Rivista bimestrale Voce Romana
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Le battaglie navali, da che mondo è mondo, vengono ingaggiate solo se valutate utili o necessarie, e non per gareggiare ai fini dell’assegnazione di un trofeo. Tuttavia la storiografia più frettolosa e superficiale (cioè quella che si legge più facilmente, ha una maggiore diffusione e riscuote un più ampio gradimento) tende ad interpretare ogni combattimento in mare come una prova di abilità in cui fieramente vogliono cimentarsi entrambi i contendenti: qualcosa di concettualmente analogo alla strampalata sfida “birra e salsicce” nel film “Altrimenti ci arrabbiamo!”. Per chi non la ricorda, si è trattato del modo prescelto dai due protagonisti – Bud Spencer e Terence Hill – per decidere a chi dovesse andare un’autovettura sportiva di cui erano entrati in possesso: avendo scartato l’idea di giocarsela a braccio di ferro, perché il primo era un nerboruto marcantonio, oppure a carte, perché il secondo era un baro matricolato, si accordarono su di una bislacca gara di resistenza: vinceva chi riusciva ad ingurgitare più wurstel e boccali di birra.
Trascurando gli aspetti grotteschi tipici di quel fortunato genere cinematografico, lo stesso criterio di scelta viene spesso attribuito ai condottieri che si affrontarono nelle maggiori battaglie navali della storia antica. Nelle relative narrazioni, infatti, è piuttosto frequente trovare espressioni del tipo: “temendo l’esercito nemico, ripose ogni speranza nella flotta”, oppure “decise di risolvere la guerra con una grande battaglia navale”. Secondo questi commentatori, fra i quali figurano anche storici greci di peso, come Polibio, Plutarco, Appiano Alessandrino e Cassio Dione, la fortuna in guerra poteva essere orientata a proprio favore scegliendo autonomamente a quali forze, navali o terrestri, far combattere la battaglia finale, né più né meno come fa il duellante cui è lasciata la scelta delle armi. Ragionando in modo così semplicistico, si finisce per considerare le battaglie navali alla stregua di gare fra belligeranti che, per astuzia o per capriccio, hanno occasionalmente scelto quel peculiare tipo di competizione fra le varie altre possibili disfide.
Per non lasciarci fuorviare da interpretazioni fantasiose, osserviamo che, nell’intero arco dell’ultramillenaria storia di Roma, la sola guerra che è stata risolta scegliendo preventivamente le forze cui affidare il combattimento decisivo è stata quella fra Romani ed Albani, interamente delegata ai soli Orazi e Curiazi: si trattò evidentemente di un evento leggendario, tramandato in epoca arcaica da una tradizione talmente incerta da lasciare seri dubbi perfino a Tito Livio. Concentriamo allora l’attenzione sulle guerre condotte dai Romani in epoca storica, cioè a partire dal IV-III sec. a.C., quando delle consistenti flotte di Roma iniziarono a solcare il mare con crescente sicurezza e determinazione.
Dall’analisi dei conflitti che si svolsero ininterrottamente dalla prima Guerra Punica fino alla pace instaurata da Augusto, sempre con delle considerevoli implicazioni navali, emerge chiaramente la spiccata attitudine dei Romani ad utilizzare in modo oculato le proprie flotte da guerra per conseguire nel tempo dei risultati strategicamente importanti e duraturi, senza lasciarsi attrarre dal fascino dei successi più immediati ed appariscenti, ma effimeri. L’altro importante elemento desumibile dall’esame delle predette guerre, così come dalla storia navale di tutti i tempi, è l’effettiva funzione delle flotte. Queste non sono uno strumento bellico alternativo agli eserciti, per duellare per mare anziché sul terreno, ma hanno un ruolo del tutto diverso, ancorché parzialmente complementare a quello delle forze terrestri. Se gli eserciti debbono difendere il proprio territorio ed eventualmente conquistarne altri, le flotte provvedono sia a proteggere le patrie coste ed a sbarcare su altre sponde, sia alla tutela della sicurezza dei traffici navali di proprio interesse, all’interdizione dei movimenti delle flotte avversarie ed al blocco dei rifornimenti navali nemici. Per essere in grado di assolvere tutti questi compiti, le forze marittime debbono tendere ad acquisire quella straordinaria posizione di forza e supremazia che noi Italiani chiamiamo il “dominio del mare”, espressione perfettamente coincidente con quella coniata dai Romani: imperium maris.
