Rivista bimestrale Voce Romana
n° 23 - settembre-ottobre 2013

Sulle onde della Storia Romana (V)


Fortes Fortuna iuvat


di DOMENICO CARRO


Quando Pompeo Magno intimò ai suoi comandanti di salpare immediatamente, nonostante le pessime condizioni meteorologiche, per trasportare al più presto il loro carico di grano indispensabile alla sopravvivenza della popolazione di Roma, egli non si limitò ad urlare che navigare era necessario, ma soggiunse “vivere non est necesse”: la loro vita di naviganti non era infatti altrettanto rilevante della navigazione che essi stessi dovevano compiere. Ma l’esclamazione del proconsole romano non significava ch’egli disprezzasse quei marittimi, né che sottovalutasse il valore delle loro vite. Si trattava invece di una sferzata verbale intesa a spronarli ad accettare coraggiosamente i maggiori rischi della navigazione nella burrasca, data l’urgenza del trasporto del loro carico vitale.

Il pregio del coraggio in mare era ampiamente apprezzato nel mondo classico, ove non mancarono certamente dei convincenti esempi di Romani che si illustrarono per la loro competenza marinaresca, per la loro padronanza dell'arte della navigazione e per il proprio ardimento in mare. Trattandosi di un aspetto normalmente poco noto o comunque sottostimato, val la penna di renderlo più chiaramente percettibile attraverso alcuni esempi. Tralasceremo comunque la lunga serie della vittorie riportate dalle flotte militari romane in battaglia navale, essendo già del tutto evidente che quei successi, conseguiti contro le più agguerrite ed esperte potenze navali del mondo antico, abbiano ampiamente dimostrato l’abilità ed il coraggio degli equipaggi di Roma.

Prendiamo invece in considerazione, per iniziare, certe azioni navali apparentemente temerarie intraprese da privati cittadini nell’interesse pubblico. Ve ne fu un primo caso durante la fase più critica della prima Guerra Punica, quando i Romani furono colpiti dalle gravissime perdite occorse nell’infausto anno 249 a.C., per effetto dell’unica sconfitta in mare da essi subita, seguita dal naufragio di una seconda grande flotta a causa del maltempo. In quella criticissma situazione, l’iniziativa di un manipolo di valorosi cittadini, esperti marinai, consentì di mantenere una continuativa minaccia navale romana nelle acque cartaginesi, costringendo per cinque anni le flotte puniche a difendere le proprie coste anziché attaccare quelle della nostra Penisola. Fra le iniziative navali private, è certamente molto più nota quella che venne assunta dall’ancor giovanissimo Giulio Cesare quando armò in poche ore una piccola flotta per inseguire, catturare ed infine mettere a morte i pirati che lo avevano tenuto prigioniero fino a pochi giorni prima. Ma di questo episodio, come di molti altri eventi in cui lo stesso Cesare mise in luce le sue spiccate doti di intrepido marinaio, si è già parlato nel numero di gennaio-febbraio 2012,

Dopo Cesare venne suo figlio adottivo Ottaviano, altrettanto coraggioso per mare ed altrettanto amante delle navi e della navigazione. Egli compensò la sua minore esperienza tattica affidando le sue flotte alla genialità organizzativa ed operativa del suo fraterno amico Marco Agrippa. Quest’ultimo aveva indubbiamente la stoffa del rude uomo di mare che si trova a proprio agio fra i marosi più violenti. Egli seppe infondere coraggio anche ai suoi equipaggi, abituandoli ad operare nelle peggiori condizioni meteomarine: aveva infatti l’abitudine di approfittare dell’arrivo delle tempeste invernali per salpare con le navi ed effettuare delle uscite in mare di addestramento, allo scopo di assuefare i suoi uomini ai disagi ed ai rischi della navigazione nella burrasca.

Fra i successivi imperatori, quello che godette della più stretta – direi anzi congenita – familiarità con il mare fu Gaio Caligola: nato sulla costa tirrenica, nell’ariosa villa marittima imperiale di Anzio (quella che fu poi ampliata da Nerone e di cui tuttora rimangono imponenti resti), egli ereditò dal padre Germanico una cieca fiducia nelle navi ed un’istintiva capacità di utilizzarle nel modo più efficace. Avendo acquisito il “piede marino” nel corso delle lunghe navigazioni invernali compiute nell’infanzia, egli dimostrò in molteplici occasioni il proprio coraggio nell’affrontare senza esitazione il mare grosso, anche a bordo di scafi di piccolo tonnellaggio.

