Museo Civico Albano
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Nel descrivere la situazione di vantaggio delle forze pompeiane nei primi mesi della guerra civile contro Cesare, Cicerone scrisse ad Attico attribuendo a Pompeo il seguente convincimento: «chi è padrone del mare diviene padrone di tutto» [1]. Questo è uno dei rari casi in cui un autore latino ha riportato in chiare lettere uno dei criteri ispiratori fondamentali della strategia prescelta da un condottiero romano. Comunemente, infatti, gli scrittori dell’antichità si preoccupavano soprattutto di riferire le decisioni tattiche relative alle singole battaglie, mentre si soffermavano ben poco ad analizzare le scelte strategiche che influenzarono l’intero corso di una guerra. Eppure, gli stessi Romani erano ben consapevoli della reale prerogativa di cui godevano nei confronti bellici: essa non consisteva tanto nella capacità di vincere le battaglie (che, infatti, vennero occasionalmente anche perse), quanto in quella di vincere le guerre [2]. In altri termini, utilizzando nel suo significato moderno una parola antica [3], essi adottarono sempre una strategia vincente. Avremo modo di vedere come questa strategia abbia costantemente fatto affidamento sul contributo fornito dalle forze navali, coerentemente con il criterio precedentemente citato con le parole di Cicerone. Quello stesso criterio corrisponde peraltro ad uno dei principi basilari cui si è costantemente ispirata la grande strategia dell’antica Roma.
Poiché la predetta espressione è stata utilizzata anche nel titolo, conviene aprire subito una breve parentesi per precisarne il significato, visto che non si tratta di termini di uso comune. I cultori di arte militare sanno ben distinguere i suoi due ben distinti livelli: la tattica - intesa a predisporre e condurre i singoli combattimenti - e la strategia, che regola il complesso delle operazioni belliche in funzione della vittoria finale. Quando si parla di grande strategia non si intende una strategia “alla grande” (come accade nel gergo televisivo, che parla di “grande cinema”, “grande musica”, “grande calcio”, e così via), ma qualcosa di più ampio della sola strategia. La grande strategia, infatti, non si limita all'impiego dei mezzi militari, ma costituisce la regia suprema che deve mobilitare, armonizzare ed impiegare in modo coordinato e sinergico tutte le risorse nazionali (politiche, militari, economiche, mediatiche, ecc.) potenzialmente utili per portare le contese internazionali negli ambiti più favorevoli, per ottenere i voluti contributi internazionali e per compiere la prescelta serie di azioni finalizzata al conseguimento dello scopo ultimo prestabilito. I Romani compresero perfettamente questa esigenza e ne tennero ampiamente conto, non solo in tempo di guerra, ma anche nei periodi di pace.
Purtroppo, tuttavia, nei testi antichi non ne abbiamo delle testimonianze esplicite ed esaustive. I Romani, in effetti, pur essendo stati straordinariamente oculati proprio nella strategia, non ci hanno lasciato alcun trattato su tale argomento [4]. Per la loro mentalità fondamentalmente pragmatica, essi non amavano la logica degli schematismi dottrinari: preferivano essere giudicati dalle azioni [5] che essi stessi decidevano ed compivano di volta in volta, e si burlavano dei Greci che si atteggiavano a sapienti teorici dell’arte della guerra, quando non erano più capaci di difendere nemmeno sé stessi. Per chi riceveva un’educazione romana, erano sufficienti gli insegnamenti desumibili dalla storia per abituarsi ad individuare, nelle varie circostanze, le linee d’azione più vantaggiose per conseguire la vittoria finale. Tali scelte, peraltro, venivano normalmente mantenute segrete [6], allo scopo di non comprometterne l’efficacia. Per tali motivi, non possiamo attenderci di trovare nelle fonti antiche un’esplicazione ragionata di tutte le decisioni assunte e delle finalità strategiche ad esse collegate. Questi importanti elementi sono comunque desumibili dall’analisi di quanto venne effettivamente compiuto e dai risultati effettivamente conseguiti.
Tale analisi non potrebbe essere condotta in un’unica soluzione, poiché le forze navali utilizzate dai Romani hanno assunto, nel corso dei secoli, delle connotazioni, dei compiti ed una struttura organizzativa in costante mutazione, per adattarsi all’evoluzione delle esigenze e delle priorità assegnate dai massimi decisori politici. Non sarebbe comunque nemmeno possibile prendere in considerazione, in questa, sede, tutte le varie casistiche che si sono presentate. Per semplicità di trattazione, pertanto, esamineremo le sette diverse situazioni storiche in cui si può parzializzare, a grandi linee, il complesso svolgimento dell’ultramillenaria storia navale dell’antica Roma. Seguirà poi una breve descrizione della situazione finale determinatasi in epoca imperiale a coronamento di una politica navale giunta alla sua piena maturità a livello globale. Perverremo infine a trarre alcune conclusioni, anche alla luce delle logiche perenni [7] che regolano l'impiego dello strumento navale, soprattutto nell'ottica delle finalità strategiche che esso permette di conseguire. Si tratta in effetti di una tematica che di solito risulta pressoché sconosciuta [8], perfino nelle nazioni, come la nostra, che possono vantare delle antichissime, valide e tuttora ben vitali tradizioni navali e marinare.
Come accade nei periodi iniziali della crescita di tutti gli organismi viventi, le prime esigenze prioritarie di Roma furono quelle indispensabili alla propria sopravvivenza. Nei primi secoli della storia romana, pertanto, il ruolo strategico delle navi fu quello assicurare l’afflusso dal mare dei rifornimenti vitali di cui l’Urbe aveva necessità per il proprio sostentamento, ma che non poteva acquisire per via terrestre poiché era circondata da popolazioni ostili o comunque infide. Occorre a tal proposito ricordare che Roma venne a giusto titolo considerata dagli antichi una città marittima dalla posizione felicissima, poiché aveva facile accesso al mare attraverso il corso ampio e perenne del fiume Tevere, pur non essendo direttamente esposta ai pericoli provenienti dal mare [9].
In realtà, la città non era stata fondata in quella posizione per effetto del caso o per un capriccio del proprio mitico fondatore, ma proprio perché i tre colli più vicini alla riva sinistra del Tevere all’altezza dell’isola Tiberina erano bagnati dalle acque del fiume, che formava due profonde insenature paludose nelle valli fra il Campidoglio ed il Palatino, e fra quest’ultimo e l’Aventino [10]. I primi Romani nacquero quindi con i piedi nel Tevere e convissero fin dalle origini con una costante presenza navale nel porto fluviale naturale: vi erano sia le barche e le chiatte che assicuravano il lucroso servizio di traghetto di persone e merci fra le due sponde del fiume, sia le navi da carico che, provenendo dal mare, risalivano il Tevere per scaricare le loro merci in quell’ancoraggio tranquillo [11]. Quando i re Tarquini bonificarono le paludi, con la costruzione della Cloaca Massima, lasciarono comunque inalterata la parte più profonda della predetta insenatura, che costituì così il più antico porto fluviale attrezzato di Roma: il Portus Tiberinus, sulla cui banchina meridionale si affacciava l’austero tempio (tuttora esistente) del dio romano Portuno, il protettore dei porti. Il sistema portuale di Roma fu completato con la realizzazione del porto marittimo di Ostia, la cui fondazione - come prima colonia di Roma - viene fatta risalire al quarto re, Anco Marzio.
La storia arcaica di Roma non avrebbe potuto essere molto documentata, ma essa ci ha comunque tramandato vari episodi in cui le merci recate dal trasporto marittimo furono determinanti per superare delle gravi situazioni di carestia nell’Urbe [12]. Vi sono peraltro diversi elementi che indicano che il commercio marittimo necessario ai Romani venne molto presto organizzato e gestito direttamente da essi [13]. Abbiamo inoltre l’evidenza dell’esistenza di navi da guerra romane perlomeno fin dall’ultimo periodo regio, come si evince dai trattati navali stipulati fra Roma e Cartagine [14], e poi anche da quello fra Roma e Taranto [15]. Analogamente risulta certamente presente in mare, fin dalla epoche più antiche, una costante minaccia costituita dalla pirateria. Questi dati fanno chiaramente capire che il compito fondamentale attribuito alle navi da guerra di cui i Romani si erano dotati fu quello di assicurare la protezione del proprio traffico mercantile, soprattutto per i carichi necessari per l’approvvigionamento dei viveri destinati al sostentamento della popolazione (attraverso l’antichissimo ed efficiente sistema dell’annona). Che questo compito sia stato assolto con efficacia, lo possiamo desumere dall’assenza di notizie su particolari situazioni critiche determinate da attacchi di pirati. Al contrario, la sola notizia che ci è pervenuta su di un dirottamento di una nave romana ad opera di pirati, nelle acque delle isole Lipari, mostra un atteggiamento particolarmente cauto e perfino benevolo mantenuto dagli stessi pirati nei confronti dei Romani, che evidentemente godevano già di un certo rispetto anche in alto mare [16].
