Seminario "Prospettive di sviluppo del Mediterraneo"
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Esiste, sul nostro azzurro Pianeta, un ampio specchio d'acqua talmente privilegiato dalla Natura, da costituire un unicum inimitabile ed irriproducibile. In esso convergono infatti molteplici fattori estremamente favorevoli, quali la centralità geografica rispetto ai tre continenti del vecchio mondo, la mitezza del clima, il tepore delle sue acque, la splendida bellezza e la generosità delle sue coste, nonché la gioia di vivere, la versatilità individuale e la ricchezza spirituale delle popolazioni rivierasche.
Che questa sia la reale essenza e l'assoluta specificità del Mediterraneo, lo dimostrano non solo l'analisi del presente, ma innanzi tutto l'immenso patrimonio storico e culturale accumulatosi negli ultimi tre millenni in questa laboriosa fucina di civiltà.
È infatti sulle sponde di questo mare che sono sbocciate, sono fiorite e si sono confrontate tutte le grandi civiltà dell'antichità classica: dalle più remote e misteriose, all'intraprendenza navale dei Fenici, alla grandiosità degli Egizi, all'industriosità terrestre e marittima degli Etruschi e dei Cartaginesi, alla poliedricità del mondo ellenico che seppe raggiungere le più elevate espressioni del pensiero umano e produrre forme artistiche di insuperata bellezza.
In quello scenario composito e variegato, in cui tutte le popolazioni rivierasche erano strettamente collegate dal commercio marittimo, ma erano allo stesso tempo divise e lacerate da gelosie, rivalità e reiterati conflitti armati, si affermò progressivamente un piccolo popolo collocato nel Mediterraneo centrale, non lontano dalla foce del Tevere.
Pur non avendo né la costituzione fisica dei feroci guerrieri barbari, né la potenza numerica degli sterminati eserciti orientali, né le tradizioni marinare dei Punici, né la perizia strategica degli Elleni, né forze armate permanenti e professionali come ogni potenza militare, né una gestione unitaria del potere come le grandi monarchie e gli altri Stati con un governo assoluto, né un preventivo disegno espansionista come molti dei propri antagonisti, i Romani sempre vollero difendere fieramente la propria città ed i relativi interessi vitali, nonché quelli dei propri alleati. Così procedendo, ed imponendosi costantemente di rispettare i trattati sottoscritti, di onorare ogni altro impegno liberamente assunto e di salvaguardare il rispetto della legalità nelle relazioni internazionali, essi furono naturalmente portati ad estendere la propria sfera d'influenza su tutta l'Italia ed oltremare, fino ad interessare tutti i litorali bagnati dal Mediterraneo.
Vennero certamente commesse, da parte dei Romani, anche delle azioni arbitrarie e delle illegalità; ma queste furono il frutto della grettezza o della rapacità di singoli individui (alcuni di essi presero le armi perfino contro la stessa Roma) e non possono in alcun modo suffragare una deliberata volontà di sopraffazione da parte del
Senato e del popolo di Roma. È peraltro piuttosto evidente che gli stessi Romani non mancarono mai di condannare ogni decisione che non fosse coerente con il loro connaturato senso dell'equità naturale e della lealtà.(le divine Aequitas e Fides).
Prima dell'affermazione di Roma, il Mediterraneo era teatro del confronto di tutte le potenze marittime rivierasche, che vi si ritagliavano delle proprie aree di dominio esclusivo controllate dalle flotte da guerra e regolate da appositi trattati navali [1]. Nel bacino occidentale operavano soprattutto Cartagine, Marsiglia, gli stati dell'Etruria e le marinerie della Campania; nello Ionio, Taranto e Siracusa; nel Mediterraneo orientale e mar Nero, Rodi, i regni di Pergamo, di Macedonia, del Ponto, di Siria e d'Egitto, e una moltitudine di altre città elleniche.
Il commercio marittimo, già fortemente condizionato dai vincoli e divieti presenti nelle varie aree controllate dalle predette potenze e dai rischi derivanti dalle situazioni di conflitto in atto sui mari, era anche soggetto al depredamento da parte dei pirati che infestavano tutte le acque in cui potevano impunemente condurre i loro lucrosi agguati.
