Rivista bimestrale Voce Romana
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Se risulta piuttosto semplice ricostruire la progressione delle esplorazioni navali condotte dai Romani verso nord (oggetto dell’articolo “Ma dove vanno i marinai?” pubblicato nel numero precedente), scarsissime sono le notizie sulle navigazioni oceaniche che essi effettuarono verso ponente. Sappiamo comunque che, in quella direzione, essi raggiunsero le isole Fortunate, ovvero le Canarie. Queste isole, infatti, furono il punto d’arrivo dell’esplorazione navale compiuta sotto gli auspici di Augusto dal re di Mauretania, il dotto e raffinato Giuba II (educato a Roma; genero di Marco Antonio). È peraltro probabile che le prime informazioni su quelle isole fossero già state acquisite dai Romani un secolo e mezzo prima, quando Scipione Emiliano, dopo la resa di Cartagine, inviò Polibio con una squadra navale ad effettuare una perlustrazione geografica lungo l’intera costa nordafricana. Certo è che la rotta per raggiungere le isole Fortunate era ben nota nell’81 a.C., quando Sertorio, avendo parlato con dei marinai che tornavano da lì, meditò di andarci anche lui. In epoca imperiale quell’arcipelago fu oggetto di traffici commerciali da parte delle onerarie romane, che ricercarono scambi favorevoli approdando sulle isole maggiori, ad iniziare da quella più orientale, chiamata Capraria (odierna Lanzarote).
Oltre le Canarie, verso ponente, ci sono le Americhe, cui si può facilmente giungere navigando a vele spiegate un poco più a sud per sfruttare il favorevole e costante soffio degli alisei. Una rotta del genere avrebbe forse potuto essere percorsa fino alle coste centroamericane da qualche nave romana? Certamente si: le grosse onerarie erano perfettamente in grado di effettuare una lunga navigazione d’altura in acque oceaniche lungo la fascia tropicale. I Romani erano inoltre perfettamente consapevoli della sfericità della Terra ed erano già convinti – come poi lo sarà anche Cristoforo Colombo – che fosse possibile raggiungere l’India navigando verso ponente. Ce lo conferma esplicitamente Seneca, scrivendo nelle sue Questioni Naturali: «Qual è la distanza fra le estreme coste della Spagna e quelle dell’India? Lo spazio di pochissimi giorni, se la nave è spinta da vento favorevole». Con tali premesse, l’ipotesi che qualche nave romana abbia effettivamente raggiunto le coste americane non ha nulla di inverosimile e potrebbe anzi essere provata, secondo alcune interpretazioni, dal ritrovamento di reperti archeologici di origine romana giunti al di là dell’Oceano in epoca antica. Fra le varie segnalazioni di tali ritrovamenti, perlopiù non documentati scientificamente, la più credibile riguarda una piccola testa in terracotta, attribuita all’arte romana del II sec., rinvenuta nel 1933 in un’area archeologica precolombiana del Messico. Questo e molti altri indizi sono stati indagati con serietà e senza voli di fantasia da Elio Cadelo nel suo libro Quando i Romani andavano in America, giunto ora alla terza edizione.
Tralasciando le eventuali navigazioni transatlantiche, che potrebbero essere davvero avvenute (senza tuttavia determinare l’apertura del nuovo mondo al vecchio mondo, come accadde dopo le epocali traversate di Colombo), né le Canarie né le coste dell’Africa occidentale riscossero un consistente interesse da parte degli armatori romani, a causa dei modesti profitti che si potevano ricavare dal commercio dei prodotti locali. Ben altri profitti e ben altri interessi erano invece offerti dalle rotte che partivano a levante dell’Africa, verso sud e verso l’estremo Oriente.
Quando Ottaviano, avendo sconfitto Cleopatra, fece dell’Egitto una provincia romana, ai Romani si dischiuse contestualmente la possibilità di navigare nel Mar Rosso, le cui acque risultavano ancora raggiungibili dal Mediterraneo attraverso l’antico canale che collegava il vertice del Delta del Nilo con i Laghi Amari ed andava a sfociare nei pressi del porto di Arsinoe (od. Suez). Quel canale, secondo la testimonianza del geografo Strabone, era largo 45 m ed aveva una profondità sufficiente per il transito di mercantili di grande stazza. Tale utilizzo dovette tuttavia essere compromesso dal progressivo insabbiamento di quella via d’acqua, che risultò del tutto impraticabile perlomeno a partire dall’epoca di Plinio il Vecchio (che descrive i percorsi terrestri alternativi), fino a quando Traiano fece interamente scavare un nuovo canale (detto Fossa Traiana o Amnis Traianus) destinato a rimanere pienamente efficiente per circa sette secoli.
