Rivista bimestrale Voce Romana
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Eravamo ancora nel precedente millennio, nel ‘97, quando decisi di dotarmi di un sito Internet personale per poter mettere in rete qualche mio scritto in italiano sulla storia navale e marittima di Roma antica. Poiché in quegli anni la quasi totalità dei siti Web erano redatti in lingua inglese, pensai che il titolo Navigare necesse est sarebbe stato non solo perfettamente appropriato al mio tema storico, ma anche sicuramente nuovo, unico ed originale. Non c’era ancora Google, ma con qualche motore di ricerca più lento e reticente potei comunque accorgermi molto presto che quello stesso mio titolo era già stato adottato da almeno altri sei siti, distribuiti fra Nord America ed Australia. Nessuno di essi si occupava di storia o letteratura antica, ma tutti avevano associato quel motto latino alla “navigazione” negli spazi misteriosi e sconfinati della rete informatica globale: un inequivocabile sintomo della perdurante fortuna goduta da molti aforismi dei nostri antenati.
Nel mondo classico, la rete globale a disposizione di tutte le popolazioni rivierasche del Mediterraneo era principalmente costituita dalle linee di traffico navale, lungo le quali scorreva il flusso dello scambio di informazioni, di comunicazioni e di prodotti commerciali. Per i Romani, in particolare, l’accesso a questa rete dovette risalire alle loro più antiche origini, visto che la stessa fondazione della Città eterna – da parte di Romolo, o comunque essa sia effettivamente avvenuta – fu inevitabilmente correlata al fiorire dell’importante area commerciale nel sito del foro Boario, all’incrocio degli itinerari terrestri fra Lazio ed Etruria, che dovevano attraversare il Tevere nel punto più agevole immediatamente a valle dell’isola Tiberina, e quelli che invece seguivano il corso del fiume a monte, verso la Sabina, ed a valle fino al mare.
Secondo i pochi e frammentari dati pervenuti dalle fonti antiche sui secoli arcaici della storia romana, i primi casi di utilizzo delle navi per fronteggiare gravi situazione di penuria dei generi alimentari necessari alla città risalgono agli inizi della repubblica. Infatti, l’anno dopo la cacciata del settimo re di Roma, Lucio Tarquinio il Superbo, un altro monarca etrusco, Porsenna, si diresse in forze contro l’Urbe e la pose sotto assedio (508 a.C.), impedendo l’afflusso dei viveri da tutte le campagne circostanti. Per ovviare all’insorgente carestia, che stava per diventare insostenibile, il Senato inviò dei propri rappresentanti nella pianura Pontina ed a Cuma per richiedervi la fornitura del grano necessario. Nelle sue Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso riferisce che i predetti legati romani poterono caricare delle ingenti quantità di provviste alimentari su di un gran numero di navi di piccolo cabotaggio (imbarco probabilmente avvenuto fra Anzio e Terracina). Essi navigarono quindi fino alla foce del Tevere, e poi risalirono il fiume in una notte senza luna, riuscendo così ad eludere la sorveglianza delle navi etrusche che, come sappiamo da Livio, erano incaricate del blocco navale.
Il ricorso alla navigazione marittima per sanare situazioni di emergenza era destinato ad essere replicato in caso di analoghe difficoltà. Ne è stato tramandato un ulteriore esempio relativo ad una circostanza ancor più critica verificatasi solo sedici anni dopo (492 d.C.), quando la popolazione di Roma giunse proprio alla fame, tanto che si temeva per le precarie possibilità di sopravvivenza delle fasce sociali più deboli. In quella contingenza, i consoli inviarono dei propri incaricati a bordo di navi che partirono da Ostia per cercare viveri da acquistare, sia verso nord, nei porti della costa etrusca, sia verso sud, non solo ad Anzio e Cuna – come in precedenza –, ma perfino in Sicilia; “tanto lontano l'ostilità dei vicini costringeva a cercare aiuti”, commentò Tito Livio. Questa diversificazione delle zone di approvvigionamento si dimostrò salutare, perché le navi approdate a Cuma furono requisite dal tiranno locale (era un erede dei Tarquini e non aveva ricevuto quanto rivendicava), mentre quelle inviate più lontano tornarono l’anno successivo dalla Sicilia con un abbondante carico di grano.
I due predetti eventi, tramandati dalla tradizione e riferiti da storici di quattro secoli dopo a titolo di esempio delle preoccupazioni del Senato per l’annona (intesa soprattutto come i cereali e le altre derrate agricole destinate all'alimentazione), fanno capire che le difficoltà dei Romani del V secolo a.C., in perenne lotta con le popolazioni circostanti, debbano aver reso indispensabile il costante mantenimento di traffici marittimi sufficienti ad assicurare un afflusso di rifornimenti corrispondente al fabbisogno della popolazione dell’Urbe.