I Romani ebbero fin dai primi anni della Repubblica la necessità di avvalersi del commercio marittimo (il detto "Navigare necesse est" si riferiva proprio l'ineludibilità della navigazione per soddisfare, innanzi tutto, le esigenze vitali dell'Urbe [2]); essi si trovarono pertanto a confrontarsi sul mare sia con le maggiori potenze navali del Mediterraneo, sia con i pirati. Per quanto concerne, in particolare, quest'ultima insidiosa minaccia, essi sperimentarono - fra il IV ed il I secolo a.C. - delle incursioni condotte da navi delle isole Lipari, di alcuni tiranni della Sicilia, di Anzio, di Calcide, di Sparta, di flotte al soldo dei re Filippo V di Macedonia ed Antioco III il Grande di Siria, di Cefalonia, degli Illiri, dei Liguri, delle isole Baleari, di Creta e della Cilicia [3]. Essi si impegnarono ogni volta per far cessare quelle illegalità, anche se, nel caso della pirateria Cilicia - che aveva infestato tutto il Mediterraneo -, furono costretti a condurre una lunga ed onerosa serie di operazioni navali dai risultati effimeri. Ma anche questa minaccia venne infine completamente rimossa in seguito alla sbalorditiva guerra piratica condotta nel 67 a.C. da Pompeo Magno, che riuscì a rastrellare con 500 navi l'intero bacino del Mediterraneo ed a liberarlo del tutto da quella piaga [4].
La sicurezza del mare venne poi definitivamente assicurata dalle vittorie navali riportate da Marco Agrippa, ammiraglio di Ottaviano, contro le nuove flotte piratiche di Sesto Pompeo e contro la flotta della coalizione orientale diretta da Antonio e Cleopatra (Azio, 2 settembre 31 a.C.).
Con la vittoria navale di Azio ed il successivo sbarco in Egitto, Roma aveva dunque completato sia la rimozione di ogni minaccia navale, sia la propria espansione su tutte le rive del Mediterraneo. Ottaviano Augusto ebbe il grande merito storico di comprendere che il neonato Impero aveva a quel punto già raggiunto la sua estensione ottimale, e che ogni sforzo sul piano militare doveva essere limitato alla sola esigenza di salvaguardia della sicurezza dell'Impero stesso, fermi restando i suoi confini.
Venne in tal modo ad instaurarsi la Pax Augusta - poi detta Pax Romana [5] (talvolta con significato arbitrariamente alterato) -, cioè quella situazione di stabilità e di sicurezza che favorì la prosperità di tutte le popolazioni dell'Impero. Essa venne basata sulla maestà di Roma, sull'applicazione delle sue leggi, su di una ramificata struttura amministrativa, su di una fitta ed efficiente rete di comunicazioni terrestri e marittime, nonché su di un apparato militare divenuto permanente, ma che comunque rimase strettamente commisurato all'entità dei maggiori fattori di rischio. Le legioni, di consistenza piuttosto esigua a fronte della sterminata estensione dell'Impero, vennero prevalentemente schierate ai più lontani confini terrestri. Le flotte vennero stanziate in poche basi navali stabilmente costituite, con saltuari
rischieramenti di qualche gruppo navale nei porti delle aree più periferiche: esse assicurarono, con la loro silenziosa operosità [6], il mantenimento di condizioni di massima sicurezza nel mare Mediterraneo, interamente posto - per la prima e unica volta nella storia - sotto la piena sovranità di un solo Stato. Questa situazione straordinaria, che si protrasse per oltre quattro secoli, risultò vantaggiosa per
tutte le popolazioni rivierasche, poiché ad esse vennero progressivamente estesi i benefici della cittadinanza romana, e tutti furono parimenti garantiti dalle leggi di Roma.
