Rivista bimestrale Voce Romana
n° 24 - novembre-dicembre 2013

Sulle onde della Storia Romana (VI)


Ma dove vanno i marinai?


di DOMENICO CARRO


C’era poco da meravigliarsi, nell’antichità classica, se il comandante di una nave in procinto di lasciare il porto rispondeva evasivamente a chi gli domandava la destinazione della sua navigazione. In effetti, quelle non erano domande da farsi, soprattutto se nessuno si era preso la briga di pubblicizzare la meta del viaggio, come si faceva normalmente per incoraggiare l’imbarco di passeggeri e merci prima di salpare. Allora, se la partenza avveniva nel più totale silenzio, i casi erano due: o la nave era stata già precettata per il trasporto esclusivo di certe persone o di un determinato carico, senza alcuna possibilità di ulteriori imbarchi (per motivi di capienza, di urgenza o di riservatezza), oppure la rotta prestabilita andava tenuta rigorosamente segreta.

Quest’ultimo caso non era affatto infrequente, poiché i guadagni del commercio marittimo erano tanto maggiori quanto minore era la concorrenza nei più vantaggiosi punti di imbarco del carico. L’ideale, per qualsiasi comandante, era di trovare un ancoraggio sconosciuto ov’erano presenti delle favorevoli condizioni di acquisto di merci di buona qualità, e di poter continuare a sfruttare da solo tale canale privilegiato quanto più a lungo possibile, prima che altri ne seguissero l’esempio, privandolo del monopolio e riducendogli conseguentemente i profitti. In tali situazioni, si comprende bene quanto fosse necessario il riserbo e quanto dovesse essere tassativa la consegna del silenzio per tutti i membri dell’equipaggio.

Giunti sui mari dopo molte altre popolazioni marinare – ad iniziare dai celebratissimi Fenici, Etruschi e Greci – i Romani furono particolarmente attivi nel ricercare nuove opportunità per il loro commercio marittimo, non solo nel Mediterraneo, i cui porti erano per lo più conosciuti da parte di tutti i naviganti esperti, ma estendendo sempre più le proprie rotte anche nelle acque oceaniche.

Tale estensione, talvolta incentivata dalle esigenze militari di controllo navale delle coste di una regione, altre dalla pura ricerca di nuove aree ove reperire i prodotti d’interesse, era iniziata nell’Oceano Atlantico in seguito alle operazioni condotte dai Romani nelle ultime due decadi del II sec. a.C. per sedare le ribellioni verificatesi nella penisola iberica. In quel contesto, il propretore Quinto Servilio Cepione aveva ripristinato la calma in Lusitania avvalendosi del concorso di una flotta romana dislocata nelle acque fra il porto di Cadice e la costa più a nord, al di là del profondo estuario del fiume Beti (l’odierno Guadalquivir). L'attività navale svolta dai Romani in quell’area, anche in ore notturne, aveva indotto il propretore a far costruire all’imboccatura del predetto estuario il grande faro ricordato dal geografo Strabone come la Torre di Cepione.

Le operazioni contro Lusitani ripresero circa un decennio dopo, venendo affidate al comando di un proconsole. Uno di essi, Publio Licinio Crasso (il padre di Marco, che diverrà famoso per il proprio accordo triumvirale con Cesare e Pompeo), condusse una spedizione vittoriosa utilizzando anche delle navi nelle acque oceaniche ben al di là di Cadice, lungo l’intera costa occidentale della penisola iberica fino alla Galizia. Egli giunse infatti nel cosiddetto Porto degli Artabri, cioè all’ampia insenatura dell’odierno golfo di La Coruña, laddove gli stessi Romani edificarono successivamente l’imponente faro tuttora esistente, localmente chiamato Torre de Hércules.

Nella sua permanenza a Cadice, il proconsole romano aveva appreso che “di fronte” al Porto degli Artabri vi erano le Isole Cassiteridi (ovvero l’attuale arcipelago delle isole Sorlinghe – Scilly in inglese –, a sudovest della Cornovaglia), ricche di stagno e piombo. Si sapeva, inoltre, che solo i Fenici (quelli insediati nella stessa città di Cadice) mantenevano degli scambi commerciali con gli abitanti di quelle isole, poiché continuavano a mantenere segreta la rotta per raggiungerle. Risultava anche che, quando i Romani avevano provato a seguire da vicino una nave fenica diretta alle Cassiteridi, il comandante di quel cargo si era diretto deliberatamente verso le secche, portando a sfasciarsi sia la propria nave sia quella degli inseguitori romani. Salvatosi a nuoto, egli era stato adeguatamente rimborsato dai connazionali per tutte le perdite subite.

I Romani, tuttavia, provando e riprovando riuscirono comunque ad individuare la rotta giusta ed a raggiungere quelle isole. Vi sbarcò anche lo stesso Publio Licinio Crasso, che, avendo potuto così verificare di persona l’indole pacifica della popolazione locale e la facilità di estrazione dei metalli, data la scarsa profondità delle miniere, decise di fornire tutte le informazioni necessarie a chiunque volesse sfruttare commercialmente quella rotta. Egli privò così i Fenici del monopolio ch’essi avevano difeso tanto strenuamente.

