Strenna dei Romanisti 2014
pubblicata dal Gruppo dei Romanisti
in occasione della celebrazione del Natale di Roma
Roma, 21 aprile 2014

CORSARI ROMANI

  di DOMENICO CARRO  

SOMMARIO

© 2014 - Proprietà letteraria di DOMENICO CARRO.

  

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Aes signatum in bronzo del III a.C.
(da G. Foti) [fig. 1]

“Se davvero non vogliono mangiare, almeno bevano!” esclamò beffardamente il console Publio Claudio Pulcro, stizzito del responso negativo fornito dal pullario nel constatare che i polli sacri non uscivano dalla loro gabbia per andare a mangiare. Quell’auspicio chiaramente infausto, verificatosi proprio sul ponte della sua nave ammiraglia, risultò insopportabile al comandante in capo romano, visto ch’egli voleva attaccare immediatamente la flotta punica ormeggiata a Trapani, sicuro di coglierla di sorpresa. Ordinò pertanto di gettare quella gabbia a mare e si diresse con la sua flotta di 120 quinqueremi verso la più vicina imboccatura del porto [1].

Per i Romani, i polli in questione non erano una “specie protetta”, né erano oggetto di specifici tabù religiosi, ma il comportamento sprezzante del console fu comunque un errore imperdonabile perché fornì agli equipaggi la sensazione di affrontare il combattimento in un contesto nefasto e, pertanto, di andare incontro ad una inevitabile sciagura. Cosa che si verificò puntualmente. La superbia e l’impulsività erano sempre stati i difetti congeniti della gens Claudia, ma in nessun’altra occasione avevano provocato delle conseguenze di tale gravità.

Affogato il pollame, l’arroganza del console si era ben presto tramutata in viva preoccupazione e poi nel disperato tentativo di salvare il salvabile, perché la contromossa dei Cartaginesi, usciti dall’opposta imboccatura del porto mentre le navi romane ancora stavano entrando, aveva scompaginato a tal punto la flotta del console da far subire ai Romani la prima ed unica grande sconfitta navale della loro storia. Il console riuscì a portare in salvo solo una trentina delle sue navi – con un temerario stratagemma che ingannò il nemico [2] – mentre le rimanenti caddero in mano punica.

E siccome le disgrazie non vengono mai sole, l’esiziale psicosi dei perdenti si impadronì anche della seconda flotta, comandata dall’altro console, Lucio Giunio Pullo. Costui, per sottrarsi all’ingaggio del nemico affrontò nel modo peggiore la burrasca, venendo quindi sconfitto da questa anziché da quello [3].

In tal modo i Romani, nell’arco di una sola estate, persero entrambe le flotte di cui disponevano: in totale un migliaio di navi, da guerra ed onerarie [4].

Per quanto forte e bene organizzata, nessuna grande potenza del mondo antico avrebbe mai potuto continuare a sostenere un conflitto eminentemente navale, qual’era la prima Guerra Punica, dopo una perdita di quelle dimensioni, a meno di non ricorrere a qualche espediente non convenzionale: ad esempio fomentando la pirateria, come fecero in tempi successivi i re d’Illiria e diversi altri sovrani e tiranni ellenistici, quali Filippo V di Macedonia, Nabide di Sparta, Antioco III il Grande, re di Siria, e soprattutto Mitridate VI Eupatore, il crudele e spietato re del Ponto.


***

Una soluzione di tal genere sarebbe stata poco coerente con la mentalità dei Romani, che erano destinati a combattere una lunga serie di guerre contro i pirati, considerati i comuni nemici dell’intera umanità [5].

Dunque, i pirati no; ma ciò non esclude i corsari.

Sebbene i due termini vengano spesso utilizzati come sinonimi, vi è fra di essi una profonda differenza concettuale, poiché il pirata è un fuorilegge che utilizza le navi per assalire le sue prede (altro naviglio o siti costieri) a scopo di rapina o per ottenere il pagamento di riscatti, il tutto ad esclusivo beneficio delle proprie tasche, mentre il corsaro agisce su mandato del proprio governo contro obiettivi scelti in modo tale da colpire i nemici della Patria, essendo peraltro autorizzato a trarne qualche guadagno a parziale compensazione dell’impegno profuso.