Fra il VI ed il IV secolo a.C., lo sviluppo del commercio marittimo, che costituivano anche una lucrosa fonte di reddito per gli intraprendenti armatori romani, venne accompagnato da un analogo incremento del numero delle navi da guerra. Ma un aumento davvero sensibile della consistenza del naviglio militare avvenne nel 338 a.C. con la cattura delle navi di Anzio, che avevano in precedenza condotto delle incursioni ostili contro la costa di Ostia. Delle navi catturate, le più vecchie furono bruciate e con i loro rostri venne adornata la tribuna del Foro (da allora in poi chiamata “i Rostri”), mentre quelle efficienti furono portate nei “Navalia” di Roma [17], cioè in quelle sistemazioni per il rimessaggio delle navi da guerra esistente sulla riva meridionale del Campo Marzio. A quel punto la Marina romana aveva assunto delle dimensioni tali da consentirne un impiego più ampio della sola difesa del traffico commerciale. Per la gestione della flotta venne pertanto istituito un nuovo incarico di comando: quello dei duumviri navali [18].
Dalle seguenti quattro nuove missioni assegnate a questa flotta, si può già intravvedere la volontà del Senato di consolidare ed espandere il potere marittimo di Roma: vigilanza sulla sicurezza delle proprie acque costiere e controllo delle acque limitrofe, fino alla Campania [19]; esplorazione di altri litorali di più immediato interesse, ad esempio in Corsica [20]; missioni di Stato oltremare, come la visita navale ufficiale effettuata in Grecia, ad Epidauro, per prelevare l'emblema di Esculapio [21]; presenza navale dissuasiva in acque più remote allo scopo di fornire sostegno ad una popolazione alleata, come quella della città di Turi, nel golfo di Taranto: missione che suscitò una reazione ostile dei Tarantini, determinando il casus belli della guerra Tarantina [22], che permise ai Romani di completare il proprio controllo sulla nostra Penisola.
Dopo la vittoria nella guerra Tarantina, Roma si preoccupò nel vedere che al di là dello Stretto di Messina i Cartaginesi stavano progressivamente insediandosi in molte città della Sicilia e si preparavano ad impadronirsi anche di Messina, alleata dei Romani. Avendo da poco sperimentato il carattere infido dei Cartaginesi, che, sebbene alleati dei Romani, nella recente guerra avevano inviato la propria flotta in aiuto alla città di Taranto, il Senato romano comprese che si rendeva inevitabile un conflitto contro Cartagine, anche se questa era allora la maggiore potenza navale del Mediterraneo. Inizialmente sembrò che la posta in gioco consistesse solo nel possesso della Sicilia, isola troppo vicina alla nostra Penisola per non costituire un grave pericolo se controllata da una potenza nemica. Tuttavia, come si vide poi dall’intero svolgimento del conflitto, i Romani si erano prefissati il conseguimento di uno scopo molto più ambizioso: quello di combattere per il libero utilizzo del mare. In effetti, dopo aver esteso il proprio dominio sull’intera Penisola, Roma non avrebbe avuto più alcuna possibilità di espansione se non avesse avuto piena libertà di movimenti sul mare; anzi, in tal caso, anche la sicurezza della stessa Penisola avrebbe potuto ben presto divenire assai precaria. Non è quindi affatto sorprendente che il Senato, nella sua proverbiale saggezza [23], si sia risolto ad affrontare una sfida apparentemente insostenibile per sottrarre ai Cartaginesi il dominio del mare.
Tenuto conto dell’eccessivo divario di forze per la guerra navale, i Romani agirono con il loro consueto pragmatismo, procedendo con gradualità. Essi raccolsero inizialmente tutte la navi disponibili, unendo alla loro piccola flotta le unità prelevate presso tutte le marinerie italiche [24]. Con la grande flotta in tal modo costituita, i Romani navigarono verso Reggio e, dopo aver effettuato un’abile manovra diversiva per ingannare la sorveglianza della flotta cartaginese, attraversarono lo Stretto di notte e riuscirono a sbarcare a Messina, da cui proseguirono le operazioni in Sicilia. Nel frattempo, essi misero in cantiere una nuova grande flotta costituita dalle poderose quinqueremi, una classe di unità che non era mai stata costruita presso le varie marinerie italiche, ma che venne studiata con il contributo di esperienza fornito dai Siracusani (neo alleati dei Romani) e, secondo quanto si è tramandato, con l’esame di una quinquereme punica arenatasi sulla spiaggia calabrese e catturata dai Romani. Tutti gli equipaggi necessari alle nuove unità vennero formati ex novo e sottoposti ad un intenso addestramento.
È stato inoltre riferito, dal solo Polibio, che per compensare le minori qualità evolutive delle navi romane e la minore esperienza di manovra dei comandanti romani, sulla prora delle nuove quinqueremi sarebbe stata sistemato un attrezzo di nuova invenzione, chiamato corvo, consistente in una passerella mobile dotata di uncino all’estremità per agganciare le navi nemiche e facilitarne l’arrembaggio. Se ne è dedotto che, con questo artifizio, o con le cosiddette mani di ferro di cui parlano tutte le altre fonti (nulla di più dei rampini lanciati per l’abbordaggio), i Romani fossero riusciti a “trasformare la battaglia navale in una battaglia terrestre”: concetto assolutamente aberrante, perché riuscire ad affiancare ed abbordare una nave nemica (che contromanovra per evitarlo), saltare su di essa all’arrembaggio (mentre il nemico reagisce con lancio di frecce, giavellotti ed altri proiettili), e combattere a bordo di essa fino ad impadronirsene (muovendosi negli angusti spazi liberi sui ponti di coperta delle navi e poi anche sotto coperta), è una delle imprese più squisitamente marinare che si possano compiere per imporsi su di una nave nemica in mare. Va inoltre detto che, mentre i corvi fecero una breve comparsa solo nel racconto polibiano delle due prime grandi battaglie navali della prima Guerra Punica, e poi scomparvero, i Romani continuarono sempre a prediligere la tattica dell’arrembaggio rispetto a quella dello speronamento, ritenendo – a giusto titolo – preferibile appropriarsi delle navi vinte e catturarne i relativi equipaggi, anziché mandare a fondo quelle preziose risorse.
La sequenza degli eventi principali del conflitto è impressionante. Dopo il primo sbarco romano in Sicilia (264 a.C.), vi furono: la vittoria navale di Milazzo (260 a.C.) conseguita da Caio Duilio; la presa di Sardegna e Corsica (259 a.C.), per sfruttare subito lo sconcerto del nemico, ed al fine di ottenere un miglior controllo del Tirreno; vittoria navale di Ecnomo (256 a.C.), al termine della più grande battaglia navale dell’antichità, per numero di navi e di uomini imbarcati; primo sbarco romano in Africa (256 a.C.), condotto da Marco Attilio Regolo; vittoria navale di Capo Ermeo (256 a.C.) e recupero delle legioni dall’Africa; due spaventosi naufragi provocati da tempeste (255-253 a.C.); blocco navale di Lilibeo (250 a.C.); battaglia navale di Trapani (249 a.C.), l’unica persa dai Romani, per un eccesso di fiducia del loro comandante in capo. Seguì una fruttuosa pausa delle maggiori operazioni navali dei Romani, che studiarono nel frattempo una significativa miglioria delle proprie costruzioni navali, misero quindi in cantiere un nuovo tipo di quinqueremi veloci, ne addestrarono con il massimo impegno i relativi equipaggi navali, consentendo alla nuova flotta romana di intercettare il nemico navigando contro mare e contro vento in una situazione meteo fortemente deteriorata e di surclassare i Cartaginesi nella perizia marinaresca e nel combattimento, riportando così la decisiva vittoria navale delle Egadi (241 a.C.), che pose fine al conflitto.
Questa prima Guerra Punica venne così vinta al termine di un gigantesco sforzo organizzativo, finanziario, cantieristico, addestrativo ed operativo, ed a prezzo di perdite ingenti (circa 800 navi da guerra, di cui oltre 600 affondate dalle tempeste), avendo tuttavia inflitto al nemico cinque sconfitte navali (contro una sola subita) e la perdita di circa 530 navi da guerra (di cui più della metà vennero catturate dai Romani). L’obiettivo strategico venne pienamente conseguito, con la chiara acquisizione della supremazia navale e del dominio del mare nel bacino occidentale del Mediterraneo. I Cartaginesi, non essendo più in condizioni di mantenere i collegamenti navali con l’Africa, furono costretti a rinunziare a qualsiasi pretesa sulla Sicilia; subito dopo, approfittarono della loro nuova posizione di padroni incontrastati del mare, i Romani fecero loro ratificare anche la rinunzia alla Sardegna ed alla Corsica. I commentatori moderni hanno trovato molte difficoltà a spiegare il successo romano in una guerra prettamente marittima contro l’espertissima potenza navale punica, ed hanno finito con l’ammettere che i Romani dimostrarono di aver superato i Cartaginesi nella capacità di combattere le battaglie navali [25] e nella pura abilità nautica [26], divenendo, con la perseveranza, dei provetti marinai [27]. Tutto questo è certamente vero, ma il reale merito dei Romani fu quello di aver perfettamente compreso le logiche del potere marittimo ed aver pertanto individuato fin dall’inizio la strategia più appropriata per sconfiggere il nemico [28].
