Testo integrale di un articolo redatto per la rivista bimestrale
Lega Navale (Anno CXV, numero 3-4 - Marzo-Aprile 2012)

Romani all'arrembaggio


La predilezione romana per il
più redditizio degli attacchi navali


di DOMENICO CARRO
  1. Introduzione
  2. La battaglia navale
  3. Dal corvo all'arpax
  4. Vittorie navali e trionfi
  5. I classiari

NOTA . Proprietà letteraria (copyright © 2011) di Domenico Carro. Per un disguido tecnico, l'articolo è stato pubblicato sulla rivista Lega Navale con alcune modifiche che non sono state vagliate dall'autore e che, in alcuni punti, hanno purtroppo distorto il senso del testo originario. La versione riprodotta in questa pagina è invece quella scritta di pugno dell'autore ed è pertanto la sola che ne rifletta fedelmente il pensiero.

  

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SOMMARIO ROMA MARITTIMA NAVIGARE NECESSE EST home

I. INTRODUZIONE

Pirati dei Caraibi, Corsari, Bucanieri e Filibustieri, reinterpretati dal cinema in chiave avventurosa e romanzesca, hanno affascinato generazioni e generazioni di spettatori soprattutto per l'audacia e la destrezza marinara che consentiva a quei fuorilegge di arrembare i galeoni spagnoli e catturarvi ricchi bottini. Se costoro ci hanno sempre dato la netta sensazione di impersonare la quintessenza dell'arte navale – data la loro estrema sicurezza e disinvoltura nel raggiungere ed catturare qualunque nave –, tutto all'opposto ci sono stati descritti gli antichi Romani, formidabili combattenti sulla terraferma, ma presunti "imbranati" per mare.
Eppure sappiamo che i cosiddetti Fratelli della Costa e tutta l'accozzaglia di turpi canaglie che infestarono con la pirateria le acque dei Caraibi riuscirono a mala pena a mantenere il controllo dell'isolotto della Tortuga, mentre Roma conquistò con le proprie flotte un impero immenso dopo aver sconfitto per mare tutte le maggiori potenze navali dell'epoca.
La spiegazione che ci è sempre stata data, con irritante semplicismo, si è basata su di una strampalata capacità che veniva attribuita agli antichi Romani: quella di "trasformare la battaglia navale in un combattimento terrestre". Si tratta evidentemente di un paradosso, concettualmente aberrante, perché nessuna forza umana potrebbe mai costringere un evento navale a svolgersi entro schemi che non tengano conto dell'incoercibile potenza del mare e dei venti.
D'altra parte, la forza delle legioni romane nei combattimenti terrestri aveva bisogno di spazi molto ampi: per la scelta di una posizione iniziale favorevole, per l'appropriato schieramento di tutti i reparti, per la costruzione di eventuali fossati e terrapieni, per l'assunzione delle formazioni più rispondenti, per la manovra della fanteria, per le cariche della cavalleria, per il movimento delle grandi macchine da guerra, degli elefanti, ecc..
Poiché, viceversa, le anguste superfici disponibili a bordo non consentivano movimenti di reparti armati in ordine chiuso, ma solo azioni in ordine sparso e combattimenti individuali, risulta evidente che nessun raffronto sia possibile fra le tattiche vincenti dei Romani nelle battaglie terrestri e quanto essi abbiano potuto fare sulle navi.
Pertanto, se vogliamo meglio capire come essi si siano effettivamente comportati per mare, dobbiamo analizzare un poco più a fondo il loro modo di condurre le battaglie navali.