Va anche osservato che, sebbene i Romani avessero perfettamente messo a fuoco la figura del pirata (tanto che questo termine ci è pervenuto dal latino rimanendo inalterato), essi non potevano avere alcuna cognizione del nostro concetto di corsaro, poiché nel mondo antico tale ruolo non era ancora stato definito. I corsari nacquero infatti in epoca medievale nel Mediterraneo, ove la lotta armata condotta da privati per catturare navi mercantili nemiche venne chiamata guerra di corsa e risulta ben documentata perlomeno a partire dal XII secolo, molto prima che il fenomeno si estendesse anche all’oceano.

Quanto ai Romani, essi si sono trovati a porre in atto un’inedita guerra di corsa condotta da privati cittadini autorizzati ad agire come veri e propri corsari, sia pure ante litteram, nel corso della fase più critica della prima Guerra Punica.


***

Questo epico conflitto era stato affrontato da Roma per respingere l’espansione cartaginese che, avendo già raggiunto Messina, costituiva un’inaccettabile minaccia nei confronti della nostra Penisola e del traffico marittimo fra il Tirreno e lo Ionio. Per i Romani, dunque, quella non fu solo una guerra per il possesso della Sicilia, ma anche e soprattutto una guerra per il libero utilizzo del mare. D’altronde Cartagine era, di gran lunga, la maggiore potenza navale del Mediterraneo, nonché l’indiscussa, vigile e gelosa detentrice del controllo del mare [6]: nessun risultato utile avrebbe quindi potuto essere conseguito contro di essa senza prima aver ridotto all’impotenza le sue flotte da guerra.


Rostro navale romano della prima Guerra Punica
(Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia) [fig. 2]

Roma si era pertanto dotata anch’essa di grandi flotte di quinqueremi, come quelle puniche; aveva accuratamente addestrato centinaia di equipaggi ed aveva affrontato la rivale per mare con ferma determinazione, riportando su di essa una serie ininterrotta di smaglianti vittorie navali – Milazzo, Tindari, Ecnomo, Capo Bon – intervallate da altri importanti successi negli sbarchi navali in costa (Segesta, Sardegna, Corsica, Kelibia, Pantelleria, Palermo). Tutte queste operazioni vittoriose, avvenute nell’arco di un decennio [7] e funestate solo da due naufragi provocati da burrasche di eccezionale violenza [8], erano state salutate dalla popolazione dell’Urbe con incontenibile entusiasmo ed avevano determinato la celebrazione di ben otto trionfi, di cui quattro specificamente “navali” per le vittorie conseguite in mare [9].

Sopraggiunse poi l’infausto anno 249 a.C., durante il quale le imponenti forze navali romane furono pressoché interamente annientate.


***

Questa era dunque la situazione con la quale dovette misurarsi il Senato di Roma nel ricercare le soluzioni da adottare per la prosecuzione del conflitto. La condotta della campagna terrestre in Sicilia aveva fino allora beneficiato della determinante efficacia delle operazioni navali: le flotte romane, infatti, non solo avevano effettuato vari sbarchi per contribuire all’avanzata delle legioni, ma avevano inflitto severe perdite alle forze navali nemiche, limitando sensibilmente il loro sostegno tattico e logistico all’esercito punico. Quest’ultimo era stato pertanto costretto a ritirarsi sempre più verso l’estrema punta occidentale dell’isola, laddove ancora riuscivano a giungere sporadici rifornimenti marittimi da Cartagine, soprattutto a Trapani. Il porto di Lilibeo (Marsala), invece, era stato sottoposto dai Romani ad un blocco navale che era divenuto del tutto efficace dopo la cattura di due quadriremi puniche eccezionalmente veloci. Questa cattura, peraltro, si dimostrerà più avanti di preziosa utilità.

Al punto in cui si era giunti dopo l’inimmaginabile perdita della quasi totalità del naviglio romano, tutti i risultati fino ad allora conseguiti rischiavano di essere vanificati. Roma, nei suoi storici arsenali navali – urbano [10] ed ostiense –, non possedeva più che poche decine di quinqueremi. Queste erano appena sufficienti per mantenere un pattugliamento a difesa delle coste laziali e per inviare rifornimenti logistici alle legioni in Sicilia [11].