Divenuta la maggiore potenza navale del bacino occidentale del Mediterraneo, Roma ebbe occasione di esercitare autorevolmente il dominio del mare nella successiva durissima prova che dovette affrontare per superare il revanscismo punico. Annibale Barca, avendo giurato al padre guerra ad oltranza contro i Romani, mosse dalla Spagna con un esercito lungamente preparato e, dopo aver superato i Pirenei e le Alpi, piombò in Italia, infliggendo alle legioni romane una serie di ben quattro sconfitte (218-216 a.C.), una più spaventosa dell’altra: Ticino, Trebbia, Trasimeno, Canne. Sembrò che Roma fosse ormai rimasta priva di eserciti per difendere le proprie mura, e ci si domandò come mai Annibale, che pur si avvicinò ad esse, non avesse approfittato della situazione disperata in cui versava l’odiato nemico e non gli avesse inflitto il colpo di grazia mettendo l’Urbe a ferro e fuoco. Annibale un indeciso? un debole? un buonista? un crapulone che si lascia attrarre e rammollire dagli “ozi di Capua”? Evidentemente no. Se non tentò nemmeno di espugnare Roma è perché non lo poté fare. I Romani non glie lo consentirono.
Ma ricominciamo dall’inizio, per capire quale fu la strategia di Roma. La partenza di Annibale dalla Spagna era ampiamente nota ai Romani, che intendevano intercettarlo al momento del suo attraversamento del Rodano. A tal fine, uno di due consoli in carica in quell’anno (218 a.C.), Publio Scipione, padre del futuro Africano, si era recato con la sua flotta alle foci di quel fiume, ove aveva appreso che Annibale si era diretto molto più a nord. Allora, per intercettarlo dopo l’attraversamento delle Alpi, egli si diresse con poche navi verso Genova e Pisa (per marciare con le legioni verso Annibale), mentre la maggior parte della flotta, al comando di suo fratello Gneo, proseguì verso la Spagna per impegnare Asdrubale, fratello di Annibale. Nel frattempo, l’altro console con una flotta ancor più grande si era diretto verso le acque sicule; dopo aver preso possesso dell’isola di Malta, per meglio controllare le acque del canale di Sicilia, navigò verso nord, risalì l’Adriatico e sbarcò a Rimini per marciare anche lui contro Annibale. L’attenzione dei Romani, come si vede, non era concentrata sulle mosse di Annibale, ma era rivolta anche al controllo delle acque al largo di Cartagine, per inibire qualsiasi azione diretta contro l’Italia, ed allo scacchiere spagnolo, laddove vi era la riserva strategica delle forze puniche.
Dopo la sconfitta di Trasimeno, mentre già si temeva per la sopravvivenza di Roma, l’unico console superstite venne inviato per mare con una grande flotta per controllare le acque al largo della Corsica, della Sardegna e delle acque africane: dopo essere passato dalle isole di Menige (Gerba) e Cercina (Kerkennah), il console prese possesso dell'isola di Pantelleria, per migliorare ancora il controllo del canale di Sicilia. Dopo l’ancor più tragica disfatta di Canne, si disse che la salvezza dei Romani fu dovuta alla saggezza di Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore in virtù della sua cosiddetta “tattica temporeggiatrice” [29]. In realtà quella non fu una tattica, ma una vera e propria strategia, e l’epiteto che allude ad un presunto temporeggiamento è un po’ troppo generico e rischia di essere fuorviante. In effetti, il semplice prendere tempo, che somiglia molto ad un rinvio di decisioni, non ha mai risolto alcun problema. Per comprendere bene in cosa poté allora consistere questa strategia occorre trarre una logica dalla complessa serie di azioni compiute dai Romani nella vasta scacchiera in cui si giocò l’intero conflitto: dall’Italia alla Spagna, alla penisola balcanica ed all’Africa, nonché su tutte le acque del Mediterraneo occidentale e dell’Egeo, oltre alle acque oceaniche fino a Cadice. Per meglio visualizzare tale complessità, ci si può riferire al riepilogo grafico delle operazioni navali compiute dai Romani durante questa guerra.
Nel corso del conflitto, la grande strategia romana ebbe modo di esprimersi con provvedimenti talmente oculati da dimostrare quanto ampia fosse, da Roma, la visione delle esigenze prioritarie e quanto lungimirante e sicura fosse la maestria del Senato nel gestire tutte le risorse disponibili. Risulta anche evidente che i Romani confidassero soprattutto nella valenza del potere marittimo per ottenere un complesso di risultati, la cui efficacia strategica non avrebbe potuto manifestarsi in tempi brevi, ma che dovevano concorrere in modo determinante al conseguimento della vittoria finale. In particolare, mentre Annibale era tenuto costantemente sotto controllo dal coraggioso e tenace Marco Claudio Marcello, gli venne fermamente precluso l’accesso al mare, frustrando tutti i reiterati tentativi ch’egli effettuò verso i porti della Campania ed infine contro Taranto. Solo in questa città egli riuscì ad entrare, grazie ad un tradimento, ma non poté conquistarne né la rocca, né il porto, e finì per essere costretto a fuggire prima di aver potuto ricevere aiuti dalla madrepatria. Nel contempo i Romani continuarono a controllare le acque africane per impedire ogni attività navale di rilievo, e ad operare in varie aree decentrate: in Spagna, per inibire le potenzialità di quel serbatoio logistico a favore di Annibale; in Sicilia, per sottrarre Siracusa dalla pericolosa influenza punica; ed in Grecia, per privare il Cartaginese della possibilità di ricevere il consistente aiuto promessogli da Filippo V, re di Macedonia. Avendo in tal modo irretito [30] Annibale, i Romani lo costrinsero infine a combattere in Africa (204 a.C.), a rassegnarsi alle condizioni della pace, che includevano la distruzione della flotta punica ed il divieto di ricostruirla.
È noto che il vero epilogo del confronto fra Roma e Cartagine avvenne mezzo secolo dopo, con la terza guerra punica, motivata dal tentativo cartaginese di ricostruire la propria flotta e da altre violazioni del trattato di pace. I Romani allora sbarcarono nuovamente in Africa, per imporre ai Cartaginesi di abbandonare la loro città e di trasferirsi nell’entroterra, ad una distanza non inferiore a 15 km dal mare. Poiché i Cartaginesi rifiutarono di accettare di abbandonare il mare, la città venne assediata. Dopo un’ultima uscita in mare della flotta punica, sconfitta da Romani nelle acque di Cartagine (147 a.C.), la popolazione fu costretta alla resa e la città venne distrutta.
Fin dal termine della prima guerra punica, quando i Romani si affermarono come potenza navale dominante in sostituzione di Cartagine, Roma si trovò naturalmente indotta ad avvalersi del potere marittimo per consolidare la propria supremazia nel Mediterraneo occidentale e per iniziare ad estendere la propria area d’influenza anche in quello orientale. Si avviò allora un processo di crescente suo coinvolgimento nelle reiterate situazioni di crisi che perturbavano l’area mediterranea. Per circa due secoli, i suoi interventi diplomatici e militari vennero ottimamente orientati e gestiti dal Senato [31], che seppe individuare con spiccato senso strategico e lungimiranza le priorità da perseguire nell’interesse di Roma [32]. Ciò consentì ai Romani di superare felicemente un’ininterrotta serie di conflitti, che, pur se originati da ragioni eminentemente difensive [33], li portarono, col determinante concorso delle loro forze marittime, ad allargare sempre più la cerchia dei propri alleati ed il raggio del proprio dominio.
Questa importante fase della storia romana venne definita “transmarina” dagli stessi Romani, per indicare proprio ch’essa fu caratterizzata da una sequenza di proiezioni di forza sul mare ed oltremare. Si trattò, in effetti, della parte più ragguardevole dell’espansione romana al di fuori della nostra Penisola; ed essa venne attuata, per i primi duecento anni (grosso modo fra la metà del III sec. e la metà del I sec. a.C.), quasi esclusivamente per via marittima: prima in Sicilia, in Sardegna ed in Corsica, poi al di là dell’Adriatico e del canale d’Otranto, quindi sui litorali della Spagna e del nord-Africa, per poi proiettarsi sulle coste e le isole del Mediterraneo orientale, ad iniziare dalla Grecia e dall’Asia minore, fino ad acquisire il controllo di quasi tutti i litorali bagnati dal Mediterraneo. Solo allora iniziarono le maggiori campagne militari prettamente terrestri nell’Europa continentale.
