INTERVISTA SUAUGUSTOrilasciata alla giornalista e romanziera Cristina Rodriguez
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NOTA . Proprietà letteraria (copyright © 2013) di Domenico Carro.
Questa intervista è stata rilasciata per posta elettronica nel mese di agosto 2006 a Cristina Rodriguez, in preparazione di un articolo sul piccolo tesoro di circa 450 monete romane di bronzo e di rame ritrovate nel 1951 nel Morbihan (Bretagna), la patria dell'antica popolazione marinara dei Veneti transalpini, duramente sconfitti da Giulio Cesare in battaglia navale nel 56 a.C. e ridotti all'impotenza. Fra tali monete, gran parte di quelle augustee risultavano "diffamate", presentando dei solchi intenzionalmente incisi con il bulino, in epoca antica, per sfregiare il volto di Augusto (figlio adottivo di Giulio Cesare). Una sintesi molto fedele dell'intervista è stata inclusa nell'articolo Le trésor d’Auguste de Port-Haliguen, pubblicato sulla rivista Numismatique & Change N° 375, Octobre 2006, pagine 32-34: in parte nel testo vero e proprio dell'articolo a firma C.R.Y (Cristina Rodriguez Yugueros), e soprattutto nel riquadro "Un peu d’histoire…".
Nato a Roma nel 1942 ed appassionato dell’antica Roma e del mare, ho frequentato le scuole francesi (in Algeria, a Roma ed a Marsiglia) fino a due anni dal baccalauréat, poi l’Istituto nautico di Procida e l’Accademia Navale di Livorno, ove ho conseguito la laurea in "Scienze marittime e navali". Ho successivamente percorso tutta la carriera di Ufficiale di Stato Maggiore della Marina Militare italiana, occupandomi soprattutto di tattiche navali, di operazioni marittime ed interforze, nazionali e multinazionali, così come di alta strategia e di problemi storici.
A partire dal 1992, ho iniziato a pubblicare una ricostruzione organica della storia navale dell’antica Roma (« Classica »), al ritmo di un libro all'anno. Nel 1996, ho deciso di lasciare il servizio attivo, nel grado di Ammiraglio di Divisione, per dedicarmi interamente ai miei studi romani. In questo quadro ho potuto completare i dodici libri di « Classica », ho pubblicato altre opere storiche e continuo a seguire diversi progetti mirati alla divulgazione culturale della civiltà romana, ad iniziare dall'aggiornamento del mio sito Internet « Roma Aeterna » (www.romaeterna.org).
Fra i momenti più critici della sua vita, occorre citare innanzi tutto la perdita di suo padre all'età di quattro anni, l'assunzione della toga virile a 14 anni sotto gli occhi paterni di suo prozio Giulio Cesare e, dopo altri quattro anni, i giorni tragici che avrebbero dato un senso a tutta la sua vita: quelli a partire dall’arrivo della notizia della morte di Cesare, trafitto da 23 pugnalate inferte in pieno Senato sotto il sinistro sguardo complice o soddisfatto della grande maggioranza dei senatori. Il giovane Ottavio non aveva allora che diciotto anni. Ciò nonostante, incoraggiato e sostenuto dal gruppo dei suoi valenti amici coetanei, egli accettò l’adozione che Cesare aveva formalizzato nel suo testamento e decise d’impegnare tutte le sue risorse e le sue energie per conseguire due scopi ai quali non volle più rinunciare: sottomettere al giudizio dei tribunali tutti i responsabili dell’assassinio di suo padre adottivo e fornire alla Repubblica i mezzi per non ricadere più vittima dell’arroganza d’una fazione potentissima e cinica, che non esitava a ricorrere ai crimini ed alla guerra civile per salvaguardare i suoi privilegi e curare i suoi propri interessi particolari, senza più preoccuparsi di quelli del popolo romano, dell’Italia e dell’impero.
Dopo quattordici anni di lotte durissime, avendo superato un'interminabile serie di difficoltà, di tranelli e di combattimenti terrestri e navali – situazioni nelle quali egli aveva ogni volta rischiato di perdere tutto –, egli pervenne infine ad imporsi su tutti i suoi avversari ed a ristabilire la pace e la legalità sulla terra e sui mari.
