POMERIVM numero XIV - ottobre 2007

La Marina di Roma antica


Risposte alle domande poste nella rubrica
"Chiedilo all'esperto" della Academia Italica


di DOMENICO CARRO

  1. La Tribuna dei Rostri
  2. Le tattiche dei pirati affrontati dai Romani
  3. Le navi da guerra usate dai Romani
  4. L'eredità dei Romani nel campo della marina

  

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I. LA TRIBUNA DEI ROSTRI

Sono stato sempre affascinato dalla tribuna degli oratori nei pressi della Curia Iulia in Foro e dai suoi 'rostra'. Una doppia domanda: abbiamo qualche evidenza che ci dica come potessero apparire? Era una pratica comune adornare le tribune con i rostri anche in altre parti della città o altri luoghi dell'Impero?          – Milko Anselmi –


Ricostruzione grafica dei Rostri nel Comizio
(da Gjerstad, riprodotto sul Lexicon Topographicum Urbis Romae).

La storica tribuna monumentale del Foro Romano, collocata fin dalle origini davanti al Comizio, fu ampliata nel 338 a.C. dal console Caio Menio, dopo il suo trionfo su Anzio, Lanuvio e Velletri. Ad Anzio, in particolare, i Romani avevano catturato l’intera flotta nemica, traendone poi tutte le navi migliori per immetterle nei Navalia di Roma (sulla riva meridionale del Campo Marzio), ad integrazione della propria limitata disponibilità di unità da guerra, e costituendo in tal modo la loro prima vera e propria Marina militare. Le navi anziati più vecchie erano invece state bruciate, dopo averne smontato i rostri di bronzo. Questi furono esposti permanentemente fissandoli al basamento della tribuna, che da allora iniziò ad essere chiamata “i Rostri” (Rostra).

Circa 75 anni dopo, la tribuna dei Rostri fu ricostruita in una forma arcuata, coerente con il rifacimento del Comizio secondo una pianta perfettamente circolare.
Da allora, e per oltre due secoli, l’aspetto frontale della tribuna (vista dal Foro) rimase invariato, con i rostri fissati sui pilastri delle arcate di sostegno, come si vede sul rovescio di un denario d’argento coniato nel 45 a.C. dal monetario Marco Lollio Palicano.

Nel corso della sua feconda ma brevissima “dittatura perpetua”, Giulio Cesare avviò la ricostruzione della tribuna dei Rostri nella posizione attuale, sull’asse maggiore della piazza del Foro Romano, per poter risistemare il Comizio e l’edificanda Curia Giulia secondo l’allineamento del suo nuovo Foro. Della predetta ricostruzione rimane una parte della gradinata (sul retro) disposta ad emiciclo, forma che richiamava evidentemente la foggia arcuata della precedente tribuna. Il lavoro venne portato a termine da Augusto, che conferì ai Rostri il loro assetto definitivo, con la fronte perfettamente rettilinea, come la possiamo vedere tuttora.
L’antico prospetto della tribuna è illustrato da un bassorilievo dell’arco di Costantino, ma la rozzezza di quella scultura del basso Impero non evidenzia nemmeno gli originari rostri navali che permanevano ancora fissati sul basamento.


La tribuna dei Rostri nel Foro Romano
(bassorilievo dell'arco di Costantino).

Per quanto concerne la seconda domanda, occorre premettere che l’esposizione dei rostri nemici non fu una pratica esclusiva dei Romani. Tito Livio ebbe notizia, ad esempio, di rostri che erano stati appesi nel vecchio tempio di Giunone di Padova per ricordare una vittoria riportata dai Veneti, sul finire del IV sec. a.C., sulle navi dello spartano Cleonimo.
I Romani ebbero tuttavia una particolare propensione ad ostentare con dei trofei navali il proprio orgoglio per i maggiori successi da essi conseguiti sulle flotte nemiche. È peraltro significativo notare come anche il più ammirato monumento navale espresso dall’arte ellenica, la Nike di Samotracia, sia riferito proprio ad una grande vittoria navale romana (Mionneso), cui concorse, in forma ampiamente minoritaria e comunque sotto il comando supremo romano, anche una formazione di navi rodie.