Le guerre che i Romani dovettero affrontare in questo periodo nel Mediterraneo orientale vennero quasi tutte provocate dall’espansionismo di alcuni monarchi ed altri autocrati che avviarono delle ostilità, spesso anelando ad acquisire l’egemonia nella propria regione o sull’intero mondo ellenistico, ispirandosi al ricordo esaltante di Alessandro Magno. I più impegnativi di tali conflitti furono, per i Romani: la II Guerra Macedonica, contro il re Filippo V (200-197 a.C.); la Guerra Spartana, contro il tiranno Nabide (195 a.C.); la Guerra Siriaca, contro il re Antioco III, il Grande (191-189 a.C.); la III Guerra Macedonica, contro il re Perseo (171-168 a.C.); la IV Guerra Macedonica, contro l’impostore Andrisco, noto come Pseudo-Filippo (149-148 a.C.); la Guerra Achea, contro il capo degli Achei, Critolao (146 a.C.); la Guerra Asiatica, contro l’usurpatore Aristonico (131-129 a.C.) e ben tre Guerre Mitridatiche, contro il re del Ponto, Mitridate VI Eupatore, il Grande (88-64 a.C.). Fra tutti costoro, che guerreggiarono in tempi diversi, i sovrani dei grandi regni ellenistici si avvalsero soprattutto delle proprie flotte per invadere la Grecia e per combattere contro i Romani.
Le flotte romane si trovarono quindi a dover affrontare per mare degli avversari dotati di forze navali estremamente potenti ed in possesso di una lunga ed insuperata esperienza nei combattimenti in mare. Tuttavia i Romani avevano ormai assunto una tale sicurezza nella gestione delle loro flotte che riuscirono ad imporsi sulle forze nemiche ed a risultare in posizione nettamente dominante anche in quei mari. Questa superiorità navale fu peraltro la condizione essenziale e determinante per l’espansione di Roma oltremare.
La sicurezza del traffico marittimo venne dai Romani sempre considerata un’esigenza prioritaria, tanto che essi erano perfino ricorsi alla guerra, la I guerra Illirica (229-228 a.C.), in seguito ad una crisi innescata da atti di pirateria compiuti dagli Illiri sotto la protezione della loro regina Teuta. Pochi decenni dopo, altri nemici di Roma decisero di finanziare dei pirati per indurli ad attaccare il traffico marittimo romano, fornendo in tal modo un contributo di tipo terroristico alla propria guerra sul mare. Iniziative di tal genere vennero assunte, in particolare, da Filippo V, re di Macedonia (200-197 a.C.), Nabide, tiranno di Sparta (195 a.C.) ed Antioco III, re di Siria (191-189 a.C.). Ma il contributo maggiore allo sviluppo della pirateria proveniente dalla Cilicia fu dato un secolo dopo da Mitridate VI, re del Ponto (88-64 a.C.). La grande quantità di risorse devolute da questo monarca alla pirateria cilicia ne determinò una proliferazione abnorme, tanto da mettere in seria difficoltà l’efficienza delle linee di comunicazione marittime di primario interesse di Roma.
I Romani non hanno mai sottovalutato questo problema, ma non sono sempre stati in condizione di affrontarlo con sufficienti mezzi di contrasto. Eppure, ogni volta che essi ne ebbero la possibilità, organizzarono delle apposite operazioni specificamente dirette contro determinati tipi di pirateria. Fra tali impegni si ricordano: le operazioni contro la pirateria dei Liguri (182-181 a.C.); le operazioni contro la pirateria degli Istri e Illiri (178-168 a.C.); la Guerra Balearica, condotta da Quinto Cecilio Metello, poi soprannominato Balearico (123-122 a.C.); la I Guerra Piratica, condotta da Marco Antonio, detto “l'Oratore”, nonno del Triumviro (102-100 a.C.); la campagna contro i pirati, condotta da Lucio Licinio Murena (84 a.C.); la II Guerra Piratica, condotta da Publio Servilio Vatia, poi soprannominato Isaurico (78-75 a.C.); la III Guerra Piratica, condotta da Marco Antonio, detto per scherno “il Cretico”, padre del Triumviro (74-70 a.C.); la Guerra Piratica in Sicilia, condotta da Lucio Cecilio Metello (69 a.C.); la Guerra Cretica, condotta da Quinto Cecilio Metello, poi soprannominato Cretico (69-68 a.C.); la Grande Guerra Piratica, condotta da Gneo Pompeo Magno (67 a.C.).
Tutte queste operazioni vennero svolte con grande efficacia, ma con risultati spesso effimeri, data l’estrema mobilità delle flottiglie piratiche. Quella che ebbe invece un risultato definitivo fu l’ultima, che rimase davvero memorabile per l’imponenza delle forze messe in campo dai Romani, per l’eccellente organizzazione attuata da Pompeo e per la straordinaria celerità con la quale venne condotta a termine. Eppure la situazione da fronteggiare era certamente peggiore di tutte le precedenti, poiché la pirateria proveniente dalla Cilicia aveva raggiunto delle dimensioni tali da interessare l’intero bacino del Mediterraneo, pregiudicando perfino la sicurezza dei mari e delle coste d’Italia e mettendo in gravi difficoltà la stessa Roma, per l’interruzione dei rifornimenti navali. Ma a quel punto i Romani poterono dare il via ad una guerra in grande stile, conferendo a Pompeo Magno dei poteri eccezionali, con la facoltà di scegliere 15 luogotenenti di rango senatorio, ed assegnandogli un sovrabbondante complesso di forze, che includeva ben 500 navi da guerra.
Pompeo si mosse con incredibile rapidità. Pompeo suddivise l’intero Mediterraneo in 13 aree, che fece perlustrare contemporaneamente dai suoi luogotenenti, investiti del comando di adeguate flotte. Lo stesso Pompeo, con una propria flotta, ispezionò prima le aree del bacino occidentale del Mediterraneo, in soli quaranta giorni; quindi, dopo una breve sosta in Italia, percorse le varie aree del Mediterraneo orientale in altri quaranta giorni, giungendo infine nelle acque della Cilicia, ove sconfisse in battaglia navale le superstiti unità dei pirati ritiratesi presso le proprie coste. Sbarcato poi in Cilicia, concluse la guerra dando alle fiamme oltre 1300 scafi e radendo al suolo le sistemazioni dei pirati. In tal modo, egli riuscì a liberare tutto il mare dalla piaga della pirateria in meno di tre mesi, dall'inizio della primavera a metà estate del 67 a.C..
Un decennio dopo Giulio Cesare rese sicure anche le acque dell’Oceano, facendo costruire una nuova flotta romana sulla Loira ed usandola poi contro la grande forza navale costituita nelle acque della Bretagna dalla coalizione Armoricana. Questa coalizione, cui parteciparono tutte le popolazioni marittime presenti sulla fascia costiera nord-occidentale della Gallia, dal Reno alla Loira, era pilotata dai Veneti transalpini, residenti lungo la costa meridionale della penisola bretone. Si trattava del popolo più potente sull’Oceano, ed era in grado di controllare con le proprie navi tutti i traffici marittimi, inclusi quelli con i Britanni. Dopo un’intera giornata di combattimenti in mare (agosto 56 a.C.), i Romani riuscirono ad arrembare e catturare la quasi totalità delle navi nemiche. Questo risultato indusse i Veneti ed i loro alleati alla resa immediata, poiché senza navi essi erano privi di difese. Così l’Oceano rimase libero dal controllo dei Galli e, pertanto, aperto ai Romani. Lo stesso Cesare ne approfittò, conducendo nei due anni successivi (55 e 54 a.C.) le due prime spedizioni navali romane in Britannia. Da allora in poi, anche le acque oceaniche risultarono sicure per il traffico mercantile romano.
I laceranti conflitti civili che seguirono il brutale assassinio di Cesare si ripercossero anche sulla sicurezza dei mari ad entrambi i lati della nostra Penisola. La situazione divenne particolarmente grave nel Tirreno, pesantemente minacciato e tormentato dalla rovinosa pirateria orchestrata da Sesto Pompeo, secondogenito di Pompeo Magno, che aveva arbitrariamente occupato la Sicilia e da lì faceva condurre delle incursioni – in mare e contro le coste d’Italia – da parte di flottiglie armate, comandate da ex pirati catturati da suo padre. In Adriatico, invece, la guerra civile aveva indirettamente invogliato gli Illiri ed alcune altre popolazioni costiere della Dalmazia, a darsi alla pirateria. Fra quelli più attivi spiccavano i Liburni, stanziati sulle coste del golfo del Quarnaro.