Destò infatti una diffusa ammirazione la navigazione ch’egli compì, subito dopo il suo avvento al principato, per prelevare dalle isole di Ponza e Ventotene i resti mortali di sua madre e suo fratello e trasportarli successivamente ad Ostia e poi a Roma, risalendo il corso del Tevere fino al Mausoleo di Augusto, che era la tomba di famiglia dei Cesari. Per quell’occasione, nonostante la violenza della mareggiata in atto, egli si imbarcò su di una semplice bireme, cioè sulla più piccola delle navi da guerra della flotta imperiale di Miseno, poiché solo le unità di quelle dimensioni erano in condizione di entrare nell’angusto porto di Ventotene, il cui accesso era particolarmente difficile e pericoloso in presenza di una forte risacca.

Una sfida al maltempo alquanto analoga avvenne nel successivo autunno-inverno, quando lo stesso principe salpò su di un mare talmente agitato che suo suocero Silano si rifiutò di seguirlo, pur sapendo che quella defezione avrebbe potuto essergli fatale; su di lui gravava infatti il sospetto ch’egli volesse rimanere a Roma per organizzare un complotto eversivo approfittando dell’assenza del genero. Egli sperava forse che all’ultimo momento Gaio si sarebbe astenuto dal prendere il mare, ma una tale rinunzia mal si accordava con l’ardimentosa foga del giovane imperatore.

Potremmo continuare ancora, soffermandoci sui vari altri episodi che confermano la stretta confidenza che questo principe, come molti suoi successori, ha nutrito per il mare; ma conviene passare subito ad un altro evento storico meritevole di essere citato, trattandosi di una delle più coraggiose navigazioni mai effettuate.

Siamo nel fatidico 79 d.C., anno della più disastrosa delle eruzioni del Vesuvio avvenute in epoca storica. A Miseno, sul promontorio che dominava il porto esterno della base navale, si ergeva la dimora dell’ammiraglio comandante in capo della flotta Misenense, Gaio Plinio Secondo, oggi più noto come Plinio il Vecchio. Verso mezzogiorno del 24 ottobre, quest’ultimo venne avvertito dalla sorella Plinia che un’enorme nube anomala era improvvisamente apparsa all’orizzonte, nella parte più interna del golfo di Napoli. Quello straordinario fenomeno incuriosì l’ammiraglio, che proprio allora stava per pubblicare la sua monumentale Naturalis Historia, appena terminata. Ordinò quindi di preparargli una veloce liburna, sulla quale voleva imbarcarsi per avvicinarsi alla base della nube allo scopo di esaminarne la natura. Non poteva ancora immaginare che si trattasse di un’eruzione vulcanica, poiché il Vesuvio era noto solo come un ameno e fertile monte, coperto di viti ed altra vegetazione lussureggiante: in effetti, a memoria d’uomo, tale risultava essere sempre stato il suo aspetto, essendo il vulcano rimasto in perfetta quiete nei precedenti otto secoli.

Dopo gli ordini impartiti per la liburna, pervenne al semaforo della base navale un messaggio con una richiesta di aiuto di un’amica di Plinio, Rectina, abitante in una delle ville marittime disseminate lungo la costa prossima ad Ercolano. La matrona riferiva di trovarsi in una situazione di imminente pericolo e di non essere in condizione di fuggire per via terrestre. L’ammiraglio fece allora approntare le quadriremi per compiere una missione di soccorso navale in grande stile a favore di tutte le popolazioni residenti sul litorale minacciato dalla sconosciuta catastrofe.

Salpato dal porto di Miseno alla testa di una possente formazione di quadriremi, egli diresse con rotte dirette verso Ercolano, che appariva la cittadina più soggetta al pericolo. Navigando a remi ed a vela, approfittando del favorevole Maestrale, egli ottenne dalle sue navi la massima possibile velocità. Davanti alle loro prore, tutti gli uomini imbarcati potevano vedere l’orrido spettacolo di una gigantesca nube nerastra, che si innalzava al di sopra del Vesuvio fino alla stratosfera, laddove si allargava assumendo la forma di un fungo atomico alto più di 30 chilometri. Dalla colonna eruttiva, agitata da sinistre pulsazioni, proveniva un fragore assordante, cui si sommavano i frequenti rombi dei fulmini che saettavano qua e là al suo interno. Man mano che le navi procedevano, l’oscurità le avvolgeva sempre più fino a diventare totale, come in una notte senza luna, mentre gli scafi iniziavano ad essere colpiti dalla fitta pioggia delle pomici.

In questo scenario assolutamente terrorizzante, che si è presentato per l’unica volta solo a quegli equipaggi (nessuna delle successive eruzioni del Vesuvio ha avuto quella stessa intensità), le navi romane continuarono tenacemente ad avanzare, mentre l’ammiraglio esclamava: “la Fortuna aiuta i coraggiosi!”. Ad una ad una le quadriremi si fermarono lungo la costa per trarre in salvo la gente in attesa di soccorso. Quella di Plinio raggiunse infine Stabia, per prelevare anche gli abitanti di quelle ville. Solo l’ammiraglio vi trovò la morte, avendo comunque concluso la sua eroica missione.

© 2013 - Proprietà letteraria di DOMENICO CARRO.

  

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