I miei successori



Olivier      

Ave Cesare,

Innanzi tutto vorrei ringraziarVi d'aver risposto alle mie precedenti domande. Desidererei porvene una terza: Voi che foste il fondatore d'un Impero potente ed esteso, che pensate degli uomini che Vi hanno succeduto? E qual è il Vostro parere sull'atteggiamento ch'essi hanno adottato per far fronte alla crescita del cristianesimo?

Il Vostro fervente ammiratore.
Olivier.



Augusto      

L'Imperatore Cesare Augusto a Olivier, salve.

La maggior parte di quelli che mi pongono delle domande sulla mia successione iniziano con l'esternare tutta la loro afflizione per la sfortuna di cui sarei stato vittima a causa della morte prematura d'un gran numero di persone alle quali avrei voluto affidare le cure della Repubblica alla fine della mia vita terrena. Tu non l'hai fatto, per fortuna, ma inizierò comunque da questo aspetto, al fine di rimuovere subito ogni rischio di malinteso. Certo, ho provato un dolore immenso per la perdita di mio nipote Marcello, così come per quella del mio prezioso amico e genero Marco Agrippa, e dei suoi due figli Gaio e Lucio. Ma sarei stato ben ingrato verso gli Dei se avessi rimproverato loro l'incertezza della Fortuna, anziché ringraziarli per la singolare longevità ch'essi avevano assicurato a me stesso ed alla mia cara Livia. Il prezzo da pagare, quando si ha una vita più lunga degli altri, è ovviamente quello di avere anche un più elevato numero di lutti.

Veniamo allora ai miei successori. Mio figlio Tiberio era evidentemente il mio erede naturale. L'ho accuratamente preparato al difficile compito che l'attendeva. L'ho anche associato all'Impero chiedendo al Senato di attribuirgli il potere tribunizio, e gli ho fatto adottare il mio giovane e promettente nipotino Germanico. Si trattava d'una soluzione eccellente, e mi sembra che abbia funzionato molto bene nei primi anni dopo la mia apoteosi, fino alla tragica morte di Germanico. Ma fu comunque il più giovane figlio di quest'ultimo, il coraggioso Gaio, che è succeduto a Tiberio; e poi vi è ancora stato il fratello di Germanico, seguito dal nipote di Gaio. Tutto ciò è dunque avvenuto in un modo perfettamente coerente con i criteri che avevo adottato.

Cosa penso di questi successori? Ciascuno ha interpretato il suo ruolo secondo la propria indole, e tutti hanno contribuito a render più solida la Repubblica, e questo ha aumentato la sicurezza ed il benessere a Roma, in Italia ed in tutte le province dell'Impero. Conoscevo già il rigore di Tiberio, così come le insospettabili capacità del fratello malaticcio di Germanico, mentre ho avuto il grande piacere di scoprire le ammirevoli qualità del generoso Gaio, e la sorprendente genialità del suo inimitabile nipote. Del primo ho peraltro trovato un'eccellente testimonianza, fra la documentazione che mi è stata recentemente passata dai prefetti di Dialogus, con la loro abituale cortesia. Si tratta del libro "Le César aux pieds nus", scritto da una giovane scrittrice gallica, Cristina Rodriguez, in collaborazione con il suo amico romano Domenico Carro, e pubblicato presso Flammarion. È uno dei rari testi recenti nei quali ho potuto ritrovare tutta la freschezza ed il fascino del mondo romano e dei suoi personaggi.

Quanto alla superstizione di cui parli, non credo ch'essa abbia potuto meritare la minima attenzione da parte delle persone oneste sotto il principato dei miei discendenti. Solo l'ultimo di essi ha dovuto occuparsi di certi fanatici che erano seriamente implicati nel grande incendio di Roma. Essi erano stati sorpresi nelle vie dei quartieri che bruciavano, nell'atteggiamento di gettare dei tizzoni per ravvivare le fiamme e di opporsi ai vigili ed ai cittadini che si prodigavano nella lotta contro l'avanzata del fuoco. Essi avevano dichiarato la loro appartenenza ad una setta giudaica fino allora sconosciuta, quella dei partigiani d'un certo Chrestos. Ma tale tentativo di attirare su di essi la clemenza del principe, approfittando della protezione che lo stesso Nerone e sua moglie avevano sempre accordato alla minoranza giudaica, non poté evitar loro la giusta punizione per il loro crimine imperdonabile.

Sai bene cos'è successo nel periodo successivo. Ciò risulta abbastanza bene nei vostri testi di storia, malgrado certe interpolazioni piuttosto grossolane che hanno alterato il racconto dei fatti durante i secoli più bui. Quello che mi sembra in ogni caso ben evidente è che, a fronte di quella che tu chiami "la crescita del cristianesimo", certi principi sono stati più tolleranti, altri più fermi. Per giudicare se essi siano stati troppo duri o troppo deboli, occorrerebbe esaminare quali fossero le situazioni specifiche nelle quali ciascuno di essi si è trovato a governare. Il risultato finale prova comunque che l'efficacia generale di tutti i loro sforzi è stata insufficiente, visto che quella "crescita" è continuata fino a corrompere mortalmente tutto l'Impero. Dovremmo allora concluderne che i miei successori avrebbero dovuto reprimere ben più rudemente questa superstizione, al fine di estirparla radicalmente? Non è affatto ciò che penso.

Tutti conoscono gli sforzi che ho fatto, ogni volta che l'ho potuto e soprattutto nel mio ruolo di Pontefice Massimo, per rinfocolare l'affetto dei Romani per la loro religione tradizionale, che assicurava il mantenimento del culto delle loro migliori virtù individuali, civiche e militari. Ma questo non voleva dire che occorresse bandire tutti gli altri culti, che giungevano a Roma dalle altre sponde del Mediterraneo ogni volta che una nuova provincia vi era stabilita. In effetti, quando un nuovo popolo diventava amico ed alleato del popolo Romano, Roma gli dava le proprie leggi, ma essa stessa iniziava anche ad adottarne i costumi che apparivano i più meritevoli d'interesse; e la stessa cosa accadeva con le dottrine filosofiche ed i culti religiosi. I Romani si erano comportati così fin dai primissimi tempi, quando Romolo aveva promosso la loro unione con i Sabini; ed essi avevano continuato ad applicare lo stesso criterio con gli Etruschi, i Latini, e tutte le altre popolazioni ch'essi avevano via via associato al loro stesso destino. Ecco cos'era Roma, ed ecco perché tutti i popoli dell'Impero si riconoscevano in lei. Il mondo romano era dunque un mondo aperto a tutti i popoli ed a tutti i loro Dei.

Questo sistema, prediletto dagli Dei immortali, s'era dimostrato talmente valido lungo gli otto primi secoli della nostra Città Eterna, che ogni intolleranza religiosa ci sarebbe apparsa come un'empietà. Ma è esattamente questo genere d'empietà, che, venuta da uno degli angoli più aridi dell'Oriente, si è accompagnata all'esaltazione fanatica ed al disprezzo delle leggi e delle nostre tradizioni più auguste, per riempire d'un odio implacabile tutto il nostro mondo e condannarlo al suicidio. Purtroppo, nessun Romano avrebbe potuto respingere con efficacia una tale infamia senza rinnegare la sua propria natura.

Vale,

IMP. CÆS. AVG.


quebec

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