Di questa situazione dovette occuparsi il giovane Cesare Ottaviano, figlio adottivo ed erede di Giulio Cesare, divenuto console e poi triumviro a soli vent’anni, avendo, in particolare, la responsabilità del governo dell’Italia e di tutte le provincie romane dell’Europa occidentale. La sua prima preoccupazione fu quella di rimuovere la minaccia navale nel Tirreno, poiché si trattava del pericolo di gran lunga maggiore. Sesto Pompeo, infatti, continuava ad incrementare le proprie forze navali, accogliendo navi ed elementi ribelli di ogni risma, proscritti e schiavi fuggitivi, e dirigeva le proprie incursioni navali contro gli interessi di Roma, ponendo in situazione di crisi l’intera Italia. Dopo varie azioni di contrasto navale, ben poco efficaci, e diversi vani tentativi dei triumviri di risolvere il problema con la diplomazia, Ottaviano decise di affidare l’organizzazione e la condotta di questa guerra navale al suo fraterno amico Marco Agrippa, che, pur essendo anche lui giovanissimo (erano coetanei ed amici d’infanzia), dovrà rivelarsi il più grande ammiraglio di tutti i tempi [34].
Per la Guerra Sicula (37-36 a.C.) Agrippa fece costruire un nuovo porto, il Porto Giulio, costituito dall’unione dei laghi Lucrino ed Averno, e vi mise in cantiere una nuova flotta di dimensioni imponenti, curando personalmente l’allestimento delle navi e l’addestramento degli equipaggi durante un intero inverno. Nella primavera successiva venne avviata l’operazione pianificata da Ottaviano ed Agrippa per prendere la Sicilia in una morsa, attaccandola da tre direzioni: Ottaviano e Lepido dovevano sbarcare con le truppe da levante e da sud-ovest, mentre la nuova flotta doveva avvicinarsi da nord al comando di Agrippa. Quest’ultimo sconfisse due volte per mare la flotta avversaria, la prima volta nelle acque di Milazzo, privando i pirati di trenta navi, la seconda volta in quelle di Nauloco, ove egli riportò la vittoria decisiva, annientando le forze navali di Sesto Pompeo (si salvarono con la fuga solo 17 navi, su 350).
La successiva Guerra Dalmatica (35-33 a.C.) venne condotta utilizzano la stessa flotta vittoriosa, sempre sotto il comando di Agrippa. Questi sbarcò in alcune isole della Dalmazia, sconfiggendovi i pirati che vi si erano insediati, ed entrò poi nel golfo del Quarnaro, ove prese il porto principale dei Liburni (Segna) e catturò tutte le loro navi (le celebri e velocissime liburne), che immise nella propria flotta. Sbarcò poi per contribuire alle operazioni condotte da Ottaviano contro gli Illiri ed i Pannoni. A patire dal successivo inverno egli mantenne la flotta nelle acque della Dalmazia per attuare il blocco dei rifornimenti diretti ai Dalmati, che si erano ribellati. La successiva campagna che egli condusse con Ottaviano su quelle coste così aspre fu particolarmente difficile, ma il blocco navale diede infine i risultati attesi, poiché i Dalmati, logorati dalla mancanza di rifornimenti, richiesero la pace.
Dopo che il Tirreno e l’Adriatico furono resi nuovamente sicuri, la terza ed ultima minaccia all’Italia pervenne infine dal suo terzo mare, lo Ionio, e fu decisamente la più grave. Gli storici dell’antichità amavano personalizzare ogni conflitto e ci hanno abituato a pensare alla Guerra Aziaca come il duello finale fra i due pretendenti all’impero: Cesare Ottaviano e Marco Antonio. In parte si trattò anche di questo, sebbene l’idea dell’impero, come istituzione, non fosse ancora stata concepita [35]. La situazione reale fu molto più complessa. Di fatto, contro l’Italia e contro Roma si era coalizzato l’intero Oriente ellenistico che, sotto l’egida alessandrina, volle compiere un estremo tentativo di realizzare il sogno inebriante della propria egemonia, vagheggiando il risorgere dell’effimero impero di Alessandro Magno. Lo stesso Marco Antonio nel 32 a.C. era ormai privo di qualsiasi autorità (il triumvirato era spirato l’anno prima); si era sposato con Cleopatra, con la quale conviveva ad Alessandria da cinque anni, ed aveva con lei promosso la raccolta di ingenti forze di terra e di mare con il contributo di tutti regni e le regioni del Mediterraneo orientale. Nell’autunno dello stesso anno l’immensa flotta orientale – che includeva, fra navi da guerra e mercantili, 200 navi alessandrine ed altre 800 con equipaggi ellenici o egiziani – salpò dal Pireo ed entrò nello Ionio, dirigendosi verso l’Italia con il dichiarato intento di sottometterla. Avendo tuttavia percepito, tramite alcune navi esploratrici, la presenza della flotta di Agrippa che pattugliava a sud del canale d’Otranto, Antonio e Cleopatra decisero di ancorare la flotta ad Azio, per svernare in quella rada imprendibile.
Marco Agrippa operò subito nello Ionio per bloccare quella flotta ed intercettarne tutti i rifornimenti marittimi: per tutto l’inverno egli fece catturare le navi onerarie provenienti dal Mediterraneo orientale cariche di armi e viveri destinati ad Azio. Nella successiva primavera, intensificò le incursioni navali contro gli obiettivi nemici, si impadronì di altri punti chiave, come Patrasso e Corinto, per bloccare qualsiasi traffico proveniente dalla Grecia. e sconfisse in due battaglie navali delle formazioni nemiche che avevano azzardato qualche sortita. Essendo poi stato raggiunto dal console Ottaviano, sbaragliò nelle acque di Azio l’intera flotta orientale che, logorata e decimata dalle privazioni, tentava di forzare il blocco. Egli catturò 300 poliremi e distrusse le altre, tranne le 60 navi di Cleopatra che presero la fuga seguite dalla quinquereme di Antonio (2 settembre 31 a.C.). I due coniugi sconfitti si tolsero la vita l'anno dopo, quando Ottaviano entrò ad Alessandria e fece dell’Egitto una provincia di Roma. Così come la vittoria navale delle Egadi aveva segnato un punto di svolta della storia romana, dando l’avvio al lungo periodo dell’espansione transmarina, la vittoria navale di Azio segnò un altro dei grandi punti di svolta epocali, consentendo l’instaurazione di un lungo e benefico periodo di pace sulla terra e sui mari del neonato Impero [36].
Nel corso di oltre sette secoli della propria storia – cioè fino al termine della repubblica – Roma aveva sostenuto un’infinità di guerre ed aveva perfino conquistato un impero senza mai disporre di forze armate permanenti, né terrestri, né navali. Dopo la vittoria navale di Azio, cioè dopo quello che oggi potremmo chiamare lo scoppio della pace, Ottaviano Augusto volle invece conservare accuratamente le risorse belliche disponibili, dando alle forze armate un ordinamento stabile. Marco Agrippa - che fu amico, ammiraglio, genero ed infine perfino imperatore collega di Augusto – fu anche il padre della Marina che, costituita per la guerra Sicula, impiegata anche nella guerra Dalmatica e migliorata per la guerra Aziaca, si tramutò poi nella struttura permanente che rimase in servizio per l’intera durata dell’Impero.
La nuova Marina imperiale di Roma venne infatti organizzata secondo un disegno generale che ha la chiara impronta della lungimiranza strategica e della competenza navale di Agrippa. Quale principale base navale permanente venne prescelta la sede di Miseno, ottimale per la difesa della costa tirrenica e sufficientemente vicina a Roma per risultare prontamente disponibile ai comandi dell’Imperatore. Mentre il Porto Giulio trovò un miglior impiego ai fini civili, la soluzione per esso adottata venne concettualmente replicata, sfruttando il lago Miseno e collegandolo al mare. Il complesso portuale di Miseno venne allestito con tutte le necessarie opere marittime e strutture logistiche, incluso un acquedotto ed enormi cisterne idriche. La base navale della seconda flotta imperiale basata in Italia fu Ravenna (porto di Classe), località prescelta per il controllo navale dell’alto Adriatico, anche in funzione del collegamento con l’entroterra balcanico attraverso gli affluenti navigabili del Danubio (Drava e Sava). Entrambe queste flotte, che verranno poi chiamate pretorie (in quanto al servizio diretto dell’Imperatore), operarono nell’intero Mediterraneo [37].