Per quanto concerne, in particolare, il regime del mare, Roma - indiscussa maestra del Diritto - sancì la libertà di utilizzo del mare in qualsiasi modo, purché non venissero lesi dei diritti altrui. Ciò venne basato sul convincimento che il mare rientrasse nel novero delle res communes omnium, cioè nella categoria dei beni che appartengono a tutti e che possono pertanto essere liberamente utilizzati da chiunque. Si trattava di un principio profondamente radicato fra i Romani, tanto da essere ripetuto dai maggiori scrittori latini - come Plauto (il mare è di tutti [7]), Cicerone (sono resi disponibili dalla Natura, per il comune vantaggio degli uomini: l'aria per i vivi, la terra per i morti, il mare per i naviganti e le rive del mare per i naufraghi [8]), Virgilio (l'acqua e l'aria libere per tutti [9]) ed Ovidio (a nessuno venne data, dalla natura, la proprietà del sole, dell'aria e delle onde del mare [10]) - oltre ad essere oggetto di precise norme di legge, che vennero poi in buona parte trascritte nelle monumentali raccolte (Codice, Istituzioni e Digesto) volute dall'imperatore Giustiniano (secondo il diritto naturale, sono comuni a tutti: l'aria, l'acqua corrente e il mare, e per conseguenza le spiagge del mare [11]).
Il principio generale di libero utilizzo del mare includeva naturalmente anche la libertà di sfruttamento delle risorse marine. Il più comune campo di applicazione di tale libertà era, a quei tempi, quello della pesca (è stato più volte decretato che non si possa impedire ad alcuno di pescare [12]), attività fiorente in tutte le acque del Mediterraneo, come ci viene confermato, fra l'altro, dalle infinite illustrazioni di placide scene di pesca negli affreschi e nei mosaici presenti su tutte le rive del bacino. Altre applicazioni erano relative all'utilizzo della stessa acqua del mare, per uso medico, per esigenze culinarie o nella realizzazione di ardite ed ingegnose strutture costiere per l'allevamento dei pesci e dei crostacei marini (come le celebri piscine di Lucullo ed i molti altri analoghi vivai sparsi un po' ovunque [13]).
Se la possibilità di sfruttare liberamente le risorse del mare costituiva già un importante fattore di benessere per tutte le popolazioni rivierasche (la fauna marina era ovunque molto ricercata, e veniva pagata profumatamente), ben più importanti ricadute vennero conseguite dalla legislazione romana per aver sancito - con il principio del libero utilizzo del mare - anche e soprattutto il principio basilare della libertà di navigazione.
Non si trattava certo, a quei tempi, di una scontata banalità. Prima di allora, al contrario, ogni nazione vincitrice non mancava di privilegiare il proprio commercio marittimo imponendo severi vincoli a quello della nazione vinta; ed anche Roma si era sistematicamente avvalsa di quella facoltà nel corso della sua espansione transmarina. Ma quando i Romani ebbero acquisito su tutto il Mediterraneo la più assoluta forma di dominio del mare che sia mai stata concepita (cioè non solo il controllo, la dissuasione o l'interdizione, ma l'effettiva sottomissione dell'intero mare alla propria legge), la stessa legge di Roma garantì la libertà di navigazione, rendendo operante a favore di tutti il criterio di salvaguardia dell'interesse comune; ed anche tale criterio era caro ai Romani, come ci hanno tramandato molti scrittori latini, fra cui il filosofo Seneca che accenna con somma semplicità proprio alla navigazione marittima (l'apertura del mare al traffico era di comune utilità [14]). L'identica libertà di navigazione era peraltro riconosciuta anche su tutti i fiumi [15]: chi era cresciuto sulle sponde dell'antico Tevere non poteva ignorare che tali vie d'acqua sono una naturale prosecuzione delle rotte marittime.
I Romani, inoltre, essendo sempre molto sensibili ai problemi dei rifornimenti alimentari vitali (i cereali, in particolare) - a cui essi riservavano, fin dai primi tempi della Repubblica, ogni possibile cura attraverso l'efficiente organizzazione dell'annona - esentarono da qualsiasi imposta i naviganti che trasportavano specie annonarie, prevedendo anche una multa particolarmente salata (dieci libbre - cioè oltre 3 kg - d'oro) per chi avesse provato a molestarli [16].
