La condizione servile



M.E      

Ave Cesare,

Quale privilegio di potersi rivolgere, attraverso i secoli, ad uno dei principali artefici della grandezza di Roma.
Parliamo, se non ti dispiace, di una delle sue basi che noi, uomini di questo secolo, consideriamo come non molto splendente, e cioè la schiavitù.
Come, secondo te, si presenta la "questione servile" per Roma: saresti pronto ad erigere delle migliaia di croci per reprimere una rivolta servile, sull'esempio dei tuoi padri? Oppure tratteresti con un nuovo Spartaco, se mai se ne sollevasse uno?
A titolo personale, come vedi i numerosi schiavi che ti gravitano intorno: pensi che sono delle cose (un po' come i numerosi elettrodomestici che utilizziamo nel nostro secolo), oppure li consideri come degli uomini? In tal caso il loro stato non è una vergogna per Roma e per il genere umano?

Grazie della tua risposta.



Augusto      

L'Imperatore Cesare Augusto all'ignoto "M.E", salve.

Vedo che non hai firmato il tuo messaggio. Sei uno schiavo senza nome? Ciò non mi disturberebbe affatto. Anche se tu fossi davvero uno schiavo, non esiterei a rispondere alle tue domande.

Non è il tuo caso, ovviamente, poiché mi sembra già sentirti replicare molto fieramente che da te la schiavitù non esiste più. Ma sei comunque convinto d'essere talmente poco libero, da non poterti permettere di esprimere pubblicamente le tue idee. E tu vieni a dirmi che delle persone di cui non sai praticamente nulla dovrebbero vergognarsi per qualche motivo che era loro sconosciuto, mentre tu stesso non ti vergogni nemmeno di esprimere la tua moralità posticcia ed ipocrita nascondendoti sotto i vili cenci dell'incognito.

Si tu avessi studiato qualcosa della civiltà romana, avresti saputo che lo scopo per il quale le nostre leggi sono state redatte non è mai stato quello d'imporre a chiunque delle credenze romane, né di proteggere degli interessi romani, né di sostenere l'egemonia romana, né di abbandonare gli altri popoli all'arbitrio dei governatori romani, né di sottomettere alcun individuo agli abusi dei grandi proprietari romani. Le nostre leggi sono state il risultato dello studio coscienzioso ed obiettivo, da parte dei grandi giureconsulti romani, dei principi fondamentali del diritto naturale e del diritto delle genti. In altre parole, i nostri giureconsulti hanno trasferito nelle nostre leggi i principi ed i sentimenti che, alla loro epoca, erano comuni a tutti i popoli del mondo conosciuto, per quanto concerne ciò che è giusto e ciò che non lo è. Essi l'hanno fatto con un grande rigore giuridico e sfruttando le più romane delle loro qualità: il senso comune e l'equità naturale. È d'altronde grazie al valore universale di queste leggi che il diritto romano è stato accettato senza obiezioni da tutte le popolazioni dell'Impero. Difatti, queste stesse popolazioni hanno trovato nelle nostre leggi lo strumento più potente per sostenere i loro diritti davanti ai magistrati romani o al cospetto del Senato di Roma, ogni volta ch'esse hanno avuto la sensazione che tali diritti non fossero stati perfettamente rispettati.

Con queste leggi, la giustizia corrispondeva alla legalità e l'ingiustizia all'illegalità. La prima doveva essere protetta per salvaguardare i diritti dei cittadini onesti, la seconda doveva essere repressa, per proteggere la sicurezza collettiva. Vi è forse qualcosa di scandaloso o di vergognoso in questo? O non bisogna ricercare proprio nell'applicazione delle leggi le fondamenta essenziali d'una società civile?