Oltre alla Flotta Pretoria Misenense ed alla Flotta Pretoria Ravennate, venero create anche diverse altre flotte imperiali permanenti, molte delle quali furono istituite direttamente sotto il principato di Augusto (Flotta Forogiuliense, Flotta Augusta Alessandrina, Flotta Germanica), altre furono inizialmente costituite in quello stesso periodo ma furono poi formalmente istituite da qualche imperatore successivo (Flotta Siriaca, istituita da Vespasiano; Flotta Pannonica e Flotta Mesica, istituite da Domiziano; Flotta Arabica, istituita da Traiano), altre ancora furono costituite solo in epoca successiva (Flotta Britannica, inizialmente costituita da Gaio Caligola; Flotta Pontica, costituita da Nerone; Flotta Nova Libica, costituita da Commodo; Flotta Mesopotamica, costituita per la prima volta da Traiano). La parte più consistente di tali flotte (9 su 13) risale quindi all’epoca di Augusto ed Agrippa, a riprova della genialità organizzativa di quest’ultimo [38], tenuto anche conto che questo tipo di organizzazione è quella tuttora adottata dalle maggiori marine del mondo (ad iniziare da quella statunitense, che mantiene uno schieramento navale geograficamente distribuito con particolare ampiezza).
A questo punto, la domanda più banale che ci si attende è: “ma a che servivano tutte quelle navi e quelle flotte, se non c’era più alcun nemico da combattere per mare?” È vero: Roma, in quegli anni, controllava già tutte le coste del Mediterraneo e l’intera fascia costiera atlantica dell’Europa occidentale. Tutti i mari dell’Impero permanevano dunque sotto il pieno dominio dei Romani. Ma l’assenza di altre grandi potenze marittime non significava che il mare potesse ritenersi definitivamente sicuro; occorreva comunque mantenervi una presenza navale permanente, visibile e credibile, per inibire il rifiorire di qualsiasi minaccia al regolare svolgimento delle attività marittime, molte delle quali permanevano di necessità vitale per l'Urbe e per molte altre città dell’Impero. La principale funzione delle flotte imperiali di Roma [39] fu quindi quella di vigilare sul mare, sulle aeree marittime e sui grandi fiumi, al fine di assicurarvi la salvaguardia della pace, il rispetto del diritto ed il mantenimento delle necessarie condizioni di sicurezza.
Ecco allora un breve elenco dei principali compiti generali assegnati alle flotte imperiali: difesa di Roma e dell'Italia; controllo di tutti i mari; tutela della sicurezza e dalla legalità in mare; dissuasione contro il risorgere della pirateria; sorveglianza sui fiumi di confine; sostegno navale alle legioni ed al loro trasporto in navigazione [40]; concorso navale alle eventuali operazioni belliche; protezione dei rifornimenti marittimi vitali; interventi di soccorso nelle aree marittime [41]; trasporto navale dell'Imperatore e dei suoi legati; servizi navali nell'Urbe; esplorazioni e altre missioni di Stato. Si tratta, come si vede, di una serie di responsabilità alquanto importanti, che impegnavano in modo continuativo le flotte imperiali, nell’ambito delle quali occorreva anche provvedere alle attività necessarie per mantenere un adeguato livello di addestramento ed il regolare funzionamento della logistica. In definitiva, la silenziosa operosità della Marina [42] fu uno dei fattori chiave della Pax Augusta.
Dall’epoca di Augusto in poi, dunque, le flotte militari romane mantennero il pieno dominio del mare, sia sull’intero Mediterraneo, sia su tutti gli altri mari dell’Impero, sottoponendo tutte queste acque, per la prima ed unica volta nella Storia, alla legge di un solo Stato [43]. I Romani avrebbero potuto approfittarne per privilegiare lo sfruttamento del mare e della navigazione ai propri fini, a detrimento delle esigenze altrui. Tuttavia, per il Diritto romano il mare rientrava nel novero delle “res communes omnium”, cioè nella categoria dei beni di proprietà comune del genere umano: occorreva quindi garantire a tutti la libertà di navigazione, così come il libero sfruttamento delle risorse marine: prelievo del sale, attività di pesca, creazione di vasche costiere per l’itticoltura, e ricerca dei prodotti utilizzati per gli articoli di lusso, come i coralli, le perle, le porpore e le conchiglie per i cammei.
Era peraltro interesse di Roma incentivare tutte le attività economiche, ad iniziare dalla navigazione mercantile, necessaria sia per le esigenze dell’Urbe, sia per mantenere unite e facilmente raggiungibili tutte le sponde dell’ampio mare attorno al quale si estendeva l’Impero. I Romani, pertanto, oltre ad assicurare con le loro flotte la sicurezza delle rotte e la libertà di navigazione, adottarono una serie di provvedimenti per incrementare e favorire la marina mercantile, potenziando i cantieri navali, moltiplicando ed ingrandendo i porti, creando una rete di fari, evitando di imporre dei dazi [44], e, al contrario, mettendo in vigore delle agevolazioni fiscali per gli armatori. Anche il sistema portuale della Città eterna venne notevolmente ingrandito: il porto fluviale cittadino fu progressivamente ampliato a valle, raggiungendo l’area dell’Emporio, ove vennero eretti degli enormi magazzini, mentre l’attigua discarica delle anfore sbarcate dalle navi iniziò ad accrescersi sempre più, fino a formare l’odierno monte Testaccio; sul mare, all’antico porto di Ostia venne affiancato il vastissimo porto imperiale, detto Porto Augusto (o semplicemente Porto), iniziato da Claudio, inaugurato da Nerone e completato da Traiano.
Avvalendosi delle loro capacità tecniche ed organizzative, i Romani conseguirono in tal modo uno straordinario sviluppo delle linee di comunicazioni marittime, consentendo tutti i collegamenti ed i rifornimenti necessari a Roma, oltre al più intensivo e benefico interscambio fra tutte le sponde dell’Impero [45]. È stato calcolato che la flotta mercantile in attività durante il periodo dell’Impero romano abbia raggiunto delle dimensioni mai viste in precedenza [46], e tali da rimanere insuperate fino al XIX secolo, quando fiorirono le grandi compagnie di navigazione dell’epoca moderna. Tale situazione incrementò il commercio ed i viaggi per mare, prolungando delle rotte verso le coste più remote, alla ricerca di traffici più lucrosi [47], e spingendo le esplorazioni navali oltre i limiti del mondo conosciuto. Se i porti dell’India divennero abitualmente frequentati dalle navi onerarie romane [48], non mancarono dei contatti anche con qualche porto del Mar Cinese meridionale e della Serica (odierna Cina) [49]. Anche le flotte militari ebbero occasione di effettuare delle navigazioni di esplorazione, come quelle condotte all’epoca di Augusto nel mare del Nord fino al Baltico e nel mar Rosso, e quella della flotta di Agricola che circumnavigò la Britannia, giungendo ad avvistare la misteriosa isola artica di Tule.
In definitiva, gli effetti benefici dell’attività delle forze navali di Roma e della politica navale dei Romani furono numerosi e particolarmente importanti. Godendo di una durevole situazione di pace quale il mondo antico non aveva mai conosciuto, tutte le popolazioni dell’Impero poterono avvantaggiarsi della libertà di navigazione e dell’incremento dei traffici navali. I collegamenti marittimi divennero più fitti, frequenti ed efficienti, consentendo tutti i trasporti ed i rifornimenti necessari, e determinando un generale innalzamento delle condizioni economiche, della prosperità e del benessere di tutte le popolazioni. Lungo tutte le coste fiorirono le attività marinare [50], la pesca, le ville marittime, la nautica da diporto. Infine, quale conseguenza storicamente ben più notevole, venne favorito, fra tutte le sponde dell’Impero, quel reciproco scambio di conoscenze e di valori [51] che costituì la vera fucina della Civiltà romana [52]; questa poté allora diffondersi [53] e radicarsi a tal punto da permanere tuttora alla base della nostra civiltà occidentale.
Volendo trarre alcune brevi considerazioni conclusive dalla storia delle forze navali dell’antica Roma e dai risultati da esse conseguiti sotto l’ottica della grande strategia, non si può non riconoscere la straordinaria abilità dei Romani nel dotarsi di flotte adeguate, nell’organizzarle ed impiegarle con insuperabile maestria, nell’imporsi come potenza navale dominante [54], nel gestire ottimamente il potere marittimo – nonostante le limitate prestazioni nautiche delle navi antiche [55] – tenendo in debito conto la propria “necessità di navigare” (“navigare necesse est, vivere non est necesse”) ed avvalendosi utilmente del principio secondo cui “chi è padrone del mare diviene padrone di tutto”.
In definitiva, l'uso oculato delle proprie forze navali ha consentito ai Romani:
- di passare dagli aviti colli bagnati dal Tevere ad un Impero sconfinato, esteso sui tre continenti del mondo antico;
- di mantenere questo Impero unito, sicuro e strettamente interconnesso attraverso le acque del Mediterraneo e dell'Oceano,
- di generare quel processo di osmosi culturale che fu alla base della Civiltà romana e della relativa vocazione universalista, tramandata fino a noi.
