Senato (2)



Estelle      

Salve Augusto, sono Estelle,

Vorrei che tu mi spiegassi che cos'è il Senato a Roma, qual è la sua funzione, che lo dirige, chi l'ha fondato; in breve vorrei che tu mi raccontassi di che si tratta.

Ringraziandoti anticipatamente.



Augusto      

L'Imperatore Cesare Augusto a Estelle, salve.

Quando vengo invitato a spiegare cos'è il Senato, non posso impedirmi dal ricordare con tenerezza il giorno della mia assunzione della toga virile. Ero ancora nei primi anni dell'adolescenza, ma il Divo Giulio Cesare aveva convinto mia madre della necessità di anticipare quanto più possibile il mio transito ufficiale nell'età adulta. Voleva evidentemente farmi iniziare al più presto la carriera pubblica, al fine di prepararmi, sotto la sua guida, a muovermi nella direzione del vasto programma di riforme che aveva intrapreso.

Come sai, l'assunzione della toga virile era l'evento più importante nella vita d'un giovane Romano, poiché questa cerimonia lo faceva passare dal mondo dell'infanzia a quello degli uomini, facendogli conseguentemente acquisire tutti i doveri ed i diritti d'un cittadino. Questo avveniva davanti agli altari degli dèi ed al Foro, nel corso di una serie di riti, di formalità e di festeggiamenti che avevano un carattere religioso, civile e familiare, e che erano seguiti da un gran numero di persone. Fra esse, i parenti più stretti ed i migliori amici amavano accompagnare i loro auguri per il nuovo cittadino con dei regali personali.
Nel mio caso, al di là della mia famiglia e del gruppo affiatatissimo dei miei amici, vi era un'affabile partecipazione di rappresentanti della gente Ottavia, cui appartenevo, e delle genti Azia, di mia madre, Marcia, del mio patrigno, e Giulia, della nobile discendenza di Venere e di Enea. Ma i posti d'onore erano stati occupati con noncuranza da molti senatori, che avevano voluto mostrarsi in pubblico ben sapendo che era particolarmente amato da Cesare. Tutto questo bel mondo era accompagnato dalla folla dei clienti delle varie famiglie, e ciò provocava inevitabilmente la presenza di moltissimi altri sfaccendati e curiosi che non mancano mai in tali circostanze.

Avevo, dunque, finalmente sfilato dal mio collo la bulla d'oro colma dei sacri amuleti che mi avevano protetto lungo l'intera infanzia, e ne avevo delicatamente deposto il contenuto sull'altare, con le altre offerte riservate alla divinità. Mi ero poi spogliato della pretesta, la toga orlata di porpora portata dai ragazzi, e mi predisponevo a sostituirla con la toga bianca, abito tradizionale e maestoso dei cittadini romani.
Fu allora che giungemmo al momento nodale della cerimonia. Mi trovavo in piedi innanzi a tutti, in posizione sopraelevata, rivestito solamente del laticlavio, la leggera tunica ornata da una larga banda di porpora. A quel punto, quando tutti i presenti seguivano quello che succedeva con la massima attenzione, scrutando ogni particolare alla ricerca di qualche segno soprannaturale che avrebbe potuto presagirmi un futuro fasto o nefasto, ecco che accadde l'inimmaginabile.
La mia tunica, che era evidentemente mal cucita sulle spalle da entrambi i lati, cedette improvvisamente e cadde ai miei piedi, lasciandomi nudo come un verme di fronte a tutti quanti. Sarei scoppiato a ridere se non avessi subito notato l'espressione afflitta che si spargeva, dipingendosi su tutti i volti e accompagnata da un «oooh!» appena soffocato, come se vi fosse stata l'evidenza d'un infelicissimo destino che mi attendeva. Ma sapevo perfettamente che non avevo nulla da temere dalla Fortuna. Reagii allora d'istinto dando un'altra interpretazione a quel buffo incidente. Calpestai un po' la tunica e dissi sorridendo: «Metterò sotto ai miei piedi la dignità senatoria!». Avendo tale frase avuto l'effetto di un vero e proprio vaticinio, la maggior parte dei presenti ne concluse che l'ordine senatorio, di cui il laticlavio era il segno distintivo, avrebbe dovuto in futuro sottomettersi alla mia volontà. E questa prospettiva li rese ovviamente ancor più preoccupati di quando avevano immaginato che tutte le disgrazie sarebbero ricadute solo sulla mia testa.

Questo aneddoto dimostra chiaramente che il Senato era sceso, a quell'epoca, ad un tale livello di bassezza, da venir ritenuto disprezzabile anche da un giovanissimo patrizio – quale ero io – naturalmente destinato ad accedere molto presto a quell'illustre assemblea.
In effetti, la frase che avevo pronunciato come una battuta, non era solo lo scherzo nervoso d'un adolescente in imbarazzo, ma l'espressione d'un profondo rancore provocato dall'atteggiamento iniquo e fazioso che il Senato aveva assunto pochissimi anni prima contro Cesare. La sua ostilità preconcetta ed ostinata l'aveva allora indotto a votare il decreto aberrante con il quale il pacificatore di tutte le Gallie veniva dichiarato nemico pubblico, e la Repubblica veniva conseguentemente abbandonata alla più assurda delle guerre civili. Per fortuna il Divo Cesare aveva saputo far valere molto rapidamente le proprie buone ragioni, ed avevo così potuto ridivenire console undici anni dopo il suo primo consolato, cioè nel pieno rispetto del termine dei dieci anni stabilito dalla legge. Ed ecco che, di colpo, i senatori avevano iniziato a lusingarlo proponendogli degli onori smisurati, per tentare di salvaguardare parte dei propri privilegi personali grazie al loro opportunismo ed alla loro ignobile adulazione.

Mi chiedi dunque che cosa fosse il Senato. Ai miei occhi, si trattava di un'assemblea di persone di cui bisognava diffidare, poiché avevano dimostrato d'essere pronte a tutto fintanto che si trattava di difendere i loro propri interessi. Ne ebbi in seguito la più terribile delle conferme. Quegli stessi senatori che avevano mantenuto un atteggiamento così ipocrita nei confronti di Cesare, ricoprendolo di lodi e di poteri, fino ad attribuirgli un'inutile «dittatura a vita» (mio padre ha sempre voluto deporre le sue dittature pochi giorni dopo averle assunte), rivelarono infine tutto il loro funesto egoismo con il crimine sacrilego che si consumò in pieno Senato, con l'istigazione, la partecipazione, la complicità e la soddisfazione degli stessi senatori.

Naturalmente il Senato non era sempre stato così. Ne ho già parlato in questa corrispondenza, e non lo ripeterò qui. Potrai trovare i dati essenziali nella lettera intitolata «Senato e arte militare» (XXII).
Il Senato era rimasto per quasi sei secoli all'altezza della sua grandissima fama, ed era stato a giusto titolo definito come una «assemblea di re», tanta nobiltà, saggezza ed equità si sprigionava da ciascuno dei suoi membri. L'efficacia della sua gestione della Repubblica, sia per la politica interna che per le relazioni esterne, è peraltro dimostrata dagli straordinari risultati raggiunti dal popolo romano.
È per tale motivo che, quando sono diventato censore, con Marco Agrippa, e poi «principe» del Senato (cioè il primo a prendere la parola durante le sedute), ho assunto vari provvedimenti per restituire a questa assemblea la dignità ed il decoro che le erano propri, e che meglio convenivano alla maestà di Roma.

Vale,

IMP. CÆS. AVG.


quebec

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