Rivista bimestrale Voce Romana
n° 19 - gennaio-febbraio 2013

Sulle onde della Storia Romana (I)


Pale a prora!


di DOMENICO CARRO


Quando si pensa all'antica Roma, c'è sempre il rischio di essere fuorviati da una lunga serie di stereotipi alquanto fasulli, originati da ricostruzioni storiche sbrigative o sensazionalistiche, come quelle dei kolossal della cinematografia hollywoodiana, oppure anche dall'interpretazione troppo letterale e seriosa di certi scritti degli stessi Romani, che amavano scherzare su tutto ed irridere i potenti, pur mantenendosi normalmente fedeli al loro innato buon senso. Sta di fatto che non riusciamo a pensare a Caligola senza ricordare che nominò console o senatore il suo cavallo, né a Nerone senza raffigurarci la faccia di Peter Ustinov mentre canta stupidamente al cospetto dell'incendio di Roma. Naturalmente si tratta di fatti irreali: non ci sono mai stati cavalli nei fasti consolari né nella Curia del Senato, e Nerone non è certo stato un distruttore, ma anzi uno dei più poderosi costruttori.

Se quanto è avvenuto sotto gli occhi di tutti permane oggetto di distorsioni ed ingannevoli interpretazioni, questo fenomeno si verifica a maggior ragione per tutto ciò che riguarda le navi e l’ambiente marittimo, poiché i relativi eventi accadono per lo più fuori vista, nella solitudine della navigazione, e comunque secondo logiche e modalità generalmente poco conosciute. Ne abbiamo pertanto pochissime testimonianze dirette, mentre ogni altra descrizione risulta in gran parte invalidata da errori derivanti dalla limitata competenza o da preconcetti fuorvianti.

Ad esempio, tornando a riferirci al cinema, l’ultima grande scena di battaglia navale romana rappresentata sugli schermi è ancora quella di Ben Hur (1959), in cui abbiamo visto l’immaginario console Quinto Arrio, comandante della flotta, naufrago ed afflitto perché convinto di essere stato sconfitto in mare dalle navi dei pirati macedoni (immaginari anch’essi). Egli vorrebbe allora togliersi la vita, ma ne viene pietosamente distolto dal nobile e compassionevole Ben Hur, fortunosamente salvatosi anche lui sebbene fosse stato fino all’ultimo impegnato a liberare i suoi compagni rematori, incatenati ai banchi della nave ammiraglia speronata ed in procinto di affondare. Sopraggiunge poi una trireme romana che accoglie a bordo i due naufraghi, annunciando lietamente che la battaglia navale era stata vinta, ancorché all’insaputa dell’ignaro e frastornato comandante in capo della flotta romana.

Anche in questo caso, come nel Quo vadis (1951) con Peter Ustinov, sono stati mostrati svariati elementi incoerenti con il quadro storico, ma destinati ad essere egualmente assunti dagli spettatori come verità incontrovertibili ed incancellabili, poiché ciò che si è visto con i propri occhi (anche su di uno schermo) viene impresso nella memoria con una vivezza equivalente alle esperienze personalmente vissute. Fra gli elementi irrealistici delle predetta scena, oltre alla pietosa incompetenza navale del console Arrio, vincitore casuale di una battaglia in mare che temeva di aver perduto contro dei pirati ampiamente più deboli, spiccano soprattutto le catene dei rematori.

Questa nuova rubrica, intitolata “Sulle onde della storia romana”, si prefigge quindi di illustrare alcuni aspetti particolari delle attività navali e marittime dei Romani, allo scopo di mettere meglio a fuoco quanto risulta comunemente poco noto e quanto è stato addirittura travisato da interpretazioni improprie. Iniziamo dunque proprio dai rematori, in modo da avviare la nostra navigazione sulle predette onde con il vigoroso impulso della loro voga.

Innanzi tutto, facciamo subito scomparire quelle indegne catene. I galeotti condannati a remare sulle galee, incatenati al proprio banco e crudelmente frustati, non esistevano nell’antichità romana. Medievali erano le galee e medievali furono quei galeotti. A bordo delle navi da guerra dell’antica Roma non c’erano condannati ai lavori forzati o prigionieri nemici ridotti in schiavitù e costretti a vogare sotto lo stimolo e la costante minaccia dell'aguzzino. C’era solo e semplicemente, come accade tutt’oggi, un fiero equipaggio di uomini liberi. Questo equipaggio era suddiviso in tre grandi categorie: i marinai, i classiari ed i rematori. Rispetto alle prime due, di cui ci occuperemo nei prossimi numeri, la categoria dei rematori era evidentemente quella cui veniva richiesto l’impegno più gravoso in termini di sforzo fisico. Si trattava dunque del personale proveniente dalle fasce più umili e bisognose della società, e pertanto disposto ad accettare dei sacrifici maggiori. Questo non vuol dire ch’essi venissero guardati con disprezzo o maltrattati. Al contrario, essi fruivano di adeguati turni di riposo e di un vitto sempre abbondante, giacché dal loro vigore e dalla loro resistenza poteva dipendere la salvezza o la perdita della nave.