Non essendovi la possibilità di costituire una grande flotta da schierare nell’area delle operazioni belliche, decadeva la possibilità di ripristinare il blocco navale di Lilibeo e di fornire il sostegno necessario alle legioni. Inoltre – peggio ancora – si lasciava alle flotte puniche la più totale libertà di effettuare incursioni contro le coste dell’Italia meridionale [12] e di operare nelle acque sicule, sia per recare viveri e rinforzi alle loro truppe a terra, sia per aiutare tatticamente queste ultime creando pericolose diversioni in altri punti costieri dell’isola allo scopo di disperdere gli sforzi delle legioni romane [13]. Di conseguenza, la complessa trama tattica faticosamente intessuta dalle forze romane per estromettere i Cartaginesi dalla Sicilia rischiava di essere reiteratamente disfatta come la tela di Penelope.

D’altronde i Romani non erano più in condizione di dotarsi in breve tempo di una nuova flotta da opporre a quella punica. In quel conflitto essi avevano già sostenuto fino allora uno sforzo titanico nel varare un totale di almeno un migliaio di navi da guerra – quasi tutte quinqueremi – e nell’armare tutte queste unità con altrettanti equipaggi bene addestrati, per potersi misurare alla pari con gli espertissimi marinai cartaginesi. Le casse dell’erario erano quindi del tutto prosciugate e comunque occorreva attendere ancora diversi anni prima di poter reclutare ulteriori equipaggi idonei ad Ostia e presso le altre marinerie d’Italia.


***

In quel drammatico frangente, alcuni privati cittadini proposero di riparare a proprie spese le navi danneggiate e di utilizzarle essi stessi per attaccare il naviglio nemico e le coste africane, riservandosi il diritto di trattenere tutto il bottino catturato, a compensazione degli oneri sostenuti [14]. In altre parole, essi si candidarono al ruolo di corsari, esattamente come li intendiamo noi; ed il Senato di Roma acconsentì.

Quei privati cittadini, evidentemente, non erano dei perfetti sconosciuti, perché altrimenti i senatori non avrebbero dato loro alcun credito. Essi dovevano invece essere noti per aver già dato ottima prova di sé, per competenza marinaresca, abilità nel comando navale, fiuto ed audacia nell’affrontare il nemico per mare, scaltrezza e fortuna per imporsi su di esso: in pratica, tutti personaggi di rango consolare o pretorio che si erano illustrati al comando di flotte o di formazioni navali minori, accompagnati da comandanti di provata esperienza.


Resti dell’elogio di Caio Duilio
(Musei Capitolini) [fig. 3]

Basti dire che il primo di questi privati fu Caio Duilio [15]: colui che undici anni prima aveva inaugurato la prestigiosa serie delle vittorie navali romane, sbaragliando la flotta punica in alto mare, al largo di Milazzo. Quel successo gli era valso l’attribuzione di due onori eccezionali: la celebrazione a Roma del primo trionfo navale e la dedica della prima colonna rostrata, eretta nel Foro. Polibio gli ha conferito una notorietà legata soprattutto alla presunta invenzione del cosiddetto “corvo”, un cervellotico marchingegno più suggestivo che credibile [16]. È bene riferirsi invece a quanto riportato dalle altre fonti antiche, che attribuiscono a Duilio il merito di aver introdotto a bordo delle navi romane l’uso delle manus ferreae [17], corrispondenti ai normali rampini o grappini d'abbordaggio [18]. Si tratta proprio dell’attrezzo che in tutte le epoche è stato lanciato dai marinai sulle navi nemiche da arrembare. D’altronde l’arrembaggio non fu solo l’innovazione tattica adottata da Duilio per la sua prima battaglia navale, ma il tipo di attacco navale destinato a rimanere quello prediletto dai Romani, perché consentiva di catturare intatte le unità nemiche, con i loro equipaggi, anziché mandare a fondo queste preziose risorse. Lo stesso arrembaggio doveva quindi essere, a maggior ragione, la modalità tipica di tutti gli attacchi dei corsari romani.