Al fine di celebrare le vittorie conseguite in mare, i Romani utilizzarono normalmente i rostri delle navi nemiche catturate, per esibirli durante i trionfi o per fissarli permanentemente su alcuni monumenti, come le varie colonne rostrate erette a Roma (almeno otto) ed altrove (ad esempio, a Delfi), la casa di Pompeo Magno ed il grande trofeo costruito da Ottaviano ad Azio.
Ma si ebbe anche un utilizzo di rostri su di un’altra tribuna, proprio nel Foro Romano, dirimpetto ai Rostri tradizionali. Infatti, nell’erigere il Tempio del Divo Giulio, Augusto fece sistemare dinanzi all’edificio sacro una nuova pedana per oratori e ne ornò il podio con rostri di navi catturate nelle acque di Azio.
Poiché alla vittoria nella guerra Aziaca seguì l’istituzione delle flotte permanenti dell’Impero, le due tribune rostrate affacciate sulla piazza del Foro rappresentarono due tappe fondamentali della storia navale dell’antica Roma: se i vecchi Rostri (Rostra Vetera) ricordavano l’alba del potere marittimo romano – basato, in epoca repubblicana, su flotte che venivano armate di volta in volta per specifiche esigenze (come avveniva anche per le legioni) –, la nuova tribuna (Rostra Iulia) segnò l’acquisizione del pieno dominio dei mari, sui quali iniziò a vigilare ininterrottamente la nuova Marina imperiale.

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II. LE TATTICHE DEI PIRATI AFFRONTATI DAI ROMANI

La pirateria era molto diffusa all'interno del Mare Nostrum e più volte Roma dovette impegnare grandi risorse per combatterla. Quali erano le principali tattiche utilizzate dai pirati?          – Roberto Conte –

Per essere esatti, andrebbe detto che la pirateria rimase molto diffusa nel Mediterraneo prima che questo potesse effettivamente essere chiamato Mare Nostrum.

Da quando i primi uomini osarono avventurarsi nelle navigazioni marittime, la pirateria è sempre stata e continua ad essere una minaccia a carattere endemico, poiché la vastità delle distese marine consente di commettere delle illegalità con discrete speranze di impunità. Il controllo dei mari, per quanto accurato e capillare possa essere, non può garantire l’assoluto rispetto delle leggi nemmeno oggi, nonostante l’enorme potenza degli attuali sistemi di sorveglianza e di comunicazione: oltre ai vari tipi di traffici criminali, permane tuttora viva, in particolari aree, anche la pirateria vera e propria. Si può allora ben comprendere quanto fosse difficile vigilare sui mari nell’antichità, quando la scoperta ed il riconoscimento delle navi in mare potevano avvenire solo a vista. È evidentemente proprio su questa difficoltà che hanno contato i pirati di tutti i tempi, prima dell’avvento dei moderni sistemi di localizzazione a distanza.
Le loro tattiche hanno quindi sempre privilegiato le azioni di sorpresa contro obiettivi scarsamente protetti, in zone meno controllate e tali da consentire un rapido occultamento dopo gli attacchi (ad esempio, le acque con isole o coste frastagliate). Ma, al di là di questo carattere comune, vi sono parecchie differenze fra i comportamenti delle varie piraterie affrontate dai Romani.

Vi fu, innanzi tutto, la pirateria intesa come brigantaggio marittimo: un fenomeno piuttosto comune, sorto in tempi diversi in varie regioni del Mediterraneo, come le isole Eolie, le coste liguri, le Baleari, la Dalmazia, Cefalonia, Creta, le coste giudaiche e, soprattutto, quelle della Cilicia. Essa si avvaleva normalmente di unità navali sottili e veloci (tipo paroni e mioparoni) e solo in rari casi di navi con reali capacità di combattimento in mare (come le liburne).
Gli attacchi erano quindi solitamente diretti contro le unità mercantili isolate, per depredarle e catturarne l’equipaggio ed i passeggeri, allo scopo di trarne un guadagno (vendendoli come schiavi o esigendo il versamento di un riscatto). Queste azioni, che potremmo definire del tipo “mordi e fuggi”, si concludevano spesso dando alle fiamme la nave depredata, abitudine che, secondo il grammatico Luttazio Placido (V-VI sec.) si ritroverebbe nell’etimo “pira” della parola pirata.