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II. LA BATTAGLIA NAVALE

Nelle battaglie navali dell'antichità classica, una nave poteva essere sottratta al nemico in due modi: o mettendola fuori uso (cioè affondandola o danneggiandola in modo irreparabile), oppure catturandola. Il primo risultato poteva essere ottenuto speronandola con il rostro oppure appiccandovi il fuoco, mentre per il secondo occorreva procedere all'arrembaggio. Questo secondo metodo era tradizionalmente preferito dai pirati – anche nell'antichità – visto che il loro scopo era proprio quello di impadronirsi delle navi e dei beni che esse trasportavano. Lo speronamento era invece considerato dagli scrittori greci il metodo che dava maggior lustro ai comandanti, poiché evidenziava la loro abilità nel manovrare agilmente la propria nave fra le contromanovre delle unità avversarie.
L'approccio dei Romani alle battaglie navali fu molto più pragmatico, coerentemente con il robusto senso pratico che caratterizzava la loro mentalità. Essi giudicarono sempre che fosse molto più vantaggioso catturare le navi nemiche, essendo insensato mandare a fondo quelle preziose risorse allorquando si poteva trarne un ricco bottino, sia per il valore delle navi stesse e dei materiali imbarcati, sia per quello degli equipaggi catturati. Questi ultimi potevano infatti essere impiegati come mezzo di scambio per ottenere la restituzione di propri prigionieri, oppure venivano ridotti in schiavitù (nel pieno rispetto dello Ius gentium, l'equivalente dell'odierno Diritto internazionale) e venduti a caro prezzo.
Tuttavia la dinamica degli scontri fra le flotte contrapposte non consentiva di optare per la sola cattura delle navi avversarie astenendosi dagli speronamenti, poiché nelle fasi calde dell'attacco occorreva sfruttare ogni occasione per danneggiare il nemico, perlomeno fino a quando non vi fosse la certezza della vittoria. Pertanto, ogni combattimento navale includeva necessariamente sia delle manovre tattiche volte a neutralizzare o distruggere le unità nemiche, sia delle azioni conclusive intese ad acquisire la maggior quantità possibile di bottino navale.
Vediamo dunque come potevano collocarsi queste ultime azioni nella sequenza logica delle varie fasi di una battaglia navale condotta dai Romani in mare aperto. Naturalmente alcune di queste fasi potevano essere molto brevi o assenti nei casi di combattimenti svolti in seguito ad agguati in acque ristrette o in situazione di ridotta libertà di manovra a causa della prossimità della costa.

Va innanzi tutto considerata la fase di avvicinamento al nemico da parte di una forza navale romana in mare. Poiché le navigazioni avvenivano normalmente a vela, l'avvistamento della flotta nemica determinava l'immediato cambio del sistema di propulsione: mentre i marinai provvedevano a serrare le vele e ad abbattere l'albero di maestra e il dolone (l'albero prodiero inclinato, avente la funzione di bompresso), i rematori mettevano i remi in acqua ed iniziavano a vogare, intonando il loro canto cadenzato (celeuma) per assumere prontamente il giusto ritmo.
Non appena il ponte di coperta era sgombero, i militi navali, o classiari (la fanteria di marina), predisponevano l'artiglieria e le altre armi da getto e montavano le torri da combattimento. Queste torri erano infatti realizzate in modo tale da potersi montare e smontare abbastanza rapidamente, fino a quando Marco Agrippa (durante il suo primo consolato, nel 37 a.C.) le perfezionò a tal punto da farle repentinamente erigere dal ponte senza la minima perdita di tempo.
Quanto al passaggio alla propulsione a remi, si trattava di un provvedimento indispensabile poiché la vela non consentiva alle navi antiche di effettuare evoluzioni sufficientemente strette in ogni direzione, né di acquisire in brevissimo spazio la velocità necessaria per speronare le unità nemiche.
Durante la fase di avvicinamento il comandante della flotta romana, con dei segnali ottici, emanava ordini per regolare la disposizione e la rotta dei propri reparti in modo da porre in massima difficoltà il nemico. Non vi era una tattica migliore delle altre e sempre vincente, ma, a seconda delle condizioni del momento, poteva risultare più conveniente cercare di aggirare la formazione nemica, o sfondarne la parte centrale, o scompaginarla solo lateralmente, o farla allungare in una certa direzione, o costringerla a ripiegare verso la costa (soprattutto se vi erano delle rocce affioranti o dei bassi fondali), e così via.