Poiché le riparazioni delle navi danneggiate nell’estate 249 a.C. non avrebbero potuto richiedere un tempo superiore al successivo arco invernale, è presumibile che le azioni navali corsare siano state avviate fin dalla primavera-estate del 248, dovendo poi proseguire fino all'inizio del 242 [19]. Di quanto avvenne in questi sei anni, Polibio ci dice solo che Roma aveva temporaneamente rinunciato alla guerra navale. In effetti quello che facevano dei cittadini che andavano per mare a titolo privato, operando prevalentemente in prossimità delle coste africane, rimaneva al di fuori dell’ufficialità. Non abbiamo quindi notizia di tutti i numerosi attacchi [20] che vennero audacemente effettuati da quei corsari, ma sono pervenuti i due seguenti esempi piuttosto significativi.

Nel 247 a.C. le navi corsare romane effettuarono un'ardita incursione ad Ippona Diarrito (odierna Biserta), il secondo porto più importante dei Cartaginesi. Dopo essere penetrati all'interno del bacino portuale, i Romani diedero fuoco a tutte le navi puniche presenti ed a numerosi magazzini retrostanti. Non potendo reagire colpendo le navi romane, che navigavano celermente nell'ampio specchio d'acqua, i Cartaginesi. tentarono di intrappolare gli aggressori affrettandosi a tendere la pesante catena di protezione che chiudeva l'imboccatura del porto. Questa mossa era probabilmente stata prevista da Duilio, che mise prontamente in atto un'abile contromossa: facendo transitare ciascuna nave in corrispondenza della parte centrale dello sbarramento, laddove la curva della catenaria rimaneva inevitabilmente poco al di sotto del pelo dell'acqua, tutto l'equipaggio doveva portarsi a poppa per far sollevare la prora in modo che il rostro superasse l'ostacolo; poi, quando l'unità era avanzata a forza di remi fino ad avere la catena a metà nave, l'equipaggio doveva passare all'estrema prora, facendo così sollevare la poppa e consentendo il sollecito allontanamento verso l'alto mare. Così facendo tutto il gruppo navale corsaro poté uscire senza danni e dirigere la propria navigazione verso la Sicilia, ove l'attendeva un altro successo. Giunte infatti nel golfo di Palermo, le navi romane vi trovarono una squadra navale cartaginese, che venne affrontata in mare e sconfitta [21].

Due anni dopo, i corsari romani conseguirono un successo navale di grande rilievo perfino all’imboccatura del golfo di Cartagine, nei pressi dell’isola di Zembra. Lì essi intercettarono una grossa formazione navale cartaginese, che doveva essere costituita da un convoglio mercantile carico di merci, scortato da navi da guerra. Il combattimento in mare fu ancora una volta favorevole ai Romani, che poterono quindi catturare del bottino, fino a quando il sopraggiungere di una burrasca non permise più alcun trasbordo. I Romani speronarono quindi le navi nemiche per affondarle e rientrarono indenni in Sicilia. Gli abbondanti resti del carico dei mercantili naufragati vennero invece dispersi dalla mareggiata, disseminandosi in parte lungo le vicine spiagge nordafricane [22].


***

Da quando le sorti della guerra erano state gravemente compromesse dall’improvvisa perdita di entrambe le flotte romane e dei relativi equipaggi, la determinazione e la combattività di quei valorosi che abbiamo chiamato i corsari romani aveva consentito di mantenere una continuativa minaccia navale nelle acque cartaginesi, costringendo le flotte puniche ad impegnarsi prioritariamente nella difesa delle proprie coste e del traffico mercantile d’interesse, a scapito delle operazioni verso la Sicilia o contro la nostra Penisola. Questo spiega come mai i Cartaginesi non riuscirono ad approfittare pienamente della sospensione romana della guerra navale per sei lunghissimi anni.

Nel frattempo, in Italia, i fabri navales romani avevano avuto il tempo di studiare le raffinate peculiarità tecniche delle due velocissime quadriremi catturate durante il blocco navale di Lilibeo e ne avevano tratto ogni possibile insegnamento ai fini della progettazione di una quinquereme di nuovo tipo, molto più veloce e manovriera delle unità fino allora utilizzate. In quegli stessi anni si era reso anche possibile procedere al progressivo reclutamento di nuovi equipaggi ed al loro rigoroso addestramento alla navigazione ed al combattimento navale. In tal modo, non appena ne ebbe la possibilità finanziaria, nel 242 a.C., Roma si dotò di quella poderosa ed efficientissima flotta [23] che, inviata in Sicilia al comando di Caio Lutazio Catulo, sconfisse le forze navali puniche nelle acque delle Egadi, costringendo Cartagine alla resa.