[ 1] Cic., Att. X, 8, 4: lettera del 2 maggio 49 a.C.
[ 2] Ad esempio il poeta satirico Gaio Lucilio (II sec. a.C.) scrisse: “il popolo romano ha spesso dovuto cedere alla forza ed è stato vinto in molte battaglie, ma nessuna guerra si è mai conclusa con una sua sconfitta: ecco tutto” [Lucil., Sat. XXVI].
[ 3] Nel mondo ellenico, lo stratega o stratego era semplicemente un comandante militare: le sue funzioni in battaglia si esplicavano quindi solo sul piano tattico e non al livello che oggigiorno definiamo “strategico”. Analogamente, in latino le parole strategia (prefettura militare), strategica (operazione militare) e strategus (condottiero) sono più attinenti al campo tattico che non a quello strategico. Anche il termine stratagemma, non indica certamente un’eccelsa finezza strategica, ma una più limitata astuzia tattica. Pertanto, nonostante le notevoli assonanze, occorre evitare confusioni fra la terminologia antica e l’attuale concetto di strategia.
[ 4] Vi furono alcuni testi romani di tattica, di arte militare e di arte navale (ad esempio nei libri navales di Marco Terenzio Varrone), ma non ci è pervenuto nulla sulla strategia, e praticamente nulla nemmeno sui predetti tre argomenti, salvo una parte del libro di stratagemmi di Sesto Giulio Frontino e qualche testo di limitata importanza redatto dai compilatori della tarda latinità.
[ 5] Emblematica dell’atteggiamento mentale romano è la seguente considerazione ciceroniana: “tutto il pregio della virtù consiste nell’azione.” (Cic., de Off., I, 19)
[ 6] Questa segretezza, desumibile dall’analisi storica, è stata anche oggetto di qualche accenno da parte degli storici. Ad esempio, dopo aver riepilogato il duro discorso pronunciato dal re Eumene di Pergamo al Senato di Roma nel 172 a.C., per denunciare i preparativi bellici del re macedone Perseo e per esortare i Romani ad intervenire al più presto, Tito Livio aggiunge: “Queste parole scossero i Senatori. Ma sul momento nessuno riuscì a sapere null’altro che il re era stato ricevuto nella Curia: di tanto silenzio si era avvolto il Senato” (Liv., XLII, 14, 1).
[ 7] La perdurante validità degli insegnamenti della storia navale del passato è stata confermata anche dal Mahan, il più rinomato studioso moderno del potere marittimo: “the study of the sea history of the past will be found instructive, by its illustration of the general principles of maritime war, notwithstanding the great changes that have been brought about in naval weapons by the scientific advances ... and by the introduction of steam as the motive power.” (Mahan 1890)
[ 8] La scarsa conoscenza del determinante ruolo della Marina nella storia mondiale venne così spiegata dallo stesso studioso citato nella nota precedente: “as it acts on an element strange to most writers, as its members have been from time immemorial a strange race apart, without prophets of their own, neither themselves nor their calling understood, its immense determining influence upon the history of that era, and consequently upon the history of the world, has been overlooked.” (Mahan 1890)
[ 9] In questo senso si espressero Tito Livio (V, 54), Cicerone (De rep., II, 5) e Dionisio di Alicarnasso (Ant. Rom., III, 44, 1-4).
[10] Una particolareggiata ricostruzione della situazione dell’area in epoca arcaica è stata fornita da Filippo Coarelli: Il foro Boario dalle origini alla fine della Repubblica, Quasar, Roma, 1988
[11] “gli insediamenti sui colli di Roma, specialmente sul Palatino - pur nella insufficienza di fonti sicure - dovevano aver avuto almeno anche una funzione di carattere commerciale. È vero che la tradizione delle origini di Roma parla quasi esclusivamente di una civiltà di pastori, ma esistono innumerevoli reperti archeologici che ci dimostrano l'intensità, fin d'allora, dei traffici greci e fenici nell'area a cavallo della zona tiberina che include i colli di Roma.” (Flamigni 1995)
[12] Situazioni di questo genere si verificarono, ad esempio, nel 508 a.C. (Dionys. Hal., V, 26, 3-4) e nel 492 a.C. (Liv., II, 34).
[13] “nel VI secolo ... si riscontra un'attività edilizia notevole ... ... L'elencazione degli edifici che furono costruiti in questo periodo è impressionante. ... Donde provenivano i fondi necessari per tutte queste innovazioni, costruzioni e donazioni? Che non venissero solo da bottini di guerra è dimostrato da Livio (I,55) ... Solo il commercio ,,, poteva fornire ... guadagni così rapidi e consistenti per le casse dello Stato. E perché fossero rapidi e consistenti occorreva che, almeno in parte, questo commercio cominciasse ad essere nelle mani di cittadini romani.” (Flamigni 1995)
[14] Il primo di essi risale al 509 a.C., subito dopo l’avvento della repubblica (Polyb. III, 22).
[15] Questo trattato viene ricordato da Appiano (Samn., 7) e risulta collocabile nella prima metà del IV secolo a.C..
[16] L’evento è narrato da Tito Livio (V, 28) e Plutarco (Camil., 8). I pirati delle Lipari si sarebbero certamente sentiti invulnerabili e pertanto liberi di compiere sui Romani qualsiasi sopruso se non avessero temuto una ritorsione contro le loro isole da parte delle navi da guerra romane.
[17] Liv., VIII, 13-14.
[18] Questa magistratura venne istituita nel 312 a.C. (Liv., IX, 30).
[19] Una missione di tal genere venne effettuata nel 311 a.C. (Liv., IX, 38).
[20] La ricognizione in Corsica venne effettuata verso la fine del IV sec. a.C. da una flotta romana di 25 navi (Theophr., H.P., V, 8).
[21] La missione fu affidata ad una trireme romana nel 292 a.C. (Val. Max., I, 8, 2).
[22] L’incidente occorse nel 282 a.C. (Cass. D, I-XXXIV, fragm. 145; App., Samn., 7).
[23] A proposito delle straordinarie qualità del Senato di Roma, Tito Livio scrisse che ne «seppe cogliere il vero aspetto solo colui che lo definì un consesso di re» (Liv., IX, 17, 14).
[24] Il compito di radunare tutte queste navi venne affidato a quattro provveditori della flotta, detti questori classici, una magistratura appositamente istituita per tale esigenza contingente (Ioan. Lyd., Magistrat., I, 27, 1).
[25] “Whatever historical moral may be drawn from the story of the first Punic war, the fact remains that a nation of landsmen met the greatest maritime power in the world and defeated it on its own element. In every naval battle save one the Romans were victors. ... No great naval genius stands above the rest, to whom the final success can be attributed. Rome won simply through the better fighting qualities of her rank and file and the stamina of her citizens.” (Stevens 1920)
[26] “Few wars are more interesting and instructive than this - the first Punic War. … Carthage could only be attacked by sea, and her sea efficiency was superior to that of any other nation. Yet she failed. The cause of that failure was surely her lack of ' Fitness to win.' … her unfitness to win led her into a neglect of efficiency, so great that in the final fight she was proved inferior to the Romans in purely nautical ability.” (Jane 1906)
[27] “the Romans by dogged perseverance at length made themselves such skillful sailors that they brought the First Punic War to a close with a naval battle in which they defeated the enemy through sheer ship handling.” (Potter 1981)
[28] Un “grande fattore che consentì la vittoria finale di Roma è l'innegabile comprensione che i Romani, e in particolare il Senato, avevano dell'importanza e delle caratteristiche del potere marittimo. All'inizio della Prima Guerra Punica Roma impostò subito la costruzione di una flotta militare quale la città non aveva mai avuto; a Sparta, durante la Guerra del Peloponneso, occorsero vent'anni per capire che se voleva sconfiggere Atene avrebbe dovuto farlo in mare.” (Flamigni 1995).
[29] A proposito di Quinto Fabio Massimo, Cicerone fa dire a Catone: “Splendidamente dice di lui il mio amico Ennio: «Un uomo solo, temporeggiando, rialzò le nostre sorti. Non anteponeva le chiacchiere alla salvezza della Patria. Perciò la gloria di quel grande risplende sempre di più.»” (Cic., Senect., IV, 10).