Non appena le più avanzate delle navi nemiche giungevano entro la gittata delle artiglierie maggiori, iniziava il lancio di missili (nel significato originario di questa parola latina), ovvero i massi, i grossi dardi e gli altri proiettili scagliati dalle grandi macchine da lancio imbarcate, come la catapulta, la balista e l'onagro. Fra i proiettili lanciati a grande distanza vi erano anche quelli incendiari, costituiti da vasi colmi di carboni accesi e pece, utilizzati dai Romani a partire dalla prima guerra Punica (Gneo Cornelio Scipione Asina in una battaglia navale nel corso dell'assedio navale di Palermo nel 254 a.C.) fino alla grande vittoria navale di Azio (31 a.C.), e occasionalmente anche in età imperiale (come riferito da Tacito e Vegezio). Fra i proiettili navali più anomali che siano mai stati usati dai nemici dei Romani vanno ricordati i vasi pieni di vipere lanciati su navi alleate dietro istigazione del perfido Annibale in occasione della guerra Siriaca (191-190 a.C.).
Tornando al nostro avvicinamento fra le due flotte contrapposte, quando la distanza delle navi nemiche si riduceva ancora, i classiari romani passavano alle armi a più corta gittata, come lo scorpione e le frecce degli arcieri (posizionati sulle torri), e procedevano infine al lancio dei giavellotti. Ulteriori focolai d'incendio potevano essere ancora creati con l'impiego di frecce avvolte con stoppa infiammata (imbevuta di olio, zolfo e bitume), oppure con il lancio manuale di torce resinose.

Si giungeva così al momento della fase tattica ravvicinata, situazione nella quale ciascuna unità doveva manovrare indipendentemente per schivare i rostri nemici e dirigere invece la propria prora rostrata in modo tale da colpire qualche unità avversaria. La soluzione più drastica e sbrigativa era quella di speronare la nave bersaglio nella sua fiancata, aprendovi uno squarcio che ne provocava quasi inevitabilmente l'affondamento. Ma la manovra ideale non era quella. I comandanti romani preferivano colpire con il rostro solo gli organi di governo (spezzando una fila di remi o uno dei due timoni) in modo da ridurre la capacità di manovra della nave nemica e poterla successivamente affiancare ed abbordare.
In questa fase di evoluzioni ravvicinate, un'altra arma alquanto efficace fu realizzata fissando alle prore una o due pertiche sporgenti che sorreggevano un contenitore di ferro pieno di sostanze combustibili infiammate. Tale artificio incendiario, ideato dalle alleate navi rodie e presto adottato da quelle romane, risultava incutere al nemico un terrore perfino maggiore di quello del rostro, provocando reazioni scomposte ed una conseguente riduzione delle capacità di difesa.

Da quanto abbiamo visto, è evidente che per poter pervenire ad effettuare degli abbordaggi occorreva innanzi tutto riuscire a passare indenni attraverso la convulsa fase delle evoluzioni ravvicinate in cui erano soprattutto i rostri a dettar legge. A quel punto, per abbordare una nave avversaria occorreva effettuare una serie di manovre molto abili per affiancarla, compensando prontamente le contromanovre del nemico. Va infatti detto che, se i Romani intendevano sempre ottenere quel risultato, la maggior parte dei loro nemici voleva evitarlo ad ogni costo, conoscendo la vigoria romana nel combattimento individuale corpo a corpo.
Quando una nave romana riusciva infine ad affiancarsi alla nave avversaria e ad abbordarla saldamente (cioè quando le due fiancate erano giunte a stretto contatto), scattava il vero e proprio arrembaggio: i classiari romani balzavano sull'altra unità vi affrontavano i difensori nemici. In questi combattimenti i contendenti non erano solo esposti ai colpi reciproci, ma anche alla costante minaccia del saettare delle frecce scagliate dalle torri di entrambe le unità. La lotta si concludeva normalmente con la cattura della nave nemica, a meno che nel frattempo non fossero prevalsi gli incendi o fosse sopravvenuto qualche altro speronamento.

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III. DAL CORVO ALL'ARPAX

L'arrembaggio costituiva dunque solo la parte conclusiva della battaglia navale, ma la sua fattibilità non era affatto scontata. Infatti, tutta la condotta dell'azione, dall'avvicinamento all'affiancamento, all'abbordaggio ed all'arrembaggio richiedeva una perizia navale e marinaresca superiore a quella del nemico. Questa sola constatazione avrebbe dovuto raffrenare i Romani quando questi si trovarono a fronteggiare le flotte di popoli dalla più antica e consolidata esperienza navale. Invece essi insistettero particolarmente nei loro sforzi per conseguire i risultati migliori proprio nelle azioni di arrembaggio, tanto erano convinti che si trattasse della modalità di attacco più razionale e redditizia. A tal fine, essi utilizzarono i normali attrezzi marinareschi necessari per l'abbordaggio, e forse concepirono anche alcune innovazioni che sono state riferite da qualche storico isolato, ma che risultano prive di ulteriori riscontri.