Fra la fine del III sec. e la prima metà del I sec. a.C, la pirateria venne sostenuta da alcuni sovrani e tiranni ellenici, come Filippo V di Macedonia, Nabide di Sparta, Antioco III di Siria e più di ogni altro Mitridate VI del Ponto. Costoro, animati da mire espansionistiche, vollero avvalersi delle azioni dei pirati quale ausilio alle proprie operazioni belliche.
Le flottiglie piratiche, così potenziate, operarono più che altro contro le linee di rifornimento marittimo delle forze romane (intercettando, cioè, le navi onerarie addette al supporto logistico) e solo raramente contro qualche piccola formazione di navi da guerra minori, sempre sfruttando la tattica degli agguati.

Il crescente incremento dei pirati nel Mediterraneo orientale fece progressivamente tramutare il fenomeno della pirateria di matrice Cilicia in una sorta di grande organizzazione criminale mediterranea, molto scaltra e sempre pronta a profittare dei torbidi e dei conflitti per fiancheggiare i sediziosi di ogni risma, ovviamente a proprio beneficio. Vediamo infatti apparire dei capi pirati cilici nelle due rivolte servili in Sicilia, nella Guerra Sociale in Italia, nella sedizione di Sertorio in Spagna, nonché nell’ultimo atto, sullo stretto di Messina, della rivolta dei gladiatori guidati da Spartaco.
Le capacità navali dei pirati si erano nel frattempo considerevolmente potenziate, tanto da consentire la condotta di audaci colpi di mano anche contro le coste ed i porti della Sicilia, della Campania e perfino del Lazio, aggirando la sorveglianza delle navi romane.
Fu contro questa minaccia navale inafferrabile ed onnipresente, foriera di terrore e di paralisi dei traffici marittimi, che Pompeo Magno condusse la sua memorabile Guerra Piratica, liberando definitivamente l’intero Mediterraneo dalla pirateria cilicia.

L’ultima grande minaccia navale di tipo piratesco affrontata da Roma fu quella suscitata Sesto Pompeo, secondogenito del vincitore dei pirati. Utilizzando flotte armate e comandate da pirati che erano stati catturati da suo padre, egli si impadronì della Sicilia e da lì condusse una guerra a tutto campo contro l’Italia, saccheggiandone le coste, intercettandone i rifornimenti marittimi e spargendo ovunque il terrore, secondo i metodi tipici dei pirati.
Le sue flotte, inoltre, raggiunsero una potenza ed un addestramento tali da contrastare efficacemente quelle inviate contro di esse da Ottaviano. In tali scontri esse non adottarono alcuno stratagemma particolare, ma solo le normali tattiche dei combattimenti navali, accompagnate da una spiccata audacia e da una consumata esperienza marinaresca.
Esse dovettero tuttavia misurarsi con la straordinaria genialità di Marco Agrippa, da cui vennero infine annientate nelle acque di Nauloco.

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III. LE NAVI DA GUERRA USATE DAI ROMANI

Quali erano le principali imbarcazioni da guerra usate dai Romani? Nell'arco della millenaria storia di Roma tali imbarcazioni hanno subito significative modifiche?          – Roberto Starace –

Nell’antichità romana il progresso non poteva ovviamente procedere al ritmo forsennato dello sviluppo tecnologico odierno, ma era comunque sempre presente e gli stessi Romani ne erano consapevoli. D’altronde vediamo bene che nella loro storia ultra-millenaria, nulla è rimasto immutato. Come in ogni altro settore, anche nel campo navale si sono visti, nel corso dei secoli, dei considerevoli cambiamenti.