A quel punto, giunse il secondo momento decisivo della sua vita. Non aveva ancora che 33 anni ed era divenuto l’arbitro incontestato del destino di un impero immenso, che aveva appena recuperato un minimo di stabilità. Certo, egli avrebbe potuto rimettere tutti i suoi poteri e ritirarsi, oppure stabilire apertamente un regime monarchico, comme sembrano voler suggerire quelli che sono convinti che avrebbero saputo fare meglio di lui. Tuttavia, nel primo caso egli avrebbe lasciato le mani libere ai revanscisti della vechia oligarchia, che avrebbero inevitabilmente scatenato una nuova guerra civile. Nel secondo caso egli avrebbe firmato la sua condanna a morte, dando ai nostalgici delle idi di marzo esattamente ciò di cui avevano bisogno per agire. Egli scelse dunque una terza via, inventando qualcosa di assolutamente nuovo: questo "principato", che egli poté mettere a punto poco a poco, con il pragmatismo e tutta la prudenza che erano necessari, ma anche con una lucidità ed una lungimiranza assolutamente rimarchevoli. Occorre in effetti riconoscere che questa nuova istituzione, che era molto più di una "monarchia mascherata", dimostrò tutta la sua validità per almeno tre secoli, mentre i titoli di imperatore e di Augusto sono sopravvissuti ben oltre.
Quanto al carattere di Ottaviano Augusto, credo che lo si possa definire soprattutto couraggioso e determinato. Ben sapendo che non poteva avere né l’esperienza né il genio politico e militare di suo padre adottivo, egli si gettò con tutte le sue forze in tutte le battaglie, politiche e militari, terrestri e navali. Ciò gli fece subire parecchi insuccessi, anche molto gravi, ma egli non si scoraggiò mai. Ogni volta egli si riprese con una forza di volontà irremovibile e trovò il modo per superare tutte le difficoltà precedentemente incontrate.
Ciò che è molto evidente, purtroppo, è che la maggior parte degli storici moderni non sa trattenesi dal citare la presunta "propaganda" mediatica che avrebbe avuto un'importanza primaria durante il secolo d’Augusto. Si tratta di un'idea probabilmente nata deformando il ruolo ricoperto da Gaio Mecenate come protettore degli scrittori, e sopravvalutandone l’efficacia, come se egli avesse potuto transformare i suoi protetti in "scrittori di regime". Nonostante tutto, basta analizzare le opere di quegli scrittori per comprendere che si trattava di grandi talenti dotati di una forte personalità, tanto che non avrebbero mai accettato di prostituire la propria arte alle eventuali pressioni del potere politico. D’altonde si trovno ben poche lodi di Augusto nelle opere che ci sono pervenute: i poeti si sono limitati a poche brevissime allusioni a qualche evento storico peraltro universalmente noto, mentre l’imparzialità del maggiore storico dell’epoca, Tito Livio, parrebbe ben dimostrata dal fatto ch'egli ebbe la fama di pompeiano.
Quanto alla cura delle immagini vere e proprie, nelle monete e le statue di Augusto, potremmo forse sospettare, ai nostri giorni, che i ritratti avrebbero potuto esere idealizzati dagli artisti per adulare l’imperatore o per obbedire ad un suo ordine. Ma un dubbio di tal genere non avrebbe mai potuto sfiorare gli antichi Romani, secondo cui la qualità di un ritratto non scaturiva dalla bellezza della rappresentazione artistica ma dalla sua somiglianza con il soggetto raffigurato. I ritratti dell’imperatore dovevano dunque essere tali che tuitti vi avrebbero ravvisato la copia fedele dei suoi effettivi tratti somatici. In caso contrario, il tentativo d’alterare la realtà non sarebbe sfuggita alle reprimende ironiche dei poeti satirici ed alle derisioni ancor più feroci della popolazione dell’Urbe.
Su questo aspetto siamo confortati dalle informazioni date da Svetonio, sempre molto reticente quando si tratta di parlare delle qualità dei Cesari: egli non esita a descrivere Augusto come un uomo che aveva conservato la sua bellezza attraverso tutte le età, sebbene non se ne curasse affatto. Il volto così regolare che troviamo nelle sue monete e nelle sue statue doveva dunque essere proprio il suo.
Tutto ciò parebbe farci comprendere che Augusto non abbia apportato alcuna alterazione significativa alla sua immagine mediatica. Rimane da vedere se egli attribuiva a tale immagine une grande importanza. Non abbiamo alcun elemento per confermarlo, ma lo troverei comnque del tutto normale. È forse mai esistito un capo di Stato che non abbia attribuito alcuna importanza a questo aspetto? Nel caso di Augusto, ciò costituiva un'esigenza effettiva, visto che i ritratti sulle monete e sulle statue erano il solo mezzo disponibile per diffondere l'immagine del princeps in tutte le regioni dell'impero.