Questa luminosa vittoria, che aveva felicemente concluso la guerra ed assicurato ai Romani il dominio del mare, venne splendidamente celebrata nell’Urbe con altri due trionfi navali: uno per lo stesso Catulo ed uno per il suo vice, Quinto Valerio Faltone. Nessun onore, invece, né alcun premio, e nemmeno un minimo ringraziamento formale, per gli intrepidi corsari che avevano reso possibile quell’epilogo tanto agognato. Si trattava in effetti di privati cittadini, cui non era stato ufficialmente attribuito alcun comando, né tanto meno l’imperium.

Ad essi, dunque, non poteva competere alcunché.

Tuttavia l’ormai leggendario Caio Duilio si compiacque di conferire a sé stesso, senza che nessuno osasse contestarlo, l’inusitato privilegio di farsi ogni giorno riaccompagnare a casa, dopo cena, da una scorta permanente di fiaccole e flautisti, per tutto il resto della sua vita [24].

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Note

[ 1] Così iniziò l’infelice battaglia navale di Trapani (249 a.C.), a proposito della quale gli scrittori romani hanno posto l’accento sulla questione degli auspici (Val. Max. 1, 4, 3; Flor. epit. 1, 18, 29; Eutr. 2, 26); il commento di Cicerone sottolinea l'ininfluenza degli auspici sull'esito delle battaglie, ma condanna il mancato rispetto delle prescrizioni religiose e delle usanze patrie (Cic. div. 1, 29; 2, 20 e 71). Ignorare gli auspici equivaleva a rompere “l’equilibrio con gli dei” (la pax deorum): G. Foti, Funzioni e caratteri del «pullarius» in età repubblicana e imperiale, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano», LXIV-II, (2011), p. 97

[ 2] Passò davanti alle navi puniche che potevano intercettarlo, ostentando i segnali di vittoria come se avesse già sconfitto tutte le altre (Frontin. strat. 2, 13. 9)

[ 3] Raggiunse Lilibeo con due sole quinqueremi (Diod. 24, 1), mentre tutte le altre navi affondarono o divennero inservibili per i danni subiti.

[ 4] Pulcro fu condannato dal popolo, Pullo si suicidò (Cic. nat. deor. 2, 7)

[ 5] Cic. off. 3, 107

[ 6] I Cartaginesi erano convinti che, senza la loro approvazione, i Romani non avrebbero nemmeno potuto mettere in mare le loro navi (Diod. 23, 2)

[ 7] Dal 260 al 250 a.C.. Per una ricostruzione di questi eventi sulla base delle fonti antiche: D. Carro, Classica (ovvero "Le cose della Flotta"). Storia della Marina di Roma. Testimonianze dall'antichità: I. Le origini - II edizione, Roma 2000, pp. 48-69

[ 8] Nelle acque al largo di Punta Secca (255 a.C.) e di Capo Palinuro (253 a.C.), con una perdita complessiva di oltre 400 navi.

[ 9] A. Degrassi, Inscriptiones Italiae, vol XIII - Fasti et Elogia, fasc. I - Fasti Consulares et Triumphales, Roma 1947, pp. 548-549

[10] I Navalia dell’Urbe, sulla riva meridionale del Campo Marzio, appena a monte dell’Isola Tiberina.

[11] Tali attività sono coerenti con quanto effettuato, con analoghe limitazioni di risorse navali, nel biennio 252-251 a.C. (Eutr. 2, 23; Pol. 1, 39)

[12] Si registrò effettivamente un’importante incursione nel 247 a.C.: la flotta punica comandata da Amilcare Barca saccheggiò le coste calabre e si spinse poi più a nord lungo il litorale tirrenico, ma non andò oltre il territorio di Cuma (Pol. 1, 56). Ciò parrebbe confermare che la costa laziale era protetta.

[13] Lo stesso era accaduto nei primi anni di guerra, prima che i Romani inviassero la loro prima grande fotta di quinqueremi (Pol. 1, 20)

[14] Zon. 8.16.3; sulla costituzione della “squadra corsara romana”: L. Loreto, La grande strategia di Roma nell'età della prima guerra punica (ca. 273 - ca. 229 a. C.): l'inizio di un paradosso, Napoli 2007, pp. 217-218 e 221-222

[15] La presenza di Duilio è attestata da Frontino: cfr. successiva nota 21.