Bisogna anche dire che, nel corso di una missione in mare di una nave da guerra, i periodi in cui si rendeva necessario ricorrere alla propulsione remiera erano abbastanza limitati, poiché le navigazioni più lunghe, per trasferimento, erano di solito effettuate a vela. Qualche limitato tratto di un trasferimento poteva talvolta essere percorso a remi – oppure anche in navigazione mista: vela e remi – quando vi erano particolari motivi di urgenza ed un vento troppo debole o contrario. Quindi i rematori erano normalmente chiamati a vogare solo per l’entrata e l’uscita dai porti, per qualche altra manovra che richiedeva una navigazione di precisione, per brevi tratti di trasferimento e, soprattutto, per i combattimenti navali: in tale ambito, infatti, solo l’uso dei remi poteva assicurare alla nave le evoluzioni più strette e repentine, nonché le potenti accelerazioni necessarie per assalire efficacemente le unità nemiche ed eluderne gli attacchi.

Quando non erano impegnati ai remi, i rematori venivano verosimilmente occupati assegnando loro dei compiti secondari (da che mondo è mondo, sulle navi si evita di lasciare a lungo del personale in ozio), per contribuire con la loro potenza muscolare agli interventi delle squadre di manovra alla vela, per la pulizia della nave e per la manutenzione dell’attrezzatura. Si trattava d’altronde di personale privo di particolari specializzazioni ed il cui specifico addestramento alla voga richiedeva un tempo abbastanza breve. Ciò semplificava il loro reclutamento, visto che non dovevano necessariamente avere un’esperienza pregressa a bordo delle navi. In certe circostanze belliche, per motivi di urgenza sono anche stati presi dei legionari e messi al remo. Solo in un caso sono stati presi addirittura degli schiavi, quando per armare in breve tempo la nuova grande flotta creata da Ottaviano ed Agrippa per la guerra Sicula, non vi erano uomini a sufficienza. In quel caso, tuttavia, quegli schiavi furono prima affrancati e poi arruolati e mandati sulle navi, per non infrangere il principio secondo cui gli equipaggi delle navi da guerra romane dovevano essere costituiti esclusivamente da uomini liberi. Non si trattò certo di una finzione giuridica: al termine del loro servizio a bordo, quei rematori poterono pienamente fruire della loro acquisita libertà.

Non essendovi né l’aguzzino, né le catene, né la frusta, come si faceva ad indurre i rematori a vogare a tempo? Né più né meno come si fa al giorno d’oggi per un armo di regata, che riceve gli ordini di voga dal timoniere (se c’è) o dal capovoga: “Pale a prora! Voga!” seguito dai cadenzati incitamenti con la voce, per scandire come un metronomo il ritmo di vogata. Analogamente, a bordo delle navi romane c’era un ufficiale capo-ciurma, chiamato celeustes (o anche portisculus), che impartiva gli ordini di voga con la voce, mentre regolava il ritmo di vogata battendo con il suo martello (il portisculus) ed aiutandosi con il canto, cui contribuivano coralmente tutti i rematori.

Questo è davvero l’aspetto più sorprendente e luminoso dell’oscura componente remiera degli equipaggi navali romani: nel momento dello sforzo più arduo e stremante, quei rudi e nerboruti vogatori non gemevano, né imprecavano, ma cantavano. Al passaggio delle liburne, delle triremi, delle quadriremi e delle quinqueremi romane in navigazione a remi, il mare risuonava del canto ritmato dei rematori, il celeuma, che accompagnava come una cantilena ogni vogata, assecondandone il poderoso impulso e la cadenza. Tale usanza ebbe una durata estremamente lunga, perlomeno quanto l’intera estensione dell’epoca imperiale, visto che venne citata nella letteratura latina nell’arco di oltre cinque secoli: a partire dall’alto Impero (Ovidio, Marziale, Frontone, Censorino) fino agli anni della decadenza (Rutilio Namaziano e Luttazio Placido). Ci è anche pervenuta una poesia di epoca altomedievale intitolata Celeuma che riproduce evidentemente lo spirito e la metrica dei canti dei rematori, pur con evidenti arricchimenti letterari. Ne viene qui trascritta la quarta ed ultima strofa (il cui primo verso è identico a quello delle tre strofe precedenti):

    Heia, viri, nostrum reboans echo sonet heia!
    Aequoreos volvens fluctus ratis audiat heia!
    Convulsum remis spumet mare, nos tamen heia!
    Vocibus adsiduis litus reduci sonet heia!

la cui traduzione (parzialmente tratta da Umberto Maria Milizia) è all’incirca la seguente:

    Heia, uomini, come l'eco rimbombante suoni il nostro heia!
    Travolgendo i flutti del mare la nave senta heia!
    Spumeggi il mare sconvolto dai remi; e noi ancora heia!
    Il lido, per le voci ritmate, al reduce risuoni heia!


© 2013 - Proprietà letteraria di DOMENICO CARRO.

  

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