Per inciso, l'approvvigionamento di viveri costituì un problema talmente sensibile per i Romani, che la tradizione attribuì all’istituto dell’annona un’origine antichissima, risalente alla prima età monarchica. L’iniziativa della distribuzione di grano al popolo sarebbe addirittura stata assunta dal mitico fondatore di Roma: lo storico greco Aristobulo (IV sec. a. C.), citato da Plutarco, ci informa che Romolo rimproverò aspramente il Senato, reo di aver abolito quella distribuzione ch’egli stesso aveva oculatamente concesso. In quell’occasione, il cronico contrasto fra gli interessi della “casta” e quelli del popolo, non solo si risolse a sfavore di quest’ultimo, ma risultò fatale anche allo stesso monarca. Egli cadde infatti vittima dell’ostinazione dei senatori, che lo fecero fuori senza troppi complimenti e ne fecero subito sparire il corpo. Questa fu, perlomeno, la diceria che circolò insistentemente fra i Romani, fino a quando non finì per prevalere la tesi dell’apoteosi del re, asceso nei cieli ed assunto nel novero degli Dei. Poiché il culto di Romolo divinizzato venne associato a quello del dio Quirino sull’omonimo colle, potremmo concluderne che, per la Città eterna, la sacralità del Quirinale sia direttamente derivata dall’abnegazione del primo re nel sostenere la necessità dell’annona allo scopo di tutelare il benessere del popolo.
Dopo le difficoltà di cui si è già detto per i primi secoli della repubblica, l’organizzazione dell’annona ebbe la necessità di utilizzare intensivamente il trasporto navale anche in epoca tardo-repubblicana e per tutta la durata dell’impero, per delle ragioni ovviamente ben diverse da quelle più antiche. In effetti, a partire dall’inizio dell’espansione romana oltremare, il costante incremento della popolazione di Roma, unitamente all’accrescersi delle esigenze individuali (immediata conseguenza dell’accumulo delle ricchezze provenienti dalle nuove province), si riflesse in un sensibilissimo aumento della richiesta di derrate alimentari, a livelli non più sostenibili con la sola produzione agricola nella Penisola. A tal proposito, Varrone criticò aspramente quei Romani che preferivano “usare le mani per applaudire nel teatro e nel circo piuttosto che nella coltivazione dei campi e dei vigneti”, rendendo quindi inevitabili le importazioni marittime dalle altre province.
Una situazione di crisi particolarmente acuta si verificò nel settembre 57 a.C., quando una contingente carestia ridusse pericolosamente le riserva di grano di Roma. In seguito alle pressioni esercitate da Cicerone, il Senato conferì a Pompeo Magno un comando proconsolare straordinario della durata di cinque anni per la cura dell’annona. Questa magistratura eccezionale presentava qualche similitudine – sia pure senza forze militari – con il proconsolato che era stato assegnato una decina di anni prima allo stesso Pompeo per la guerra contro i pirati. Il provvedimento gli attribuiva infatti un’autorità assoluta su quanto concerneva la navigazione, in tutti i mari, e l’agricoltura in tutte le regioni soggette ai Romani.
Dopo aver scelto i propri quindici luogotenenti di rango senatorio, ponendo al primo posto proprio il fido Cicerone (che peraltro si impegnò inizialmente con un certo entusiasmo e malcelato orgoglio), Pompeo si mosse con il consueto dinamismo, mettendosi egli stesso per mare per recarsi nelle province che fornivano le maggiori quantità di grano, come la Sicilia, la Sardegna e l’Africa proconsolare. Vi ispezionò di persona i luoghi di raccolta dei cereali ed i porti utilizzati dal traffico marittimo che li trasportava Roma. Controllò le operazioni di carico delle granaglie sulle navi e l’organizzazione del traffico navale diretto ad Ostia ed agli altri porti della costa tirrenica. Volle anche imbarcarsi su uno dei convogli di navi onerarie in partenza per le predette destinazioni.
Si era ormai nell’autunno avanzato e mancava ormai ben poco tempo al periodo in cui, a causa della estrema frequenza e pericolosità delle burrasche invernali, la navigazione veniva sospesa dalla maggior parte del naviglio mercantile (mare clausum). Vi era quindi un’obiettiva urgenza di far partire quelle navi. Tuttavia, proprio al momento di salpare, i suoi comandanti si dichiararono restii a prendere il mare, poiché le condizioni del tempo in visibile peggioramento non lasciavano presagire una navigazione in sicurezza. Pompeo non ammise discussioni, dando loro una risposta spietata: “Navigare è necessario, vivere non lo è!” E diede l’ordine di partenza, lasciandoli interdetti per quell’affermazione paradossale ma inconfutabile.
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