Religione Romana



Riccardo Ascione      

Ave Cesare,

Mi chiamo Riccardo Ascione, ho 35 anni e abito a Roma. Innanzi tutto, perdonami il mio francese (non lo parlo bene).
Sono appassionato della storia della mia Città e soprattutto dei costumi dei Romani del tuo tempo. Potresti darmi delle informazioni sui principi della Religione Romana?
Grazie molto.

Vale

Riccardo Ascione



Augusto      

L'Imperatore Cesare Augusto a Riccardo Ascione, salve.

Se hai la fortuna di vivere nell'Urbe eterna e di studiare la sua storia, che ti appassiona, saprai certamente che mi sono attivamente occupato di problemi religiosi in tutta la mia vita, essendo stato pontefice fin dall'età di 16 anni e Pontefice Massimo a partire dall'anno del primo consolato di Tiberio. Ciò dovrebbe bastare a farti capire che ho acquisito, più di ogni altro nella mia epoca, una conoscenza molto approfondita delle questioni religiose che riguardavano il popolo Romano.

Ebbene, ciò nonostante, non potrei mai farti un elenco di «principi» religiosi dei Romani, dato che la religione non è fatta di principi, ma di culti.
I filosofi possono far sfoggio dei loro principi filosofici, seguendo il pensiero del loro maestro. I moralisti possono tuonare i loro principi morali, facendoli derivare dalla legge naturale. Ma nessuno ha mai avuto l'impudenza di proclamare quali siano i principi che debbono regolare il comportamento degli uomini per compiacere davvero gli dei.
I culti, per contro, sono stati stabiliti per onorare gli dei, e non per imporre alcunché alle scelte ed alle decisioni degli uomini.

Stavo per concludere qui la mia risposta, quando mi sono ricordato della superstizione straniera che si è impossessata della nostra Città, e di cui avevo crudelmente percepito tutta la gravità in occasione delle lettere che sono sistemate in questa corrispondenza sotto al titolo «Riprodurre la gloria di Roma» (V-VI). Temo dunque che, in questa situazione così penosa, tu abbia bisogno di qualche ulteriore spiegazione. In effetti, quello che era evidente per i Romani della mia epoca potrebbe non esserlo più per quelli della tua. Aggiungerò, allora, ancora qualche parola sulla nostra concezione della divinità e sulla necessità dei culti.
Utilizzerò le espressioni più semplici e mi limiterò ai soli aspetti essenziali, poiché sarebbe imprudente permettere a degli occhi umani di sfiorare l'inconoscibile, mentre sarebbe del tutto sconsiderato dar loro l'illusione sacrilega di poter violare gli arcani degli dei.

Alla mia epoca, nessuno poteva dubitare che il popolo Romano, lungo tutti i sette primi secoli della sua storia, avesse sempre goduto della benevolenza divina. Questo privilegio straordinario, che era confermato dall'eccezionale potenza raggiunta da Roma, era messo in relazione con la nostra abitudine di dare un carattere religioso a tutte le azioni più importanti della vita pubblica, così come ad una moltitudine di eventi relativi alla vita privata di ogni cittadino. Questa continua cura del sentimento religioso, che noi abbiamo posseduto più di ogni altro popolo, si esprimeva attraverso numerose e multiformi manifestazioni del culto della divinità.
Cos'era dunque questa divinità? Per esserne certi, i Romani non avevano alcun bisogno di abbeverarsi avidamente alle spiegazioni ineffabili dei sapienti etruschi, né di andare alla ricerca di ogni sfumatura degli arzigogolati sofismi dei filosofi greci. La natura era sempre là, sotto ai loro occhi, con tutte le sue ricchezze, le sue meraviglie ed i suoi prodigi, sull'intera distesa delle terre e dei mari, così come negli spazi sfavillanti del nostro universo. In questo insieme così complesso e di incomparabile bellezza, i nostri avi avevano ravveduto una presenza divina che assicurava il mantenimento dell'equilibrio fra le diverse forze in gioco, regolate dalle supreme leggi dell'armonia.
Fin dalle epoche più remote, un gran numero di tali forze divine erano state oggetto di culti specifici, essendo state identificate con certi dei che erano venerati nel Lazio da tempo immemorabile. Fra questi ultimi, vi sono evidentemente i nomi più augusti e più noti, come Giove, Giunone e Minerva, Marte e Venere, Mercurio e Vesta, Giano e Saturno, Nettuno e Portuno, senza dimenticare la temibile Fortuna. Ma i Romani ne hanno considerati molti di più, non volendo trascurare alcuna delle manifestazioni della potenza divina, né alcuno dei valori nei quali andava riconosciuta un'essenza divina. Ecco dunque degli dei come Annona ed Opi, i Lari ed i Penati, il Tevere e l'Oceano, i Venti e le Tempeste, Libertà e Vittoria, Salute e Concordia, Pace e Sicurezza, così come Virtus, Gravitas, Fides, Honos, Pietas, Prudentia, Aequitas, Clementia, Disciplina, etc.
Più recentemente, i Romani hanno ritenuto opportuno accogliere a Roma i culti delle principali divinità venerate dalle popolazioni delle nuove province, coerentemente con il carattere sacro dell'Urbe nei confronti degli stessi Romani e di tutto il nostro impero. È peraltro nello stesso spirito che si è anche stabilito un culto per Roma Aeterna, da momento che quest'ultima aveva chiaramente assunto tutti gli attributi d'una dea.