Tu ti scandalizzi per una schiavitù che non conosci, e che era perfettamente legale alla mia epoca, poiché rientrava allora fra le regole accettate senza eccezioni da tutto il genere umano. Credi che uno schiavo dovesse necessariamente pensare che la sua condizione servile fosse un'ingiustizia? Niente di più falso. Quella condizione poteva essere in molti casi penosa, ma mai ingiusta, fintanto che le leggi erano state rispettate. D'altronde uno schiavo poteva essere molto infelice se era molto maltrattato, o molto felice se era molto ben trattato, o ancora di tutte le sfumature comprese fra quei due estremi. Egli aspirava ovviamente alla libertà, ma sapeva anche che poteva pervenirvi, sia con il suo comportamento leale ed irreprensibile, che suo padrone avrebbe molto probabilmente ricompensato con la manomissione, sia economizzando il peculio che gli veniva versato regolarmente, in modo ch'egli potesse affrancarsi con il proprio denaro.

Ma tu mi dici che la nostra società non era "molto splendente" perché le case più ricche e le grandi proprietà alloggiavano delle grandi quantità di personale di condizione servile. Probabilmente immagini questi servi in uno stato disgustoso ed afflitti dalle peggiori sofferenze, mentre, nella maggior parte dei casi, erano tutti ben lavati, pettinati, rasati e profumati, con le loro tuniche fresche ed immacolate, con le loro occupazioni discrete e misurate, con un orario di lavoro agevolmente sostenibile e con le loro piccole disponibilità finanziarie che consentivano loro di godere di quasi tutti i piaceri leciti che la vita può offrire agli uomini di condizione libera.

Quanto alla libertà, nel nostro mondo essa era considerata, a giusto titolo, un bene estremamente prezioso, ma non il bene più prezioso in assoluto. Credi forse che tutti i disperati che voi fingete di non vedere nelle periferie delle vostre grandi città siano perfettamente soddisfatti della loro assoluta libertà di morire di fame? Alla mia epoca, la Repubblica se ne preoccupava costantemente, assicurando la disponibilità di grandi risorse al prefetto dell'Annona, che era responsabile dei rifornimenti e delle distribuzioni gratuite di grano e di altre derrate alimentari a tutti coloro ne avessero bisogno. Ciò nonostante, quelli che non si accontentavano di quel minimo che bastava loro per vivere, ma volevano pervenire ad un livello più confortevole, preferivano cedere sé stessi in schiavitù, cosa che avrebbe loro permesso di condurre una vita migliore in tutti i sensi: una casa dove ripararsi in piena sicurezza, dei vestiti puliti, dei pasti caldi, una compagnia affidabile, un lavoro regolare, degli spiccioli da spendere liberamente per le piccole spese e delle somme più consistenti da risparmiare per il futuro, l'accesso alle terme ed agli spettacoli, etc., etc.; ed inoltre, come dicevo, la possibilità di migliorare progressivamente il proprio trattamento man mano che riuscivano a farsi apprezzare dai propri padroni.

Secondo te, nonostante tutto, questi schiavi erano talmente infelici che hanno partecipato ad una grande rivolta che i Romani hanno voluto reprimere con "delle migliaia di croci". Bisognerebbe almeno leggere la storia prima di avventurarsi in giudizi troppo arditi.