[30] È curiosa la seguente similitudine fra Roma ed un reziario: “like a retiarius matched against an invincible swordsman, Rome flung her sea-net around him and exposed him to a war of exhaustion not only in Italy itself but in his distant base, Spain. During the nine years after Cannae the game went on.” (Rose 1933)
[31] La Curia del Senato venne definita da Cicerone “il tempio della santità, della maestà, della saggezza, la sede del consiglio della Repubblica, la mente di Roma, l'altare degli alleati, il porto di tutte le genti”. (Cic., pro Mil., 90)
[32] Cicerone mostrò quanto fosse importante che i senatori fossero accuratamente preparati nei campi della politica estera e di difesa: “è necessario che il senatore conosca a fondo le condizioni dello stato, la forza dello strumento militare, la consistenza dell'erario, quali siano gli alleati, gli amici, i popoli tributari, le leggi, le condizioni e i trattati”. (Cic., Leg., III, 18, 41)
[33] “I Romani badano particolarmente a intraprendere guerre giuste, e a non prendere decisioni casuali o precipitose quando si tratta di tali argomenti” (Diod. Sic., XXXII, 5).
[34] “Una vittoria ottenuta con le armi è un successo comune a comandante e soldati, ma la buona riuscita di un’impresa, dovuta all’intelligenza strategica, spetta solo al comandante” [Diod. Sic. XXXVIII-XXXIX, 22].
[35] Il principato poté essere ideato solo negli anni successivi, da parte di Ottaviano, che lo mise a punto con gradualità, adattandolo alla propria personalità ed alle circostanze.
[36] “This victory gave Octavius command of the whole Mediterranean, an indispensable preliminary to his subsequent conquest of Egypt and his assumption of imperial power as Caesar Augustus. For five centuries after Actium, commercial vessels moved from the Black Sea to the Atlantic protected only by small fleets of police vessels to keep down piracy. The entire Mediterranean and its tributary waters had become a closed sea, with all coasts and naval bases controlled by Rome. On land and sea the Pax Romana was established, the longest period of comparative peace in history.” (Potter 1981)
[37] È sicuramente errata la credenza (derivante da un passo di Vegezio: IV, 31) che ciascuna di esse operasse in una sola metà del Mediterraneo: “the naval history of the Empire will demonstrate that the Italian fleets were yet active throughout the Mediterranean. At least from the period of Vespasian onwards, they were the imperial fleets par excellence.” (Starr 1960)
[38] “After the battle of Actium and the establishment of a powerful Roman empire without a rival in the world, there follows a long period in which the Mediterranean, and indeed all the waterways known to the civilized nations, belonged without challenge to the galleys of Rome.” (Stevens 1920)
[39] “la marine représentait un facteur décisif dans la stratégie du monde romain: cet Empire, centré autour d'une mer intérieure, avait de longues lignes de communications maritimes qu'il fallait protéger … En outre, les continuels transport d'hommes et de matériel d'un bout à l'autre du limes supposaient souvent un recours aux navires de la flotte. En dehors même de la Méditerranée, Rome avait besoin d'une composante navale importante dans son système militaire, aussi bien en Mer du Nord que dans le Pont, ou sur les fleuves du limes d'Europe.” (Reddé 1986)
[40] “Effettivamente, la configurazione geografica dell'impero era delle più sfavorevoli: al centro di esso si trovava, infatti, la cavità oblunga del Mediterraneo, e il Mediterraneo poteva costituire sia una veloce via di comunicazione, sia una barriera insormontabile. Il trasporto via mare poteva essere naturalmente molto più veloce di quello via terra, ma era soggetto ai capricci del tempo. … Inoltre, una lunga navigazione poteva anche pregiudicare la salute dei soldati. Nonostante ciò, le truppe erano spesso trasportate via mare, e esistevano anche dei mezzi di trasporto speciali per i cavalli.” (Luttwak 1997)
[41] Una celeberrima operazione di soccorso navale fu quella condotta da Plinio il Vecchio, ammiraglio della Flotta Misenense, che si recò con le sue quadriremi sulla costa vesuviana per trarre in salvo le popolazioni messe in pericolo dalla spaventosa eruzione vesuviana del 79 d.C. (quella che seppellì Pompei ed Ercolano).
[42] “Roman historians for the most part laid little stress on the naval factor as tilting the balance in favour of the Empire. But naval affairs were, as they still are, shrouded by a veil of mystery to all landsmen, while military affairs blare forth a presumptuous priority. In the ancient, as in the modern world, the navy is the silent service. It does not trumpet its services.” (Rose 1933)
[43] “On parle bien souvent de thalassocratie athénienne pour évoquer l'éphémère puissance navale de la cité de Périclès en mer Egée. Pourquoi ne parlerait-on pas de thalassocratie romaine pour désigner cette domination d'un peuple, unique dans l'histoire, sur toute la Méditerranée, pendant quatre siècles?” (Reddé 1986)
[44] “the Roman Empire had one great advantage over the modern world in that it nearly always possessed internal free trade. From Gades to Alexandria and the Red Sea there were, in general, none of the customs barriers which have arisen in the last sixty years, burdened as they have been with a narrow and jealous nationalism. That curse was absent from the Roman Empire, which encouraged free exchange.” (Rose 1933)
[45] “We hear very much about the influence of Roman roads in promoting Roman civilization; but the influence of Roman fleets in bringing about that miracle has been almost entirely ignored. Yet it is demonstrable that the Roman Empire depended quite as much on its fleets as on its roads.” (Rose 1933)
[46] “Augusto aveva inaugurato due secoli di pace, mantenuta anche dai suoi successori; In questo clima favorevole il commercio si espanse a macchia d'olio, superando in estensione, volume e celerità qualsiasi attività svolta prima. Fu assai superiore al totale di ciò che il mondo ellenistico aveva raggiunto in tempi più remoti nelle acque orientali e Cartagine in quelle occidentali.” (Casson 1959)
[47] “Mercanti romani furono presso i Sicambri e i Marcomanni, gl'Irlandesi, nell'Asia Minore, nella Siria, come nell'Arabia Petrea, e nella Tauride, in tutta l'Africa settentrionale; centoventi navi andavano ogni anno regolarmente all'India.” (Corazzini 1896)
[48] “Le loro navi attraccavano alle banchine dei porti indiani e i loro marinai frequentavano le taverne dei porti. Nelle zone residenziali più all'interno, i loro agenti stabilirono piccoli quartieri per stranieri, anticipando di un millennio e mezzo gli impiegati della Compagnia delle Indie Orientali. Gli ambasciatori ufficiali andavano e venivano tra l'oriente e l'Occidente. L'India ne inviò alcuni durante il regno di Augusto, uno proveniente da Ceylon visitò l'imperatore Claudio; essi continuarono ad arrivare anche durante il regno di Costantino il Grande.” (Casson 1959)
[49] “Così il commercio dell'impero romano abbracciava centinaia di località e di prodotti, tutto ciò che era entrato «in scena» nei tempi precedenti, più tutto ciò che nasceva con il nuovo mondo che Roma aveva creato. … Questo è dunque il quadro generale di una delle maggiori imprese commerciali di Roma, la sua incredibile espansione commerciale in Africa, Arabia, India e nell'Estremo Oriente.” (Casson 1959)
[50] “Le pareti di Pompei formicolano di navi dipinte … Ma, a parte ciò, a Pompei si respirava, a traverso il porto del fiume Sarno, aria e atmosfera marinara; dalle terrazze del Tempio di Venere e del Tempio greco, o dagli spalti delle case disposte lungo il ciglio della collina, si poteva assistere all'arrivo delle navi e alla loro manovra d'ancoraggio fra la Petra Herculis (Scoglio di Revigliano) e la foce del fiume; naviganti e mercanti risalivano giornalmente con il loro carico di merce dal porto alla città; è naturale pertanto che di questa vita marinara qualche eco restasse non solo nei dipinti. ma anche in quella popolare espressione di sentimenti e di costume di vita che è il graffito parietale.” (Maiuri 1958)
[51] “During the four centuries in which the Pax Romana rested upon the world, it is easy to conceive of the enormous importance to history and civilization of having sea and river, the known world over, an undisputed highway for the fleets of Rome. Along these routes, even more than along the military roads, travelled the institutions, the arts, the language, the literature, the laws, of one of the greatest civilizations in history.” (Stevens 1920)
[52] “Indeed the maritime supremacy of Rome, lasting some 400 years, dwarfs, both in duration and in the lasting effects of its influence, that of any other people. Under the wings of her navy, commerce took giant steps ahead, and, working in unison with Roman law and administration, went far towards unifying those lands and forming a Mediterranean nationality.” (Rose 1933)
[53] “Non era possibile che le provincie si romanizzassero così presto senza l'opera dei mercanti romani … unita alla influenza dell'amministrazione, delle colonie, delle Leggi e della lingua.” (Corazzini 1896)
[54] A proposito di Roma: “Both in her central position, in her vast reserves of strength and in her ultimately intelligent and persistent use of it, she is the only State of antiquity which deserves to rank as a great and efficient sea power.” (Rose 1933)
[55] “Sea power must be able to facilitate and protect a state’s commerce and deny that of opposing states, though in classical times the limited sea keeping qualities of galleys severely restricted this role.” (Starr 1989)
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