Nelle costruzioni navali i Romani seppero riversare tutta la loro maestria di edificatori di opere rispondenti ed affidabili, con l'applicazione di tecniche sofisticate ed innovative nei campi dell'architettura navale (fra l'altro, le perfette unioni ad incastro ed un sorprendente rivestimento metallico degli scafi), della meccanica (ruote dentate, piattaforme girevoli, ecc.), dell'idraulica (tubazioni, valvole e pompe) e dell'attrezzatura marinaresca (bozzelli, carrucole, timoni ed un'ancora di ferro a ceppo mobile, simile a quella che la Marina britannica volle in epoca moderna brevettare con il presuntuoso nome di ancora dell'Ammiragliato). Tutto questo ci è noto da quando vennero direttamente esaminati e minuziosamente analizzati [17] gli scafi e gli accessori delle due gigantesche navi recuperate nel lago di Nemi negli anni 1928-31 (e poi purtroppo incendiate durante la guerra). Peraltro, appare oggi abbastanza chiaro che le tecniche usate per quei due stupefacenti colossi non erano una eccezione, giacché delle analoghe soluzioni vengono ora ritrovate anche su qualche scafo minore esaminato negli anni più recenti con i più accurati accorgimenti consentiti dall'archeologia subacquea.
L'ingegneria navale romana - che aveva costituito ad Ostia (nello storico centro di affari del porto marittimo dell'Urbe) la propria potente corporazione dei fabri navales - seppe quindi incrementare le capacità dei cantieri, ponendoli in condizione di fornire dei prodotti di elevata qualità ed in linea con i migliori canoni dell'arte marinaresca.
Avvalendosi di tali capacità, ed al fine di conseguire il più intensivo interscambio fra tutte le rive del Mediterraneo, i Romani diedero un vigoroso impulso alle costruzioni navali, sviluppando una flotta mercantile di dimensioni sbalorditive. "Il creare e mantenere questa flotta fu la più grande impresa marittima di Roma; allo stesso tempo essa servì egregiamente come un efficiente servizio passeggeri e trasporti. ... furono i Romani che idearono questo tipo di flotta e fu il loro spirito organizzativo che rimase alla base della sua organizzazione ed amministrazione. Per ritrovare uguale grandezza di navi e volume di carico dobbiamo arrivare alla compagnia delle Indie Orientali dell'inizio del sec. XIX" [18].
Un altro importante campo d'azione del fervore organizzativo dei Romani, e della loro concretezza in fase di realizzazione, fu senz'altro quello delle opere marittime, anch'esse intese ad incrementare la consistenza, l'efficienza e la sicurezza delle linee di comunicazioni marittime.
Vennero allestiti numerosi nuovi porti, potenziati quelli esistenti e resi tutti più sicuri con la costruzione di estese dighe foranee. Queste opere sono oggi molto ben conosciute per le numerose testimonianze rilevabili su tutte le coste del Mediterraneo: sulla terraferma, nei casi dei porti che nel corso dei secoli si sono insabbiati, o sui fondali marini, laddove si è verificato un fenomeno inverso, oppure - in qualche caso - ancora in sito, essendo state solo ricoperte da successive aggiunte di materiali [19]. Esse dimostrano un'eccellente capacità progettuale - che tiene perfettamente conto dei fenomeni meteorologici locali - e la sicura rispondenza delle tecniche romane di costruzione di opere di calcestruzzo in acqua [20]. Parimenti rispondenti si presentano tutte le altre strutture portuali, quali le banchine - robuste, accuratamente pavimentate e dotate di anelli per i cavi d'ormeggio -, gli ampi magazzini, le torri per il controllo del traffico, i fari per l'ingresso notturno, ecc. (vedasi, ad esempio, il porto di Leptis Magna).
Le maggiori risorse vennero ovviamente dedicate alla realizzazione del grandioso complesso portuale della città di Roma, affiancando all'originario porto di Ostia, i due vasti porti imperiali di Claudio e di Traiano, i cui splendidi resti sono ora in buona parte visitabili nei pressi dell'aeroporto internazionale Leonardo da Vinci di Fiumicino.
A beneficio della sicurezza della navigazione, inoltre, i Romani realizzarono una vera e propria rete di fari disseminati su punti cospicui, integrando in tale rete anche i pochi fari precedentemente esistenti (incluso l'antesignano faro di Alessandria, celebrato fra le meraviglie del mondo). Il più noto dei fari romani divenne inevitabilmente il grande faro del Porto di Roma (eretto dall'imperatore Claudio), poiché orientava la rotta dei naviganti verso la meta che veniva universalmente considerata il centro del mondo.
