navalia, venne aperta una porta nel tratto di mura più vicino al fiume. Questa porta, chiamata "Porta Navale", deve essere stata oggetto – come quasi tutte le altre – di una ricostruzione all'epoca di Augusto: il relativo arco era probabilmente ancora visibile nei pressi del Teatro di Marcello fino al XV secolo, come è stato desunto da una stampa dell'epoca. Quella stessa porta era comunque ben conosciuta nel II sec. d.C., come risulta dal breve passo del grammatico Sesto Pompeo Festo che parla della Navalis porta.

Non lontano da quella stessa area era presente il Tempio di Nettuno, collocato tra il Campo Marzio ed il Circo Flaminio; il suo presunto orientamento in direzione dei Navalia lascia intendere che il relativo culto fosse specificamente collegato con la flotta da guerra romana, prevalentemente basata nell’Urbe nei secoli dal IV al II a.C. e poi rappresentata da navi ivi distaccate per esigenze di Stato.

Una parte dei Navalia risulta ancora presente nel VI sec. d.C., visto che lo storiografo bizantino Procopio di Cesarea vi si recò e poté ammirarvi un'antichissima nave, che era allora conosciuta come la "Nave di Enea". L’ampio edificio che custodiva quel venerato reperto (verosimilmente: un’arcaica pentecontore) fu quindi primo museo navale dell'Urbe.

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