[16] Ne parla solo Polibio, e solo per due battaglie navali: Milazzo ed Ecnomo. Risulta molto convincente la tesi che i corvi non siano mai esistiti, ma siano stati un’invenzione punica accolta da Filino di Agrigento, una delle fonti di Polibio (M. Sordi, I «corvi» di Duilio e la giustificazione cartaginese della battaglia di Milazzo, in “Scritti di storia romana”, Milano 2002, pp. 198-201)

[17] Flor. epit. 1, 18, 9: Frontin. strat. 2, 3. 24; Vir. ill. 38, 1

[18] Per l’abbordaggio i Romani usavano anche gli arpagoni (harpagones), costituiti da un'asta metallica uncinata tenuta da un corto spezzone di catena che proseguiva con il normale cavo vegetale. Ad essi accenna Zon. 8, 11, 2

[19] La continuità dell’impegno dei corsari romani fino a quel termine è chiaramente desumibile da quanto detto in Zon. 8, 16, 8

[20] Alla molteplicità degli attacchi romani accenna Giovanni Zonara: “Fra le varie altre offensive ch’essi condussero contro i nemici …” (Zon. 8, 16, 3)

[21] L’intera operazione è riferita da Zon. 8, 16, 3-4; l’accorgimento per superare la catena è riportato negli stessi termini da Frontin. strat. 1, 5, 6 che, tuttavia, colloca l’evento a Siracusa: si tratta di un palese errore (probabilmente del copista), poiché questa era una città alleata. Per contro, non vi è motivo di dubitare dell'identità di Caio Duilio, seguendo l’arbitraria ipotesi di una omonimia (non rilevata da Frontino) ventilata da S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du nord - Tome III: Histoire militaire de Carthage, Paris 1918, p. 95

[22] Flor. epit. 1, 18, 30; cfr. L. Loreto, La grande strategia …, cit., p. 221

[23] 300 navi da guerra – di cui 200 quinqueremi di nuovo tipo – e 700 onerarie.

[24] Secondo Cicerone fu “un privilegio senza precedenti, ch’egli si era arrogato sebbene fosse un cittadino privato” (Cic. Cato 13, 44); analogamente in: Liv. per. 17; Flor. epit. 1, 18, 10; Val. Max. 3, 6, 4; Amm. 26, 3, 5, Vir. ill. 38, 4

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Illustrazioni

[FIGURA 1] Aes signatum in bronzo del III a.C. (RRC 2, 12/1). Sul dritto, due polli sacri apparentemente intenti a beccare, con in mezzo due stelle, protettrici dei marinai. Sul rovescio, due rostri navali, probabilmente collegati ad una delle vittorie navali della prima Guerra Punica, e due delfini. (da G. Foti, Funzioni e caratteri del «pullarius» ... cit., pp. 99-100).

[FIGURA 2] Il primo dei rostri navali romani recuperati, fra la decina di reperti consimili rinvenuti negli anni recenti nelle acque delle Egadi: lato destro e aspetto frontale, con le incrostazioni marine che presentava prima del restauro. (Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia).

[FIGURA 3] Resti dell’elogio di Caio Duilio (CIL 1, 25) originariamente inciso sulla base della colonna rostrata eretta in suo onore nel Foro romano; epigrafe restaurata in epoca augustea. (Musei Capitolini)

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Elenco delle abbreviazioni

1) Fonti antiche
Amm.Ammiano Marcellino, Res gestae
Cic. CatoCicerone, Cato maior de senectute
Cic. div.Cicerone, De divinatione
Cic. nat. deor.Cicerone, De natura deorum
Cic. off.Cicerone, De officiis
Diod.Diodoro Siculo, Bibliotheca historica
Eutr.Eutropio, Breviarium ab urbe condita
Flor. epit.Floro, Epitomae
Frontin. strat.Frontino, Strategemata
Liv. per.Tito Livio, Periochae
Pol.Polibio, Historiarum libri
Val. Max.Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri
Vir. ill.[auctor incertus], De viris illustribus
Zon.Giovanni Zonara, Epitome Historiarum

2) Opere moderne
CIL(autori vari), Corpus Inscriptionum Latinarum
RRCMichael H. Crawford, Roman Republic Coinage


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