La prima e più nota di queste presunte soluzioni innovative fu il cosiddetto corvo, ovvero quella sorta di passerella mobile - posta a prora delle navi romane e manovrata come un picco di carico - che, secondo la testimonianza del solo Polibio, sarebbe stata introdotta da Caio Duilio sulla prima grande flotta di quinqueremi che Roma allestì per sfidare i Cartaginesi sul mare. Questa apparecchiatura, dalla dubbia attendibilità storica, è stata presentata come l'espediente mediante il quale i Romani poterono sconfiggere la flotta punica senza combattere una vera e propria battaglia navale ma solo una sottospecie di combattimento terrestre.
Naturalmente chiunque abbia una minima esperienza navale non può credere a questa favoletta, anche perché un attrezzo del genere, ancorché utilizzato con perfetto tempismo, avrebbe potuto assolvere la sua funzione soltanto nelle situazioni cinematiche più favorevoli, ovvero quando la nave romana e la nave vittima stessero già navigando grosso modo di conserva. In tali condizioni, la passerella, agganciandosi ai bastingaggi della nave avversaria, avrebbe effettivamente potuto rendere inevitabile l'abbordaggio. Per contro, se le due navi avessero navigato con rotte nettamente divergenti o addirittura di controbordo, la velocità relativa, associata alla cospicua forza d'inerzia delle quinqueremi, avrebbe certamente provocato lo scardinamento dell'attrezzo.
Secondo Polibio, comunque, nella prima occasione di impiego di questi corvi (acque di Milazzo, 260 a.C.) i Cartaginesi ne furono talmente spaventati – vedendoli incombere da ogni direzione – da subire una sonora sconfitta: il successo romano avrebbe quindi beneficiato del fattore sorpresa. Gli stessi corvi sono ancora citati da Polibio nella narrazione della grande battaglia navale di Ecnomo (256 a.C.), dove quegli attrezzi avrebbero però avuto solo un effetto dissuasivo. In tutte le successive attività delle flotte romane, non vi è più traccia dei corvi, né nella storia di Polibio, né in alcun'altra fonte.
La sparizione dei corvi dopo due sole apparizioni è stata recentemente messa in relazione con la notevole diminuzione di stabilità provocata dalla loro imponente mole, a prora delle quinqueremi, compromettendo la sicurezza di queste navi quando la flotta romana si imbatté in una violenta burrasca nel Canale di Sicilia e subì un gravissimo naufragio (255 a.C.). Questa spiegazione potrebbe essere plausibile, ma un'analisi filologica ancor più recente (Marta Sordi, 2002) è pervenuta alla conclusione che i corvi siano stati inventati dall'ammiraglio cartaginese sconfitto a Milazzo, per giustificarsi con un deus ex machina capace di trasformare la battaglia navale in una battaglia terrestre, cioè in un combattimento nel quale non era disonorevole essere battuti dai Romani.

In ogni caso, avendo sicuramente operato senza corvi in tutti le attività svolte per mare dal 255 a.C. in poi, i Romani riuscirono ad imporsi sui Cartaginesi sconfiggendoli definitivamente nelle acque delle Egadi (241 a.C.), avendoli nettamente superati proprio sul piano della pura perizia navale e marinaresca. Per abbordare le navi nemiche essi vi lanciavano manualmente le cosiddette mani di ferro ("manus ferreae"), termine che è stato utilizzato anche per indicare una delle astruse invenzioni di Archimede, ma che, nel contesto delle operazioni navali romane, va inteso come un attrezzo simile ad un semplice rampino o grappino d'abbordaggio.
In alternativa si usavano, sempre lanciandoli a mano, gli arpagoni ("harpagones"): strumenti un po' più pesanti, essendo costituiti da un'asta metallica uncinata, assicurata ad un corto spezzone di catena che proseguiva con il normale cavo vegetale.
Un'ulteriore evoluzione di questo attrezzo potrebbe essere stata ideata da Marco Agrippa, nel 36 a.C., prima di affrontare a Nauloco la flotta piratica radunata da Sesto Pompeo in Sicilia: si trattava – secondo il solo storico greco Appiano – del cosiddetto "arpax", che era più lungo e pesante dell'arpagone, ma veniva lanciato da una catapulta a distanza alquanto maggiore. Questo attrezzo, che potrebbe aver favorito la grande vittoria navale di Nauloco, non risulta essere stato più usato negli anni successivi.