Spartaco non era uno schiavo ma un gladiatore, che aveva scelto quel mestiere dopo essere stato soldato, disertore e brigante. La rivolta iniziò con un ammutinamento di gladiatori di Capua (laddove era Spartaco), ai quali si sono uniti dei detenuti, dei pirati e dei schiavi fuggitivi. Dopo aver rubato delle armi e commesso i loro primi crimini, hanno iniziato a reclutare tutti i malfattori, i disperati, i briganti e gli schiavi incontrati nelle campagne ch'essi devastavano. Il rimarchevole addestramento militare dei gladiatori permise loro di inquadrare questi uomini secondo l'organizzazione delle legioni romane, cosa che ha conferito alle loro truppe un'immediata credibilità nelle zone rurali ove passavano. Ciò si è tradotto in un progressivo e rapidissimo aumento dei loro effettivi, incoraggiato dalla crescente fama delle forze della sedizione. L'anno seguente le armate di Spartaco erano talmente potenti ch'esse affrontarono in battaglia le legioni romane comandate da uno dei consoli. Esse fecero a pezzi quelle legioni e distrussero subito dopo il campo di quelle del proconsole della Gallia Cisalpina. Spartaco si preparò allora a marciare contro Roma, ma le sue armate vennero infine respinte dal pretore Marco Licinio Crasso. Quest'ultimo le inseguì fino all'estrema punta dell'Italia, poiché Spartaco sognava di sbarcare in Sicilia, con l'aiuto dei pirati cilici, e di impadronirsi di quest'isola (secondo il piano seguito trent'anni dopo dai pirati di Sesto Pompeo, contro il quale dovetti combattere). A quel punto, gli sforzi congiunti del pretore Marco Crasso, del propretore della Sicilia Marco Verre e del proconsole Pompeo Magno che rientrava dalla Spagna, aiutati dal timore dell'imminente sbarco del proconsole Marco Lucullo che rientrava dal Ponto Eusino, ebbero infine ragione delle armate di Spartaco, che furono annientate. Ci volle praticamente tutto il potenziale delle forze della Repubblica per neutralizzare la minaccia suscitata dalle armate di Spartaco, che si erano comportate come quelle dei più pericolosi nemici che i Romani avessero mai affrontato. Non credo davvero che si possa parlare di quei sediziosi come dei poveri sbandati indifesi sui quali ci si doveva impietosire.

Tu vuoi sapere cosa avrei fatto se fossi stato là. Ebbene, non avrei certamente trattato, perché non è concepibile, per un Romano, trattare con un nemico in armi che occupa il suolo della Patria. Avrei dato il mio contributo alle azioni militari contro le armate della sedizione. Dopo la loro sconfitta, avrei fatto applicare le leggi, senza rancore e senza odio, ma anche senza alcuna debolezza, esattamente come l'hanno fatto Crasso e Pompeo.

Vuoi infine sapere "come vedo" gli schiavi che mi attorniano. Li vedo tali e quali come sono, come tutti. Secondo quale logica un Romano avrebbe potuto considerare che quelle persone erano delle cose?

D'altronde, se si trattasse di cose, non sarebbe stato possibile affrancarle e farle divenire dei cittadini romani. Tu sai quanti ne ho affrancati? Una quantità enorme. Il maggior numero durante la guerra di Sicilia, quando preparavo la grande flotta per affrontare i pirati. Molti schiavi mi avevano raggiunto spontaneamente per imbarcarsi sulle navi, altri mi vennero inviati dai miei amici e da molti senatori, cavalieri ed altri cittadini agiati. La flotta fu infine pronta nell'anno del primo consolato di Marco Agrippa. Allora, poiché non si potevano ammettere negli equipaggi delle navi da guerra degli uomini che non fossero di condizione libera, ho affrancato in una sola volta tutti quei schiavi. Erano ventimila.
Penserai forse che, avendo bisogno delle braccia che dovevo mettere ai remi, avevo affrancato quelle braccia pur continuando a considerarle delle cose. Non è così semplice, poiché avevo effettivamente dato la libertà a ventimila uomini che, grazie al loro servizio sulla flotta, erano destinati a divenire dei cittadini romani.