L'impulso conferito dai Romani allo sviluppo della navigazione marittima conseguì nel Mediterraneo dei risultati straordinari. Roma, infatti, con il complesso dei provvedimenti precedentemente illustrati, riuscì a fare di quell'ampio e bellicoso mare un placido "lago" interno brulicante di vita, di traffici commerciali e di ogni genere di altre attività marittime, come pesca, viaggi e diporto. A questo proposito, Publio Elio Aristide (II secolo d.C.) poteva scrivere, parlando di Roma e del suo grande porto marittimo: "Il mare Mediterraneo come una cintura cinge il centro del mondo ... E così numerose approdano qui le navi mercantili, in tutte le stagioni, ad ogni mutare di costellazioni, cariche di ogni sorta di mercanzie, che l'Urbe si può paragonare al grande emporio generale della terra. ... Partenze ed arrivi di navi si susseguono senza sosta; c'è da meravigliarsi che non nel porto ma nel mare ci sia abbastanza posto per tutte le navi mercantili" [21].
La facilità delle comunicazioni marittime fra tutte le rive del Mediterraneo favorì la romanizzazione dell'Impero, che non fu una monotona riproduzione stereotipata della matrice con gli usi e costumi dei Romani, ma un ampio e complesso fenomeno di osmosi che consentì il reciproco arricchimento delle varie popolazioni. Anche se il latino era la lingua ufficiale dello Stato e veniva progressivamente adottato in tutto l'Occidente, Roma non impose a nessun popolo l'abbandono del proprio idioma: si trovano tuttora sulle rovine romane del nord-Africa delle scritte bilingui, in latino ed in punico (la lingua del peggiore nemico che Roma avesse mai avuto); per l'intera durata dell'Impero, inoltre, tutta la metà orientale del Mediterraneo ha sempre continuato a parlare greco. Per contro, proprio in Roma (che in origine si era alimentata della cultura etrusca e di quelle delle altre popolazioni d'Italia) permaneva una costante propensione ad assorbire tutte le novità che le pervenivano dalle varie parti dell'Impero: dalla cultura ellenica alle suggestioni dell'Oriente, passando attraverso l'immissione di idee, prodotti, abitudini, mode, filosofie, culti e superstizioni di tutte le popolazioni del Mediterraneo.
In quel mondo cosmopolito, multietnico, multirazziale e multilingue, tutti divennero Romani e tutti furono posti in condizione di contribuire all'arricchimento culturale ed alla gestione della cosa pubblica, senza preclusioni, fino a raggiungere le più alte cariche politiche, amministrative o militari, in ambito locale o a livello centrale. Gli stessi Imperatori vennero generati da tutte le rive del Mediterraneo: dalla penisola iberica (Traiano, Adriano, Teodosio) a quella balcanica (Aureliano, Probo, Caro, Diocleziano, Costantino, Giuliano, ecc.), dall'Africa (Settimio Severo, Clodio Albino, Macrino) al Medio Oriente (Eliogabalo, Alessandro Severo, Filippo l'Arabo).
In definitiva, quando si parla di Civiltà Romana, occorre necessariamente riferirsi all'insieme dei valori che hanno governato e reso grande l'Impero di Roma, valori che riflettono ampiamente i contributi provenienti da tutte le rive di questo grande mare interno che tutto il mondo romano chiamò, a giusto titolo, Mare Nostrum.
Oggigiorno, nonostante il lungo tempo trascorso, non è difficile riconoscere che un'ampia parte dei valori fondamentali che danno sostanza alla cultura occidentale affonda le proprie radici in quel pragmatico sincretismo mediterraneo che accompagnò lo sviluppo e l'affermazione della Civiltà Romana. Inoltre, nonostante i vasti fenomeni migratori che, negli scorsi secoli, si sono sviluppati nel Mediterraneo - mutandone sensibilmente la fisionomia generale -, la stessa Civiltà Romana ha lasciato splendide tracce presso tutte le Nazioni rivierasche, permanendo anche, in qualche misura, nel DNA delle relative popolazioni, come un inalienabile patrimonio genetico comune all'intero bacino.
