Rivista bimestrale Voce Romana
n° 21 - maggio-giugno 2013

Sulle onde della Storia Romana (III)


Marinai, donne e guai


di DOMENICO CARRO


Nauta è il ben noto vocabolo latino utilizzato per indicare la figura del marinaio nel mondo romano. Questo termine è rimasto inalterato anche nella lingua italiana, ov’è presente sia come voce poetica – nel senso di marinaio e navigatore –, sia come secondo elemento di parole composte che si riferiscono alla navigazione marittima (a motore: motonauta), sottomarina (acquanauta), sotterranea (speleonauta), aerea (aeronauta), spaziale (astronauta, cosmonauta) o addirittura nel cosiddetto ciberspazio (cibernauta), cioè negli arcani universi virtuali della rete telematica.

La longevità di questo vocabolo, rimasto vivo e vitale per oltre due millenni, poggia sulla robusta notorietà ch’esso ebbe già fin dall’antichità romana, epoca in cui i marinai venivano considerati dei coraggiosi che sfidavano i mortali rischi della navigazione marittima e costituivano pertanto la categoria che più di ogni altra aveva bisogno dell’aiuto della Fortuna. Lo ha riferito Dione Crisostomo, all’epoca di Traiano, scrivendo che proprio la protezione dei marinai fosse la prima spiegazione che veniva data al simbolismo del timone nella mano destra della dea, nelle più comuni raffigurazioni di quest’ultima.

I nautae dei Romani possedevano necessariamente le caratteristiche eterne dei marinai di tutti i tempi: l’abitudine a vivere ed operare negli spazi ristretti di un mezzo navale mobile e ballerino, soggetto all’incoercibile potenza del mare e dei fenomeni atmosferici; un buon “piede marino”, per mantenersi lucidi ed efficienti anche in situazione di mare in burrasca; una solida conoscenza dei pericoli della navigazione e delle cause interne di rischio per la sicurezza della nave (il fuoco, i materiali mobili non fissati saldamente con le rizze, ecc.); una sicura abilità nel maneggiare i cavi d’ormeggio, le ancore, le imbarcazioni, le attrezzature marinaresche e tutte le manovre delle vele, arrampicandosi anche sul sartiame, sui pennoni o in testa d’albero quando necessario.

Questa specifica capacità, illustrata da molteplici antiche rappresentazioni di scene navali (come quelle delle foto di questi articolo), è stata anche oggetto di una suggestiva descrizione lasciataci dal retore Luciano, che si entusiasmò al vedere ormeggiata in banchina una gigantesca nave frumentaria addetta a trasporto del grano egiziano destinato al porto imperiale di Roma: “siamo stati fermi per un bel pezzo con il naso all’insù, vicino all’albero … e siamo rimasti a bocca aperta di fronte a quel marinaio che si arrampicava tra le sartie e poi si muoveva veloce e sicuro sul pennone tenendosi attaccato ai cavi di sostegno”. D’altronde a vent’anni acquisimmo quella stessa abilità anche noi che abbiamo avuto il privilegio di addestrarci sugli imponenti alberi della nave scuola Amerigo Vespucci, come sempre fanno gli Allievi Ufficiali della nostra Marina.

È piuttosto noto che, nell’antica Roma, la particolare destrezza dei marinai della flotta imperiale di Miseno venne anche sfruttata adibendo un reparto di quegli uomini alla manovra dell’immane velario che copriva il Colosseo quando la calura estiva rendeva molesti i raggi del sole. Si trattava di un tendaggio retto dai 240 pali che circondavano la parte superiore dell’intera ellisse, passando attraverso i fori ancora visibili nel cornicione e poggiando sulle sottostanti mensole in travertino. L’intera copertura doveva essere costituita da una serie di spicchi formati da teli di lino, ciascuno dei quali era evidentemente molto più ampio di qualsiasi vela mai realizzata.

I predetti marinai erano normalmente alloggiati nella vicina Caserma dei Misenati (Castra Misenatium), che ospitava anche dei reparti di classiarii, anch’essi provenienti dalla flotta pretoria Misenense. Tale comunanza e la vicinanza della caserma all’anfiteatro hanno ingenerato due errori storici: il primo, che risale alla tarda antichità (biografia dell’imperatore Commodo nella Storia Augusta, del IV secolo d.C.), è quello di attribuire ai classiarii la manovra del velario; il secondo, diffuso in pressoché tutte le odierne guide della Città Eterna, consiste nel considerare tale attività come la ragion d’essere del distaccamento di marinai nell’Urbe. Si tratta in effetti di due assurdità: i classiarii erano dei combattenti specificamente addestrati agli arrembaggi, agli sbarchi navali ed ai combattimenti sulle coste nemiche, ma privi di una particolare perizia nella manovra delle vele, perizia che era invece la prerogativa dei marinai; questi ultimi venivano stanziati a Roma per assolvere primariamente i loro compiti d’istituto a sostegno del naviglio militare presente sul Tevere (nei Navalia ed alle banchine del porto fluviale) per le esigenze navali dell’imperatore ed ogni altra esigenza di Stato. Il loro impiego presso l’anfiteatro va quindi considerato solo un’attività di servizio pubblico occasionale ed accessoria.