In epoca arcaica, fra il periodo regio e gli inizi della repubblica, i Romani usarono delle navi da guerra verosimilmente analoghe a quelle allora esistenti presso gli Etruschi, ovvero le triacontore e le pentecontore. A queste ultime furono più tardi affiancate anche delle triremi, di cui abbiamo notizia all’inizio del IV sec. a.C.. Le triremi e delle vecchie pentecontore erano ancora le unità di cui disponeva la Marina romana all’inizio della prima Guerra Punica. Tre anni dopo i Romani furono in grado di allestire la loro prima grande flotta costituita in prevalenza da quinqueremi costruite sul modello di quelle cartaginesi.

Le quinqueremi furono successivamente perfezionate dagli stessi Romani, che le utilizzarono come navi da battaglia primarie durante tutto il periodo della repubblica. Ad integrazione delle capacità di queste navi, le flotte romane utilizzarono anche qualche esareme ed altri tipi di navi combattenti, come le quadriremi e le triremi, nonché delle unità rostrate minori, come le biremi e le liburne (adottate da Marco Agrippa dopo la Guerra Dalmatica), ed una grande varietà di navi ausiliarie, adibite alla logistica (onerarie), al trasporto celere di truppe (attuarie) e di cavalli (ippagoghe), ai collegamenti (celoci), alle esplorazioni (speculatorie), etc. Per esigenze particolari furono anche realizzati scafi dotati di caratteristiche specifiche, come le navi da sbarco oceaniche concepite da Cesare per la sua seconda spedizione navale in Britannia o come le navi fluviali ed oceaniche costruite da Germanico per aggirare i nemici dal Mare del Nord.

Durante l’alto Impero tutti i tipi di navi rostrate dalle esaremi alle liburne furono presenti, in maggiore o minor misura, nelle due grandi flotte pretorie, ovvero le due forze navali imperiali più consistenti, basate a Miseno e Ravenna, per la difesa navale dell’Italia ed il controllo del Mediterraneo.
Dalle fonti epigrafiche conosciamo i nomi di un discreto numero di queste navi, ad iniziare dalle navi maggiori, sede dei comandanti di flotta, come l’esareme Opi e le quinqueremi Augusto e Vittoria. I dati in possesso fanno inoltre capire che il tipo di nave più utilizzato dalle flotte pretorie sia stato la trireme.
Nelle altre flotte permanenti dell’Impero, dislocate nelle basi navali d’oltremare e sui grandi fiumi di confine, le unità più usate furono invece le liburne, tanto che, nel basso Impero, la stessa parola liburna finì col diventare sinonimo di nave da guerra. Nell’epoca più tarda, peraltro, le costruzioni navali tesero effettivamente a modificarsi verso fogge più semplici, da cui scaturiranno poi i dromoni bizantini e le galee medievali.

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IV. L'EREDITA' DEI ROMANI NEL CAMPO DELLA MARINA

Il genio dei Romani è stato tramandato in molti settori quali l'ingegneria, la politica, il diritto e invenzioni quali le strade, gli acquedotti e la semplicissima acqua corrente sono tutt'ora in uso nel mondo moderno. Sono invece quasi sconosciute al grande pubblico le innovazioni nel campo della marina. Qual'è in questo settore l'eredità tramandataci dai Romani e ancora oggi tangibile?          – Francesco Valenzano –

Se nell’edilizia urbana la maestosa grandiosità delle maggiori costruzioni antiche (i palazzi imperiali, il Circo Massimo, il Colosseo, le smisurate terme pubbliche, etc.) è rimasta insuperata, lo stesso è accaduto nel campo navale e marittimo. Ne abbiamo alcune evidenze anche nella stessa Urbe, ove i maggiori obelischi delle piazze cittadine (p. del Popolo, Montecitorio, S. Pietro e Laterano) ci danno indirettamente la misura delle colossali navi romane che li trasportarono dall’Egitto, mentre il monte Testaccio, formatosi con i cocci delle anfore sbarcate dalle navi che approdarono alle banchine dell’Emporio, ci dà un’idea dell’enorme mole del traffico mercantile messo in atto dagli armatori navali romani per rifornire la Città Eterna.