Nel loro mondo popolati di uomini e di dei, i Romani hanno sempre saputo che queste due categorie avevano un ruolo complementare, pur conservando ciascuna la propria libertà e la propria dignità. Del resto, se gli dei erano immortali mentre gli uomini nascevano mortali, questi ultimi potevano avvicinarsi ai primi con la propria virtù, ciò che consentiva ai più fortunati di accedere alla divinità.
D'altronde, ogni uomo ha in sé qualcosa di divino, e fruisce nel contempo della protezione incessante del proprio genio, il dio tutelare che non l'abbandona mai.
In tali condizioni, sebbene non vi sia costretto da alcuna legge né da alcun altro strumento di pressione sociale o religioso, il Romano trova naturale rivolgersi agli dei per render loro onore, per porger loro qualche offerta o per esporre loro qualche particolare raccomandazione. Ma lo fa con tutta la sua fierezza e la sua normale gravitas, senza umiliarsi e prosternarsi come fanno i popoli d'Oriente, poiché ha il dovere di rispettare il dio che è in lui. E non ha alcun bisogno di promettere fiducia e devozione alla divinità, perché gli dei non sono dei bottegai interessati alla fedeltà della propria clientela.
Il Romano, in definitiva, non ha mai avuto né alcun obbligo religioso, né alcun principio religioso imposto, ma ha avuto la fortuna di possedere, fra le sue principali virtù, una pietas che lo portava naturalmente a manifestare la propria pietà religiosa, parimenti alla propria pietà filiale ed al suo amore per la Patria.

Quanto ai culti, essi furono giudicati necessari fin dai primissimi tempi della nostra Città. I primi sacrifici in onore degli dei vennero compiuti dallo stesso Romolo sul Palatino, poco dopo la fondazione di Roma. Ma fu il suo successore, Numa Pompilio, che diede ai Romani l'organizzazione fondamentale dei rituali sacri e dei sacerdozi ch'egli stesso vi aveva preposto: i Pontefici, i Flamini, i Salî e le Vestali. Al Pontefice Massimo egli affidò il compito di vigilare sulle cerimonie religiose pubbliche e private, affinché esse non potessero subire alcuna alterazione, a causa di qualche negligenza nella celebrazione dei riti tradizionali, o in seguito all'adozione di culti stranieri.
Questa struttura, che aveva lo scopo di assicurare che i Romani non affievolissero mai la propria pietà e che le cerimonie religiose permanessero sempre gradite agli dei, si è dimostrata perfettamente adeguata. In effetti, alla mia epoca, dopo più di sette secoli di vita, essa aveva ancora conservato tutte le principali caratteristiche che le erano state conferite dal savio re Numa. Inoltre, essa aveva consentito ai Romani di mantenersi fedeli al loro patto di mutuo sostegno fra uomini e dei, cosa che aveva salvaguardato la Pax Deorum.

È proprio per tale motivo che le mie azioni da pontefice e da Pontefice Massimo sono state soprattutto tese alla preservazione del nostro ricchissimo ed insostituibile retaggio di tradizioni religiose. Ero consapevole che ogni alterazione dell'equilibrio così perfetto che era stato raggiunto avrebbe potuto provocare delle conseguenze imprevedibili. In realtà, gli effetti dell'empietà avrebbero fatalmente nuociuto al popolo Romano, e sarebbe stato alquanto arduo porvi rimedio, poiché in tali circostanze perfino gli dei sono impotenti.

Sfortunatamente, puoi benissimo constatarlo di persona.

Vale,

IMP. CÆS. AVG.


quebec

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