Questo aneddoto, riferito da Strabone, contribuisce anche a sfatare la diffusissima ma errata opinione che attribuisce agli antichi naviganti la sola capacità di effettuare delle navigazioni costiere, senza mai perdere di vista la terraferma. Per quanto strano ci possa sembrare, nell’antichità vi era il convincimento che la punta nord-ovest della Spagna fosse davvero “di fronte” alle Cassiteridi e nella posizione migliore per raggiungerle con rotta diretta. È per tale motivo che Strabone incluse queste isole nel suo libro III, sulla Spagna, anziché parlarne nel libro IV, ove descrisse la Gran Bretagna, l’Irlanda e l’isola di Tule. La rotta segreta dei Fenici, poi percorsa anche dai Romani da Publio Licinio Crasso in poi, consisteva quindi certamente in una navigazione oceanica di oltre 400 miglia nautiche, ampiamente al di fuori della vista di qualsiasi costa.

Nell’estendere le proprie rotte sull’Oceano Atlantico i Romani non si accontentarono dell’esempio dei Fenici, ma moltiplicarono i propri tentativi con spiccato spirito d’iniziativa ed anche con una certa spregiudicatezza, com’ebbe a lamentare Cicerone sostenendo che, alla sua epoca, non vi era più alcun luogo sull’Oceano tanto remoto da non essere già soggetto all’invadenza romana.

In realtà vi erano ancora delle acque da esplorare, spingendosi più a Settentrione. È quanto venne poi fatto in epoca alto-imperiale. Iniziò Augusto, inviando una propria flotta al comando di Tiberio per effettuare una crociera nel mare del Nord, partendo dalla foce del Reno, costeggiando la sponda germanica fini alla foce dell’Elba, risalendo quindi lungo la costa del Chersoneso Cimbrico (penisola dello Jutland) e superando infine il capo Skagen, a nord dell’odierna Danimarca, in direzione del Baltico (il mare Suebico degli antichi).

Un decennio dopo, nel corso delle numerose navigazioni compiute dalle flotte di Germanico nelle acque del mare del Nord, i Romani ebbero occasione di apprendere che dell’ambra di ottima qualità veniva prodotta nelle isole Frisone. Essi chiamarono pertanto Glesaria una di queste isole, poiché gleso era il nome usato dai Germani per indicare l’ambra. Per procurarsi questa preziosa resina fossile, molto apprezzata per gli oggetti di lusso, le navi mercantili iniziarono dunque a frequentare quelle isole e continuarono per diversi decenni, fino a quando la ricerca di più lucrose opportunità di commercio spinse gli armatori romani a far addentrare le proprie navi nel mar Baltico. In tale bacino i Romani stabilirono delle relazioni commerciali con i Suioni (abitanti dell’odierna Svezia) e con le più primitive tribù degli Estii (stanziati sulla costa orientale, sede delle odierne Repubbliche Baltiche), scoprendo che questi ultimi vendevano l’ambra ad un prezzo molto inferiore, non comprendendone ancora il valore.

I Romani del primo secolo d.C. erano dunque consapevoli delle buone conoscenze geografiche ch’essi avevano acquisito navigando nelle acque del nord Europa, tanto da indurre Seneca a beffarsi dei racconti approssimativi scritti da certi antichi navigatori greci che potevano “raccontare impunemente fandonie” confidando nell’ignoranza dei loro lettori, mentre alla sua epoca le navi mercantili commerciavano abitualmente lungo l’intera costa dell’Oceano Atlantico.

Un’ulteriore estensione delle esplorazioni navali romane verso nord avvenne durante il principato di Domiziano, quando il governatore della Britannia, Gneo Giulio Agricola, ordinò alla propria flotta di compiere la circumnavigazione della sua provincia, per avere la conferma che si trovasse su di un’isola. La flotta romana non si limitò ad aggirare la Britannia e la Caledonia (odierna Scozia) in senso antiorario, ma proseguì per un buon tratto la propria navigazione verso nord, prendendo possesso delle isole Orcadi e giungendo fino ad avvistare l’isola di Tule.

Di quest’isola misteriosa, mai scorta dai precedenti navigatori del mondo classico (il greco Pitea di Marsiglia ne aveva solo riferito notizie apprese in Britannia), solo i Romani acquisirono una conoscenza diretta, stabilendo con essa – in epoca successiva – anche dei collegamenti navali. Dalla testimonianza dello storico Procopio di Cesarea, che parlò personalmente con alcuni che tornavano da lì, tutto lascia pensare che quell’enorme isola, dieci volte più grande della Britannia, posta a cavallo del Circolo Polare Artico, scarsamente coltivabile ma dotata di qualche zona abitata, coincida con la Groenlandia.

© 2013 - Proprietà letteraria di DOMENICO CARRO.

  

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