D'altra parte, non affrancavamo mica solo gli schiavi muscolosi. Dovresti sapere che fra i liberti dei Romani, vi fu una grandissima quantità di persone che si sono illustrate per le loro notevoli qualità intellettuali. Conoscerai certamente il poeta epico Andronico, che era stato catturato ancora bambino al termine della guerra contro Pirro e la città di Taranto: portato a Roma in schiavitù, egli fu affrancato da Lucio Livio Salinatore, che gli diede il nome di Lucio Livio Andronico. Egualmente, il poeta Stazio Cecilio, amico intimo del grande Ennio, era in origine un Gallo Insubre, preso come schiavo e poi affrancato da un Cecilio. E ancora, il poeta comico Terenzio, d'origine berbera, era stato portato in schiavitù dall'Africa a Roma dal senatore Publio Terenzio Lucano, che l'affrancò dandogli il nome di Publio Terenzio Afro. Alla mia epoca, il poeta Orazio ricordava con un certo orgoglio ch'egli era il figlio d'un liberto, cosa che gli aveva permesso d'essere un cittadino romano a pieno titolo, con i suoi tre nomi Quinto Orazio Flacco.
Io stesso, come dicevo, ho affrancato un gran numero di miei schiavi, dando loro, secondo la tradizione, il mio prenome ed il nome della mia gente, l'illustre "gente Giulia". Uno di quelli che molto probabilmente conoscerai è il mio bibliotecario Igino, che è stato il responsabile della più grande biblioteca pubblica di Roma, quella di Apollo, che ho costruito sul Palatino, proprio davanti alla mia casa. Egli è anche stato un autore talmente prolifico che amava essere paragonato a Marco Varrone. L'ho dunque affrancato, facendolo divenire il rispettabile Gaio Giulio Igino.

Un particolare che dovrebbe farti riflettere, è che nessuno scrittore del mondo romano, nemmeno fra quelli che erano effettivamente vissuti per anni in schiavitù, nessuno di essi ha mai scritto nulla sull'ingiustizia della condizione servile o sul trattamento inumano riservato dai più duri dei padroni ai loro schiavi. Eppure essi erano liberi di scrivere tutto ciò che passava loro per la testa, anche se si trattava di burle di pessimo gusto sul loro Imperatore.

Un ultimo piccolo particolare che dovrebbe farti riflettere ancor più, è che tutte le volte che un cittadino romano è stato oggetto di qualche violenza, gli schiavi che si trovavano presso di lui gli hanno dimostrato tutta la loro fedeltà, anche a rischio della loro vita. Non credi forse che avrebbero dovuto mantenere un atteggiamento ben più prudente se non avessero sopportato né la loro condizione né l'arroganza di quell'uomo? Eppure, quanti esempi di devozione e di vero e proprio amore per il loro padrone ci hanno mostrato!
Un caso molto noto è quello degli schiavi di Cicerone che avevano cercato di battersi con i loro bastoni contro i vigorosi soldati in armi inviati da Marco Antonio per mettere a morte il vecchio senatore.
Un altro caso ancor più impressionante si era verificato l'anno prima, in occasione dell'orribile assassinio di mio padre. Quando egli cadde sotto i colpi di pugnale dei suoi vili assassini, e rese la sua anima divina agli Dei immortali presso i quali venne in seguito accolto, tutti i senatori presero immediatamente la fuga. Nella Curia restava solo il suo corpo profanato, al quale nessuno avrebbe osato avvicinarsi, non sapendo quale sorte spaventevole poteva essere riservata a chi avesse mostrato qualche segno di pietà nei confronti del Dittatore abbattuto. Ebbene, in quella situazione che aveva gelato di paura e d'orrore i cittadini più valenti, tre schiavi che Cesare aveva lasciato fuori osarono entrare nella sala vuota, prendere il corpo insanguinato, deporlo rispettosamente nella portantina, e trasportarlo essi stessi, con andatura malferma (poiché erano solo in tre), fino a casa. In un contesto di terrore incontrollato, tale che perfino il potente Marco Antonio aveva preferito prendere il largo come tutti gli altri senatori, in una città percorsa dagli scoppi d'una rabbia folle ed incendiaria dalla quale nessuna via era al riparo, questi tre semplici schiavi non avevano voluto sottrarsi al loro spontaneo moto d'amore e di pietà filiale nei confronti delle spoglie del loro padrone.

E tu vieni a dirmi che avremmo potuto considerarli come "delle cose"!

Vale,

IMP. CÆS. AVG.


quebec

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