Oltre che per la loro rinomata destrezza nel manovrare vele e velari, e nell’intervenire con funambolesca agilità sulle alberature delle navi, i marinai dell’antica Roma sono citati nella letteratura latina e greca dell’epoca per varie altre attività svolte a bordo dei mercantili, quali il controllo dei passeggeri, il monitoraggio dei fondali con lo scandaglio a prua nell’avvicinarsi ad una zona di secche o ad una costa sconosciuta, le predisposizioni urgenti per fronteggiare una burrasca in arrivo, le misure di emergenza per scongiurare un naufragio (lancio in mare del carico, abbattimento dell’albero, ecc.) o per porsi in salvo prima dell’affondamento della nave.

Per quanto concerne i marinai imbarcati sulle navi da guerra romane, essi costituivano una delle tre componenti degli equipaggi, a fianco dei rematori e dei militi navali (o classiarii), di cui si è parlato nei due articoli precedenti. Essendo l’esatto equivalente della categoria dei nocchieri nella nostra Marina Militare, essi erano addetti a tutti i servizi marinareschi di bordo, più o meno come accadeva sulle navi mercantili, ma con varie incombenze supplementari, quali, ad esempio, abbattere gli alberi delle vele prima della battaglia navale (quando tutta l’alberatura sarebbe risultata d’impaccio) ed innalzarli poi nuovamente, per i successivi trasferimenti a vela. Durante i combattimenti in mare, i marinai fornivano anche il proprio contributo lanciando a mano i grappini d'abbordaggio sulle navi nemiche da arrembare, oppure, come ci riferisce Vegezio, se le condizioni erano propizie mettevano a mare delle imbarcazioni sulle quali si portavano occultamente sottobordo a qualche nave nemica per tagliare con la scure i cavi che ne reggevano i timoni. Viceversa, quelli che rimanevano a bordo si tenevano pronti a sistemare dei timoni di emergenza qualora quelli originari fossero stati spezzati da un rostro nemico.

Al di là dei pochi esempi finora citati, è comunque evidente che la qualità dei marinai fosse indispensabile per l’efficienza delle flotte romane. Molto acutamente Marco Cornelio Frontone osservava che una nave avrebbe potuto “affondare per un cavo mal sistemato”. Oltre alla competenza marinaresca, pertanto, l’altro requisito irrinunciabile era quello della tempestiva e rigorosa esecuzione degli ordini. Sotto questo profilo non sono stati tramandati dalle fonti antiche episodi denotanti qualche flessione della disciplina a bordo delle navi. Vi furono, al contrario, dei notevoli casi di perfetta adesione alle direttive di più difficile attuazione, come accadde in occasione della memorabile partenza della flotta di Pompeo da Brindisi, salpando e manovrando nel più assoluto silenzio per non allertare i pur vicinissimi avversari.

Una maggiore libertà di comportamento è fisiologica quando i marinai vanno a terra. Tuttavia alcuni eccessi di particolare gravita si manifestarono nei primi due anni della III guerra Macedonica (171-170 a:C.), quando le forze romane sbarcate in Grecia per difendere gli alleati dall’aggressione macedone furono lasciate senza adeguato controllo dal loro comandante, più interessato ad arricchirsi con arbitrarie requisizioni che non alla cura della disciplina. In tali circostanze, i classiarii ed i marinai si erano acquartierati a Calcide nelle case private, destando le proteste degli abitanti perché si aggiravano fra le loro donne ed i loro figli senza curarsi del proprio aspetto. Quando le proteste dei Greci pervennero al Senato, il comandante della flotta, Caio Lucrezio, venne citato in giudizio e condannato dal voto popolare ad una multa di un milione di assi.

L’irritazione dei Greci per l’invadenza del personale della flotta era stata motivata dal modo di fare di quegli uomini, che non moderavano in alcun modo il proprio linguaggio e le proprie azioni, e probabilmente anche dal loro abbigliamento estremamente succinto nella stagione estiva. Era infatti abitudine dei marinai di indossare solo il vestiario strettamente indispensabile, permanendo addirittura in completa nudità quando impegnati in attività faticose. Tale consuetudine risulta perlomeno attestata in epoca imperiale, visto che Faustina minore, moglie di Marco Aurelio, fu oggetto della seguente maldicenza calunniosa: Sesto Aurelio Vittore scrisse che, quando andava in Campania, la bella imperatrice si fermava nei punti della costa dai quali era possibile osservare i marinai che lavoravano nudi, allo scopo di scegliere fra di essi gli amanti più adatti.

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