In effetti, le innovazioni introdotte dai Romani per la marina sono state soprattutto finalizzate al perfezionamento delle costruzioni navali ed all’ottimizzazione di tutto quanto era necessario per incrementare al massimo il traffico navale, indispensabile ai collegamenti vitali di un Impero che si estendeva sulle rive di un mare così ampio com’è il Mediterraneo e commerciava sugli Oceani fino al Mar Baltico ed alla Cina.

Nel campo delle costruzioni navali, in particolare, le nostre conoscenze sulle capacità romane sono state significativamente ampliate dall’esame dalle due gigantesche navi di Nemi che, messe a secco negli anni Trenta, hanno stupito gli studiosi di tutto il mondo, non solo per le loro eccezionali dimensioni (fra le maggiori costruzioni navali in legno di tutti i tempi, per quanto finora verificato; sappiamo comunque dalle fonti che gli imperatori ne costruirono altre molto più grandi), ma per una serie di caratteristiche tecniche che dimostrano i livelli di eccellenza raggiunti dai Romani nell’architettura navale, nell'attrezzatura marinaresca, nonché nella meccanica e nell'idraulica di bordo. Più recentemente, i progressi compiuti dall’archeologia subacquea ci hanno permesso di constatare che molte delle meraviglie di quelle due navi corrispondono a delle soluzioni sostanzialmente analoghe presenti anche sulle normali navi onerarie adibite al commercio marittimo. I progressi conseguiti dalle costruzioni navali romane si estesero dunque a tutto il naviglio dell’Impero e furono alla base della successiva prosperità delle Repubbliche Marinare italiane e delle altre marinerie europee, tutte eredi di Roma.

Quanto all’incremento del traffico marittimo, questo va considerato una delle più sbalorditive e meritorie realizzazione dei Romani, visto che, pur con le limitate tecnologie dell’epoca, esso raggiunse dei livelli di gran lunga superiori a quanto si sia mai verificato dalla più remota antichità fino all’epoca moderna, quando l’affidabilità delle strumentazioni di bordo e l’introduzione della propulsione a vapore consentirono il fiorire delle grandi compagnie di navigazione oceaniche.
Lo straordinario risultato conseguito dall’Impero romano non fu certamente frutto del caso. Esso derivò, da un lato, dall’eccezionale capacità organizzativa propria dei Romani, e dall’altro, dall’adozione di una serie di misure estremamente concrete per gli armatori, per la navigazione e per la portualità. A favore degli armatori vi fu la moltiplicazione dei cantieri navali, la libertà di navigazione garantita a tutti, e varie agevolazioni specifiche per il commercio marittimo. La navigazione venne incentivata preservandola dalla minaccia dei pirati, grazie alla vigilanza delle flotte imperiali, migliorandone la sicurezza con la realizzazione di una rete di fari e di torri di controllo, nonché aprendo nuove vie d’acqua interne, con la costruzione di numerosi canali navigabili. Infine, vi fu un notevolissimo incremento del numero e della capacità dei porti e delle relative infrastrutture.
Fra le innovazioni tecniche più significative, spicca il metodo di costruzione di opere di calcestruzzo in acqua, descritto da Vitruvio, per la realizzazione dei moli e delle dighe foranee. Fra i vari porti artificiali romani tuttora utilizzati, si possono citare il grande bacino portuale di Civitavecchia ed il delizioso porticciolo di Ventotene, interamente scavato nel tufo. Fra le antiche opere più imponenti, colpiscono soprattutto la cosiddetta Piscina Mirabile – enorme cisterna d’acqua (lunga 70 m, larga 25 e alta 15) che veniva alimentata da un apposito acquedotto e faceva parte del sistema di rifornimento idrico della base navale di Miseno e della relativa flotta – e lo stupendo Porto imperiale di Roma, il maggior porto artificiale dell’antichità classica, di cui rimangono molti resti suggestivi oltre allo splendido bacino interno esagonale costruito da Traiano. Questo era il centro di tutta la rete del traffico marittimo dell’Impero. E così, se si poteva sostenere, con qualche accettabile approssimazione, che tutte le strade portavano a Roma, era un dato di fatto incontrovertibile che tutte le rotte marittime portassero effettivamente alla Città Eterna.

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