Per acquisire le necessarie conoscenze sulle possibilità di navigare nel Mar Rosso verso i porti dell’Arabia Felice (odierno Yemen), rinomati per la disponibilità di prodotti di lusso particolarmente ricercati (profumi, incensi e perle), Augusto incaricò il prefetto d’Egitto, Elio Gallo, di condurre un’esplorazione delle coste dell’intera riva arabica. La spedizione romana, per la quale vennero costruite 80 navi da guerra e 130 onerarie, perlustrò le acque costiere del Mar Rosso fino al porto nabateo chiamato Villaggio Bianco, subendo molte perdite per gli scogli affioranti, per le malattie e soprattutto per le informazioni capziose fornite dalla guida locale, il nabateo Silleo, intenzionato a far fallire la missione per tutelare il monopolio commerciale arabo. La spedizione proseguì l’anno successivo verso sud, per via terrestre, venendo rallentata in ogni modo dai consigli fraudolenti, ma giunse infine nell’Arabia Felice, da cui poté poi rientrare molto più rapidamente, per via terrestre e navale fino ad Alessandria. Nonostante il duro prezzo pagato in termini di perdite di uomini e navi, la missione condotta da Elio Gallo conseguì comunque il proprio scopo, fornendo ai Romani la conoscenza delle popolazioni, dei luoghi e delle insidie presenti lungo la costa orientale del Mar Rosso, ed aprendo al commercio romano le lucrose rotte verso l’Arabia Felice.
Nello stesso mare gli armatori romani inviarono le loro navi anche lungo la costa africana, laddove il più meridionale porto soggetto ai Romani era quello di Berenice (vicino all’odierno Ras Benas). Più a sud, il commercio navale dell’impero romano si spingeva ben oltre il Corno d’Africa, giungendo nell’emisfero sud fino a Rapta, sulla costa dell’odierna Tanzania all’altezza di Zanzibar. Per quanto apprezzati e ricercati dai Romani fossero i prodotti reperibili negli ancoraggi dell’Africa orientale (soprattutto avorio, corni di rinoceronte e gusci di tartaruga), il flusso prevalente del commercio navale che, al di fuori del Mar Rosso, si inoltrava nell’Oceano Indiano non proseguiva lungo la costa somala, ma da tale rotta si biforcava dirigendosi verso levante, toccando prima i porti più meridionali della penisola arabica e poi puntando risolutamente verso l’India.
L’impennata dei traffici navali in tale direzione, perlomeno decuplicati sotto il principato di Augusto, venne accompagnata dall’avvio di calorose relazioni diplomatiche fra i Romani e gli Indiani, come si vide dalle due ambascerie provenienti dall’India che raggiunsero lo stesso Augusto, nel 25 a.C. a Tarragona e cinque anni dopo a Samo. Fra i vari omaggi offerti all’imperatore da questa seconda delegazione indiana vi furono anche delle tigri, che in quell’occasione furono viste dai Romani per la prima volta. Le buone relazioni con i potenti dell’India non furono comunque sufficienti, allora come ora, a garantire la sicurezza nelle acque indiane contro gli attacchi dei pirati. La navi da carico, pertanto, oltre ad imbarcare dei nuclei di sicurezza costituiti da arcieri (come si fa oggigiorno con i Fucilieri di Marina), cercarono di regolare le proprie rotte per evitare il transito vicino ai porti che avevano la fama di ospitare navi dedite alla pirateria.
All’epoca di Plinio il Vecchio gli armatori romani avevano da poco modificato la loro rotta per l’India come ci viene spiegato dallo stesso erudito ammiraglio della Flotta Misenense nella sua Naturalis Historia: dopo aver lasciato i porti dell’Arabia Felice, anziché procedere con rotta parallela alla costa meridionale della penisola arabica (e, quindi, con il vento del monsone estivo in poppa) dirigendosi verso la foce del fiume Indo, come si faceva in precedenza, i comandanti iniziarono ad affrontare con decisone una lunga navigazione d’altura in pieno oceano, puntando direttamente sui porti più meridionali dell’India. Su questa nuova rotta, che tagliava il mare Arabico in tutta la sua estensione, essi navigavano per circa quaranta giorni sfruttando il monsone (quello estivo nel viaggio di andata e quello invernale nel percorso di ritorno), nonostante il severo tormento provocato dalla protratta navigazione con vento e mare prossimi al traverso.
Il commercio marittimo romano si estese anche al di là della punta meridionale dell’India, sia sull’isola di Taprobane (od. Sri Lanka) – da cui l’imperatore Claudio ricevette un’ambasceria – sia su vari porti ed ancoraggi della costa orientale fino alle foci del Gange. Da Taprobane, che già commerciava con i Seri (gli antichi Cinesi), le rotte mercantili attraversarono anche il Golfo del Begala per entrare nel Mar Cinese Meridionale e raggiungere le coste della lontanissima Serica (odierna Cina), ove pervennero almeno due ambascerie inviate da imperatori romani, a partire da Marco Aurelio. Per le importazioni dei prodotti di lusso provenienti dall’Arabia Felice, dall’India e dalla Serica (famosa per la seta) l’Impero romano spendeva così cento milioni di sesterzi all’anno, come riferì Plinio il Vecchio, soggiungendo: “tanto ci costano il lusso e le donne”.
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