Ottaviano iniziò ad occuparsi della Gallia fin dall'inizio della sua azione politica, poiché questa provincia, che Cesare aveva affidato a Decimo Bruto, fu occupata da Antonio, che vi incontrò Lepido. Ciò diede allo stesso Ottaviano l’idea di riconciliarsi con quei due e di costituire con essi il Triumvirato. Dopo la guerra Farsalica, egli ricevette la responsabilità di tutte le province occidentali, ivi incluse - ovviamente - tutte le Gallie. Nella Gallia Cisalpina egli si impegnò personalmente nella difficile questione della requisizione delle proprietà terriere promesse ai veterani, cosa che gli procurò localmente une grande impopolarità. Una vittima illustre di tali espropriazioni fu il poeta Virgilio, che non serbò alcun rancore personale verso di lui.
Per amministrare le Gallie, Ottaviano si servì dei suoi due più stretti amici e collaboratori: prima Salvidieno, fino al momento della sua caduta in disgrazia per cospirazione, e poi Marco Agrippa. Quest'ultimo fu propretore in Gallia per due anni (39-38 a. C.) ed amministrò la sua provincia con saggezza e lungimiranza. Egli dovette reprimere dei fermenti in Aquitania e ristabilì la sicurezza della frontiera sul Reno.
Ottaviano tornò ad occuparsi delle Gallie subito dopo l’annessione dell’Egitto, per intraprendere nella zona delle Alpi una lunga serie di interventi militari che si conclusero definitivamente solo nel 14 a.C.. Tutta la regione costiera delle Alpi Marittime, fra l’Italia e la Narbonnese, divenne così une provincia imperiale.
Nel frattempo, lo stesso Ottaviano, divenuto Augusto, aveva iniziato a governare l’impero non limitandosi a rimanere a Roma, ma visitando le province per verificare sul posto le esigenze delle varie popolazioni e per adottare i provvedimenti che risultavano necessari. Egli condivise questo compito con il suo collega ed amico Marco Agrippa, ch’egli inviò prima nelle province occidentali, mentre egli stesso si recava in quelle orientali. Fu così che Agrippa tornò nuovamente in Gallia (20 a.C.), ove intrapresa degli imponenti lavori per creare una rete di comunicazioni stradali incentrate sulla capitale della province Lugdunense, Lione, e per altre opere civili, fra cui le costruzioni adesso note come la Maison Carrée (Nîmes) ed il Pont du Gard.
Successivemente, subito dopo la celebrazione dei Giochi Secolari a Roma (17 a.C.), Augusto fece un altro viaggio nelle province, andando stavolta nella parte occidentale dell’impero (le Gallie e le Spagne) mentre Marco Agrippa si recava in Oriente con il rango e tutti i poteri di un imperatore. Questo secondo viaggio durò oltre tre anni, poiché si conlcuse verso l'inizio del 13 a.C.. Dalle scarssissime informazioni che ci sono pervenute, si può intuire ch'esso ebbe lo scopo di consolidare gli ottimi risultati già conseguiti dal primo viaggio.
La viva attenzione manifestata da Augusto per la situazione in tutte le regioni dell’impero ed i suoi interventi diretti in loco, personalmente o tramite il suo "alter ego" Marco Agrippa, dovebbero aver dato alle popolazioni delle province la netta sensazione dei vantaggi della profonda mutazione istituzionale che era avvenuta. In effetti, l’instaurazione del principato augusteo non è solo stata una banale assunzione del potere da parte del principe, ma una trasformazione delle relazioni fra Roma e le province. Queste ultime non erano più una risorsa da sfruttare da parte della città conquistatrice, ma una parte di un grande impero posto sotto la responsabilità di un unico sovrano.
Appare dunque piutosto difficile immaginare il motivo per il quale l'immagine di Augusto avrebbe potuto suscitare dei sentimenti di odio nelle province ricche e ben curate comme quelle delle Gallie. Fra tali province vi era innanzi tutto la Narbonnese, che era da un secolo la prima delle province romane transalpine ed era già talmente romanizzata ch'essa avrebbe molto difficilmente potuto concepire dei sentimenti ostili al principe.
Eppure, aldilà di quanto si potrebbe dedurre dai segni di bulino su delle monete di Augusto, vi è un aneddoto narrato da Svetonio che parla d’un personnaggio importante della Gallia che aveva progettato di incontrare l’imperatore fin dal suo passaggio delle Alpi per ucciderlo, gettandolo in un precipizio dopo aver simulato di voler conversare con lui. Questo Gallo aveva tuttavia rinunciato a quel crimine dopo aver visto la dolcezza del viso di Augusto.
Da questo solo indizio, sarei propenso ad interpretare l’enigma delle monete "diffamate" come la manifestazione d’un rancore preconcetto provato da personaggi gallici che rischiavano di vedere assottigliare i loro poteri o privilegi a causa dei cambiamenti apportati dai Romani sotto il principato d’Augusto. Questi signori non avevano evidentemente avuto l’opportunità di incontrare personalmente l’imperatore.