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IV. VITTORIE NAVALI E TRIONFI

Scorrendo il lungo elenco delle vittorie navali romane che si sono snodate lungo l'arco di più di due secoli, fra quella di Milazzo e quella di Azio, si ha la piena conferma dell'elevata importanza attribuita dai Romani agli arrembaggi, determinando una netta prevalenza delle navi catturate rispetto a quelle affondate.
Possiamo verificarlo riepilogando sinteticamente i risultati conseguiti in occasione delle seguenti vittorie navali di particolare rilevanza: Milazzo (260 a.C.): 31 navi catturate, 14 affondate; Ecnomo (256 a.C.): 64 catturate, 24 affondate; Capo Bon (255 a.C.): 114 catturate, nessuna affondata; Egadi (241 a.C.): 63 catturate, 125 affondate; Corico (191 a.C.): 13 catturate, 10 affondate; Mionneso (190 a.C.): 13 catturate, 29 affondate; Bretagna (56 a.C.): circa 200 catturate, nessuna affondata; Nauloco (36 a.C.): circa 200 catturate, 28 affondate; guerra Aziaca (31 a.C.): 300 catturate, circa 200 affondate o bruciate. In totale, circa 1000 navi catturate contro 430 affondate.
A questi dati andrebbero ancora aggiunte le 110 navi rostrate catturate da Lucio Lucullo ed esibite nel suo trionfo (63 a.C.) e le 800 navi rostrate catturate da Pompeo Magno nella guerra Piratica ed in quella Mitridatica, come egli stesso poté ostentare con cartelli riepilogativi e "un infinito numero di rostri" in occasione del suo terzo trionfo (61 a.C.).

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V. I CLASSIARI

Rimane ora solo da capire chi fossero questi combattenti che, dalle navi romane, si lanciavano all'arrembaggio delle unità nemiche da catturare. Abbiamo già accennato alla tipica composizione dell'equipaggio delle navi da guerra dell'antica Roma, con tre distinte componenti: i marinai veri e propri, addetti alle tipiche manovre marinaresche (vele, ancore, cavi d'ormeggio, imbarcazioni, ecc.); i rematori, che, pur appartenendo ad una categoria meno pregiata della prima, erano oggetto di altrettante cure, data l'importanza della loro azione nei momenti più critici della battaglia navale; i militi navali, o classiari, che si occupavano di tutte le armi di bordo e dei combattimenti in mare contro gli equipaggi delle navi nemiche; essi costituivano inoltre la forza da sbarco primaria in caso di operazioni anfibie.

In origine (IV sec. a.C.) questi classiari erano stati forniti dalle marinerie italiche alleate di Roma, donde il loro altro appellativo di "socii navales". Successivamente il corpo dei classiari ebbe una consistenza più variegata (come accadde anche alle legioni), includendo sia dei cittadini romani – normalmente delle classi più povere, data la durezza del servizio a bordo –, sia dei liberti e dei cittadini delle provincie, ai quali veniva poi conferita la cittadinanza romana. Questa situazione è soprattutto riferita all'epoca imperiale, meglio conosciuta.
Prescindendo dai vari distinguo sulle origini dei singoli individui, l'impero nella sua totalità era romano, e dalle sue province provenivano anche i più alti funzionari e perfino gli imperatori; allo stesso modo, così come le legioni erano l'esercito di Roma, i classiari costituivano la "fanteria di marina" romana, cioè l'equivalente del nostro Reggimento S. Marco e dei "marines" degli anglosassoni.

Stando alla prosa notoriamente raffinata di Giulio Cesare, che parla di arrembaggi sia nel De bello Gallico che nel De bello civili, la corretta espressione latina per indicare l'azione di arrembare le navi nemiche era "in hostium naves transcendere".
I Romani erano perfettamente consapevoli che l'arrembaggio fosse l'attacco navale che richiedeva il maggior coraggio (oltre all'indispensabile "piede marino"): la più antica motivazione per la concessione della corona navale (o corona rostrata), considerata la più alta delle onorificenze militari, era "per essere balzato per primo, in armi, su di una nave del nemico". Ancora nel tardo Impero, Vegezio scriveva che vanno all'arrembaggio "coloro che sono resi temerari dal proprio coraggio".


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