Quanto al Mare Nostrum, esso è stato per tutto questo tempo, sia il teatro delle rivalità e dei cruenti scontri che hanno progressivamente portato le varie Nazioni rivierasche a raggiungere il loro attuale assetto, sia una palestra per l'affermazione di potenza di svariate Nazioni non mediterranee. La fine della guerra fredda ha certamente consentito una certa sdrammatizzazione della situazione, anche se permangono dei latenti fattori di rischio che consigliano di non allentare la vigilanza.
Vi è tuttavia, nello scenario odierno, un incoraggiante elemento di novità: i popoli rivieraschi paiono ora prevalentemente orientati ad accantonare i feroci rancori legati alle precedenti conflittualità e, pur senza nulla rinnegare del passato (da ciascuno giustamente onorato, in quanto parte del proprio patrimonio nazionale), tendono a mantenere un atteggiamento di maggiore attenzione e rispetto nei confronti delle altre Nazioni, ed a privilegiare le occasioni di reciproca cooperazione rispetto alle sterili logiche della contrapposizione ad oltranza. È peraltro presumibile che tale tendenza, in un mondo sempre più strettamente interconnesso dalle comunicazioni e dall'economia, abbia la possibilità di consolidarsi ulteriormente.
In questa prospettiva, il riferimento all'eredità di Roma può favorire lo sviluppo di una più adeguata valorizzazione degli elementi mediterranei della cultura occidentale, rafforzando nel contempo la comune consapevolezza della necessità di salvaguardare il Mare Nostrum con l'apporto di tutte le Nazioni bagnate da questo antichissimo ed incantevole mare.
[ 1] Polyb., III, 22-26; App., Samn. 7
[ 2] Plut., Pomp. 50
[ 3] Per le Lipari: Liv., V, 28; per i tiranni di Sicilia: Liv., VII, 25-26; per Anzio: Liv., VIII, 12-14; per Calcide: Liv., XXXI, 22; per Sparta: Liv., XXXIV, 32; per Filippo: Diod., XXVIII, 1; per Antioco: Liv., XXXVII, 21; per Cefalonia: Liv., XXXVII, 13; per gli Illiri: Polyb., II, 8 e Liv., XL, 42; per i Liguri: Plut., Aem. P. 6 e Liv., XL, 28; per le Baleari: Flor., I, 43 e Strabo., III, 5, 1; per Creta: Flor., I, 42, Plut., Pomp. 29 e Dio. C., XXXVI, 17-19; per i Cilici: nota successiva
[ 4] Plut., Pomp. 24-28; App., Mithr. 92-96; Dio. C., XXXVI, 20-37; Flor., I, 41; Vell., II, 31-32; ecc.
[ 5] Sen., De prov. IV, 14
[ 6] Michel Reddé, Mare Nostrum - Les infrastructures, le dispositif et l'histoire de la Marine Militaire sous l'Empire Romain, École Française de Rome, Roma, 1986
[ 7] Plaut., Rud. IV,3, 35
[ 8] Cic., De off. I, 16 e Pro Sex. Rosc. Am. XXVI, 72
[ 9] Verg., Aen. VII, 229-230
[10] Ovid., Met. VI, 349-351
[11] Ius., Ist. II, 1
[12] Ius., Dig. 47,10
[13] Colum., De r. r. VIII, 16; Plin., Nat. hist. IX, 79-80; Val. Max., IX,1,1; Varro., De r. r. III,2,17 e III,3,10; Vell., II,33,4
[14] Sen., De benef. IV, 28
[15] Ius., Ist. II, 4
[16] Ius., Cod. XI, I,3
[17] Guido Ucelli, Le Navi di Nemi, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1983
[18] Lionel Casson, Navi e marinai dell'antichità, Mursia, Milano, 1976 (titolo originale: The Ancient Mariners; traduzione dall'inglese di Clelia Boero Piga).
[19] Enrico Felici, Anzio: un porto per Nerone, da "Archeologia viva" n. 52 (lug/ago 1995), estratto messo in linea su Internet da ASSONET - Archeologia Subacquea, dicembre 1997
[20] Vitr., V,12
[21] Arist., 11-13; da "Elio Aristide - In Gloria di Roma", introduzione, traduzione e commento a cura di Luigia Achilleia Stella, Edizioni Roma, Roma, Anno XVIII (1940)