Con il dominio del mare non ci si limita ad esercitare una sorta di prestigiosa sovranità sulla sconfinata distesa d’acqua (comunque soggetta all’incontenibile potenza del mare e dei venti), ma si possono gradualmente ottenere degli effetti di tale importanza strategica da propiziare la vittoria finale. Ciò in quanto la libera esecuzione di operazioni in mare e di sbarchi anfibi, il mantenimento dei propri rifornimenti navali vitali e l’inibizione dei traffici marittimi nemici comportano inevitabilmente una progressiva flessione delle sorti della guerra a proprio vantaggio. I Romani ne furono perfettamente convinti e lo dimostrarono nei fatti, con delle decisioni sempre coerenti. Essi furono inoltre i primi a sintetizzare la complessa serie dei concetti strategici del potere marittimo (il sea power degli anglosassoni), apparentemente astratti e vagamente nebulosi, in una sola frase chiara, semplice, nitida, tagliente e lucente come una spada del miglior acciaio:
Questo pensiero, scritto da Cicerone, che lo attribuisce a Pompeo Magno, esprime il convincimento che “chi è padrone del mare diviene padrone di tutto”: una concezione che ha evidentemente condizionato le scelte dei duci romani fin dalla prima Guerra Punica. Questo stesso concetto, che dopo gli antichi Romani sembrò dimenticato fino all’epoca moderna, è stato ripreso solo 200 anni fa dall’ufficiale di marina napoletano Giulio Rocco, che nelle sue “Riflessioni sul potere marittimo” (1814) lo formulò in termini pressoché identici:
Settantasei anni dopo, l’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan scrisse il suo celebre “The influence of sea power upon history, 1660-1783” (1890), universalmente considerato il testo fondamentale della teoria del potere marittimo. Nell’introdurre le proprie riflessioni storiche egli iniziò con un’analisi della strategia marittima vincente adottata dall’antica Roma nell’ampio scenario della seconda Guerra Punica. Ciò conferma il valore concettuale e la perenne validità dell’idea di dominio del mare concepita ed attuata dai Romani, anche se esaminata sotto la severa ottica professionale di uno dei maggiori studiosi navali dell’epoca moderna.
Ripercorrendo a volo d’uccello la storia navale romana, non è difficile avere una conferma della costante attenzione dei Romani all’esigenza del dominio del mare. Questo è infatti stato, innanzi tutto, lo scopo verace della prima Guerra Punica, combattuta con enorme dispendio di energie e di risorse (equipaggi, flotte e denaro) fino a privare definitivamente i Cartaginesi della loro pur antica, smisurata e saldissima supremazia navale.
I Romani ne fecero poi un uso continuo nei due secoli dell’espansione transmarina, poiché solo grazie al controllo ed alla padronanza dei mari essi poterono sbarcare su tutte le coste e le isole del Mediterraneo, procedendo quindi, sempre per via marittima, alla progressiva conquista delle varie province d’oltremare, fino a costituire il loro immenso impero tutt’attorno al Mare nostrum. Per conseguire questo risultato essi dovettero naturalmente fare i conti con le altre maggiori potenze navali rivierasche, sconfiggendone le rispettive flotte in modo da riconfermare la propria volontà di dominio sull’intero mare. Essi riuscirono anche a superare situazioni di estrema difficoltà, nelle rare occasioni in cui si trovarono a combattere contro avversari temporaneamente più forti sul mare, come accadde nelle guerre Mitridatiche; ma anche allora essi non persero mai di vista l’esigenza di ribaltare il rapporto di forze proprio nel teatro marittimo, fino ad annientare le flotte nemiche.
Nel contempo i Romani sostennero una lunga ed onerosa serie di guerre contro la pirateria, perché questa costituiva una sfuggente ma insidiosa e letale minaccia alla libertà della navigazione. Tale impegno venne infine concluso vittoriosamente da Pompeo Magno, cui il Senato decretò il trionfo motivandolo, non a caso, “per aver restituito ai Romani l’imperium maris”.
Dopo l’epocale vittoria di Azio, seguita a tre conflitti prevalentemente navali, il riferimento al dominio del mare rimase anche nella prosa di Augusto: a proposito della guerra sicula (mare pacavi) e nella celebrazione della pace, sempre riferita alla terra ed al mare (terra marique).
Ma l’applicazione su più vasta scala della strategia del dominio del mare era già avvenuta, come si è detto, nella seconda Guerra Punica, per sconfiggere Annibale nonostante le disastrose sconfitte che questi aveva inflitto alle legioni romane. Il sintomo esteriore di tale strategia fu il cosiddetto temporeggiamento di Fabio Massimo, criticatissimo dai “falchi” dell’epoca. Il felice risultato finale fece però scrivere ad Ennio: “Un uomo solo, temporeggiando, rialzò le nostre sorti”.
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